‘Oceano mar’e, la pomposità di Alessandro Baricco

“Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorare qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una sola parola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare”.

Oceano Mare è la seconda opera narrativa di Alessandro Baricco, pubblicata nel 1993 dall’editore Rizzoli. Il titolo è un superlativo, infatti il primo elemento ha valore di intensificativo del secondo e serve a celebrare il mito del mare che sarà alla base della storia, con evidenti richiami a Melville. Si tratta di un romanzo corale che appare dipinto, più che scritto, dato che la storia e i personaggi ivi narrati sono come pennellate sparse su di una tela, accennati ed impenetrabili, in un universo indefinito e senza tempo, che richiama elementi ottocenteschi. Alessandro Baricco elabora in questa sua seconda opera, dopo il romanzo d’esordio Castelli di rabbia, una tecnica di scrittura più consapevole e personale, più matura e scorrevole. Una vena antipsicologica, irrazionale, fantastica pervade la sua narrativa, dove le cose non hanno bisogno di motivi: accadono e basta, son lì a stupire, colpi di dadi nel gioco del Caso.

La locanda Almayer, nome che trae spunto dall’opera di J. Conrad, La follia di Almayer, è sita a Quartel e fa da sfondo e da non-luogo di passaggio per il viaggio metafisico dei protagonisti, posta tra la terra e il mare. La vicenda inoltre trae spunto da una tragedia, sepolta nel tempo, che ha visto naufragare una fregata francese, l’Alliance, al largo della costa del Senegal. L’intero equipaggio non poteva essere contenuto nelle poche lance a disposizione, così 147 uomini furono stipati su di una zattera collegata alle lance da una corda. Che la corda sia stata tagliata volutamente o meno, i naufraghi restarono presto sperduti nel mare, soli con i propri istinti e con una quantità esigua di scorte. Il marinaio Thomas sopravvive a questo inferno e  l’unico scopo della sua vita rimane la vendetta, la stessa che lo porterà a seguire un uomo, il Dottor Savigny, fino alla locanda Almayer, calamita di tutte le storie intrecciate nel romanzo. Il mare è luogo di salvezza, di ricerca di un senso, punto di snodo per raggiungere una più completa consapevolezza di sé, come afferma Giovanardi ne I segreti della locanda Almayer (La Repubblica 07-01-03):

“Dall’Odissea fino a Moby Dick, il mare ha sempre rappresentato in vari modi, il tramite per una clamorosa uscita da se stessi, dai propri limiti, dai propri ambienti, dalla propria natura, e ha dunque incarnato un´istanza di estroflessione, di scoperta anche rischiosa e violenta del mondo o comunque dell’altro da sé, qui esso finisce per circoscrivere un luogo immaginario […] in cui alcuni stralunati personaggi tentano disperatamente di incontrare se stessi”.

La narrazione si divide in tre libri:  La locanda Almayer, Il ventre del mare e I canti del ritorno. Tale suddivisione sembra essere spiegata ne Il ventre del mare, quando Thomas ricorda le parole del marinaio Darrell: “quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tormare vivi”.

La prima parte del romanzo rappresenta quindi  “quelli che vivono davanti al mare”; qui vengono dipinti i tratti essenziali di tutti i personaggi: Plasson il pittore, Elisewin, malata di “paura”, e il suo padre spirituale Padre Pluche, il Professor Bartleboom, studioso strampalato, Ann Deveria, l’adultera, Adams, falsa identità sotto cui si cela il marinaio Thomas e la sua voglia di vendetta.

La seconda parte simboleggia “quelli che si spingono dentro il mare” e narra, attraverso una digressione, la tragica e sventurata vicenda dei naufraghi della fregata Alliance. La terza sezione fa riferimento a “quelli che dal mare riescono a tornare vivi” e racconta di come tutti i personaggi sopravvivono alla locanda Almayer e a quello che per loro rappresenta, non tutti raggiungeranno il proprio obiettivo ma in un modo o nell’altro arriveranno alla salvezza agognata e a una maggiore conoscenza di sé. A chiudere le vicende dei protagonisti la scoperta dell’ultimo ospite, rimasto nascosto per tutto il tempo nella stanza numero sette. È uno scrittore inquieto, un alter ego del narratore, anche lui, come gli altri ospiti della locanda, schiavo di un sogno: dire il mare.

Consapevole del proprio tentativo e del suo successivo fallimento, fa le valige, abbandona la propria stanza  e si rimette in cammino. Dopo l’abbandono dell’ultimo ospite, ormai solo un’ombra in lontananza, la locanda Almayer e la spiaggia scompaiono sgretolandosi, mostrandosi ancora una volta non come un luogo di questo mondo ma come un frutto della mente del lettore,  si sgretolano volando via in milioni di frammenti che si librano in aria, leggeri di una leggerezza che pervade tutto il romanzo. Le storie dei personaggi, gli intrecci, i paesaggi, tutto sembra sempre appena accennato, privo di quella pesantezza che gli consentirebbe di posarsi e di attecchire, con l’utilizzo degli stessi artifici tecnici di Castelli di rabbia come l’uso del corsivo e i  sospensivi che indicano i silenzi.

Non a caso i protagonisti sono tutti in viaggio, solo di passaggio a Quartel, che non è né punto di partenza né di arrivo, centro di smistamento delle anime che indica la via per poi proseguire. Il mare è fonte battesimale di una nuova vita, il mare è divinità pagana a cui affidare le proprie pene, il mare che non ha né inizio né fine, il mare che non si può dire. Il mare che invita a non avere limiti e a provare nostalgia e pena verso il passato, carico di rimorsi dettati dalla paura di vivere davvero. Terminato il proprio compito, la locanda Almayer può dissolversi.

Baricco si avvale di  una scrittura ricca di discorsi diretti fulminei, di pause, del “flusso di coscienza”, di illusioni che confinano con le disillusioni, di flashback e di continui cambi di ritmo, di colori e di tante sfumature, a tratti anche di pomposità, ariosità probabilmente inducendo qualche lettore a pensare che si tratti di ostentazione, vista l’attitudine da parte dello scrittore a giocare con le parole, mentre altri troveranno il linguaggio sofisticato dell’autore molto suggestivo. Sublime o puro esercizio di stile?

Perché non si dovrebbe amare “Cinquanta sfumature”

Non si tratta di essere bigotti, è una questione di difendere valorosamente la letteratura, il desiderio di esprimere una critica fredda e sincera sulla tanto acclamata trilogia di successo di Cinquanta Sfumature.

Il punto di partenza è sicuramente l’ideatrice della storia: Erika Leonard James, cinquantunenne del Sud-est dell’Inghilterra, laureata all’Università del Kent. E, dal 2013, inserita dalla rivista economica americana Forbes, tra le cento persone più influenti del mondo, grazie alla stesura delle Fifty Shadows, la sua trilogia erotica. Sua, ma con riserva, visto che la struttura di base, la successione degli eventi, ricalca passo passo un’altrettanta fortunata serie, quella della Meyer.

Sebbene l’autrice abbia ammesso di aver preso ispirazione da questa pubblicazione, è evidente che non si tratta di un mero spunto, ma di una minuziosa ricalcatura della trama, con una sola e semplice variante, l’elemento ‘nuovo’ e ‘scandaloso’ che attizza il lettore medio: il sesso. Non è il lodevole processo di Imitatio, atto a impratichirsi ed affinare la tecnica, bensì un’efficace strategia per il successo e il denaro facile.

Quindi state allerta, voi desiderosi di fama, pronti a vendervi per poco, questa è una pubblicità che rivolgo a voi: prendete una storia di successo, un best-seller, di quelli che fanno impazzire le teenagers alle prime arie e cambiate qualcosa. Non la trama, non il carattere e la personalità dei personaggi, e magari non allontanatevi troppo neanche dall’ambientazione. Ma attenzione, cambiate il fattore che classifica il genere, togliete il soprannaturale del Fantasy e aggiungete la spregiudicatezza dell’erotico, ad esempio. Successo garantito. Non servono idee nuove, non servono particolari talenti e conoscenze letterarie, un occhio attento avrà notato la forzata paratassi, i frequenti salti temporali per arrivare velocemente al dunque, a ciò che fa scalpore, trascurando completamente l’arte del narrare.

La caratteristica principale di questa trilogia, oltre alla trama sciatta, e ad un’ipocrisia di fondo è il desiderio onnipresente di rompere un tabù, forzando al limite ogni idea di erotismo. Ma si tratta veramente di erotismo? Sembra invece un’idea distorta e inquinata dell’amore, una visione brutale dei rapporti sessuali e, la vera domanda che ci si dovrebbe porre, senza scivolare nel perbenismo, né senza temere di contrariare i fan sfegatati dell’autrice, è: quali difese hanno le migliaia di ragazze che leggono questo libro, senza aver ancora avuto esperienza dell’amore? Che idee si faranno del loro ruolo come donne? Quale rispetto di loro stesse svilupperanno? Capiranno che non devono accettare passivamente, ma tenere testa ai diritti conquistati? Come possono essersi innamorate di un personaggio che percuote la donna che dice di amare, cercando di sodomizzandola a causa di traumi infantili? È questa l’idea di amore che la nostra società sponsorizza?

Tornando al libro “erotico”, non c’è molto da dire, se non che la letteratura erotica, non è questa. Il primo esempio di questo genere risale al 1100 d.C.: Eloisa ed Abelardo, vecchie lettere d’amore, che a loro tempo furono motivo di scandalo. Oggi, secoli dopo, è patrimonio letterario. L’erotismo alberga in ben altri romanzi come ad esempio ne Il delta di Venere di Anaïs Nin, ne Il Tropico del Cancro di Henry Miller, Il grano in erba di Colette, e tanti altri, magari non altrettanto famosi, e che magari non hanno garantito milioni di dollari ai propri autori, ma che hanno sicuramente più stile, più storia, senso più profondo e meno noioso e surreale.

La trilogia delle Cinquanta sfumature è priva di contenuti, di passione, di coinvolgimento, di emozioni: l’autrice sembra abbia scopiazzato in malo modo Nove settimane e mezzo di Mc Neill, propinandoci una donna ridicola e imbarazzante come la protagonista di I love shopping, oltreché inetta ed irritante, che guardacaso diventa schiava di un uomo ricchissimo. Nessuna donna di buon senso e che ama se stessa si indentificherebbe o vorrebbe essere Anastasia, la protagonista di Cinquanta sfumature di grigio, ma si sa, il marketing trasforma la fuffa in casi letterari.

‘Norwegian Wood’, il travolgente origami di Haruki Murakami

Norwegian Wood è un famosissimo romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia (1993) con il titolo di Tokyo Blues.

Nonostante sia stato riconosciuto dalla critica come un clamoroso successo della letteratura giapponese, ancora oggi Norwegian Wood rappresenta un’oasi vergine per molti giovani lettori. Tuttavia Tokyo Blues conserva la sigla di capolavoro e sembra non subire l’ombra del tempo. Norwegian Wood è anche considerato il lavoro più introspettivo di Murakami, che qui esplora in velina la sfera dei sentimenti e della solitudine. Non deve quindi stupire se Norwegian Wood resta, per molteplici e validi motivi, un grande romanzo incentrato sull’adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo della vita adulta e il bisogno di restare se stessi. Come Holden o il protagonista de Il Budda delle Periferie, Toru è continuamente lacerato dal dubbio di aver sbagliato nelle sue scelte di vita e sentimentali, ma è anche guidato da una propria morale che produce in lui una radicata avversione per tutto ciò che sia artificialmente costruito. Così Toru, diviso ma anche affascinato da Naoko e Midori, può decidere stoicamente o abbandonarsi al fatalismo.

Il romanzo è un lungo flashback, narrato in prima persona proprio dal protagonista Toru. Su un aereo atterrato ad Amburgo, il suono di Norwegian Wood dei Beatles, richiama alla sua mente, in modo nitido, un episodio avvenuto diciassette anni prima e che ha segnato la sua giovinezza: l’incontro casuale con Naoko. Il ricordo di Naoko è il pretesto che consente al protagonista di ripercorrere i difficili anni dell’università e l’amore impossibile per la ragazza (poi ricoverata in un istituto psichiatrico) e quello per Midori. Anche quest’ultima, compagna di corso all’università, è annichilita a causa di lutti familiari, dal collegio e dall’amicizia con Nagasawa, ragazzo controverso e alter ego del protagonista. I tumulti nelle università forniscono solo un riferimento temporale, la narrazione è collocata alla fine degli anni Sessanta ma Murakami sembra non voler scivolare nel cliché, stereotipato oltre che abusato, che caratterizza i romanzi ambientati proprio in quegli anni. All’autore interessa indagare in una sfera meno prevedibile e più introspettiva. Toru rimarrà quindi estraneo alle occupazioni delle università, ai propositi rivoluzionari e il suo è un percorso di dolore e consapevolezza personale, che lo porterà a constatare che la morte non è l’antitesi della vita ma una sua parte intrinseca.

La narrazione e la stessa scrittura di Murakami sono impalpabili, un grazioso origami e qualsiasi cosa egli scelga di descrivere vibra di carica simbolica, solo come un certo gusto orientale riesce ad esprimere con estrema raffinatezza. Non sembri azzardata una libera associazione tra questo romanzo e alcuni celebri film come Ferro 3 o In the mood of Love; leggere e immergersi in Norwegian Wood permette al lettore, non neofita, questo tipo di parallelismi che consentono di ampliare l’orizzonte psichico sino a dilatare la pagina in una dimensione altra.

Travolgente, emozionante, puro incanto. Norwegian Wood è uno di quegli esempi letterari che esercita il fascino della parola, attraverso una forte carica evocativa, a tratti poetica. È un libro che vibra sotto pelle e avvolge il cuore, dove le immagini e le parole continuano a risuonare nella mente, dove  gli stati d’animo sono resi magistralmente. Non si può leggere questo libro senza provare una stretta al cuore per la loro malinconica bellezza.

Nonostante Norwegian Wood sia etichettato come romanzo adolescenziale (e lo è, nella sua accezione positiva), non vi è nulla di superficiale o stucchevole in esso. Adolescenziale è ben diverso da romanzo per adolescenti. È una precisazione necessaria, onde evitare grossolani errori di valutazione e odiose generalizzazioni che questo libro non merita, rientrando in una categoria superiore ad ogni libro di recente uscita.

Murakami è riuscito a dare voce, come pochi vi riescono (pensiamo a Salinger o a Tondelli), ad una fase della vita che non è affatto semplice con i suoi piccoli o insormontabili drammi. Un romanzo riuscito, perfetto perché è dolce, triste e tremendamente doloroso, come solo l’adolescenza sa essere.

-Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo.

– Davvero ne hai tanto?

– Tanto che mi piacerebbe dartene un po’, e farti dormire lì dentro.

 

 

 

Il fenomeno Hunger Games-Il canto della rivolta

Hunger Games. La ragazza di fuoco. Il canto della rivolta. Questi i titoli della trilogia di Suzanne Collins, un fenomeno editoriale prima, cinematografico poi.
Una storia semplicemente cruda e brutale, la traiettoria di una società portata al limite della legalità, del rispetto e del senso di umanità, il disegno della democrazia distorta e dell’abuso tecnologico, la precisa descrizione dell’irrazionale senso dell’amore, l’evidenza della fragilità della vita.

Il 20 Novembre scorso, le sale cinematografiche italiane hanno iniziato la proiezione di Hunger Games – Il canto della rivolta, parte uno e nei soli primi quattro giorni di programmazione il numero di spettatori ammontava a 603.542. Una cifra che non può essere casuale, il mero frutto di trailer ben montati, battute accattivanti ed effetti speciali usati con maestria.
Tutto questo c’è, ma dietro vi è molto di più.

Nascosti dietro a quei biglietti venduti ci sono occhi che sono rimasti aperti ancora un’ora, nella penombra, ancora un’ora prima di dormire, ancora un’ora ancora rubata alla cucina, ai compiti, alle pulizie, un’ora ancora per leggere qualche pagina in più.

Perchè una ripresa può far sentire i brividi e lasciare a bocca aperta, ma le parole sulla carta, riempiono gli occhi e chiudono lo stomaco.
Perchè associare un personaggio ad un volto è istintivo, ma costruirlo lentamente, una frase alla volta, e aggiungendo una parte di se stessi ad ogni dettaglio crea un legame con la storia.
Perchè le luci spente, un grande schermo e ampie casse possono convogliare tutta l’attenzione del pubblico sulla proiezione, ma ad un libro non serve nient’altro che se stesso e tutto il resto svanisce. Ed è questa la differenza. Felici Hunger Games, e possa la fortuna sempre essere a vostro favore.

Nascosti dietro a quei biglietti venduti ci sono adolescenti che hanno cercato tra le righe le risposte ai paradossi che riflettono il reale, ci sono lavoratori che hanno scelto quelle pagine come via di uscita e come conforto, ci sono studenti che hanno sospirato e lottato credendo ancora nella via d’uscita. Se noi bruciamo, voi bruciate con noi.

Nascosti dietro a quei biglietti venduti ci sono persone che credono ancora nel peso di un libro nella borsa, nel profumo dell’inchiostro sulla carta, nel rumore sottile della pagina che viene voltata.
E ci sono le persone che leggono prima l’ultima parola della storia e aspettano, per capirla, solo dopo. Ma esistono giochi molto peggiori a cui giocare.

Hunger Games – Il canto della rivolta è un film che merita di essere visto, per la costruzione delle scene, per il ritmo dato alle riprese, per l’abilità degli attori, per le musiche scelte, per la fedeltà alla trama originale e per lo sforzo di riflettere tutto ciò che l’audiovisivo elimina, ovvero la forza indomabile delle parole, sebbene non riesca ad esprimere grande  personalità di scrittura, suspence e simbolismo. Le tessere del mosaico sono sempre le stesse: la casta e il popolo sotterraneo, i giochi sanguinari e la voglia di rivoluzione.

Nascosti dietro a quei biglietti ci sono lacrime e sorrisi sinceri, c’è la passione, la rivolta, la speranza e il desiderio di allontanarsi, di amare, di crescere e cambiare tutto partendo da se stessi. Devi occuparti di me, non è vero? Come mio mentore? Questo chiediamo ai nostri libri. Una guida, un sostegno, compagnia ed amicizia nei momenti bui ed in quelli di crescita. Chiediamo di esserci, chiediamo a chi ne ha il potere di continuare a darci storie per nutrire l’anima.

Quello di cui ho bisogno è il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione. (Da Il canto della rivolta)

Irène Némirovsky: Nascita di una rivoluzione

“Qual è l’ istante esatto in cui nasce una rivo­lu­zione? Vor­rei ritro­vare nella mia memo­ria quel giorno dell’ inverno 1917, quando a un tratto diventò visi­bile, non solo per gli ini­ziati, per gli uomini al potere, ma per la folla, per un bam­bino, per me. Il giorno prima, la rivo­lu­zione era una parola uscita dalle pagine della Sto­ria di Fran­cia o dai romanzi di Dumas padre. Ed ecco che le persone grandi dice­vano (senza ancora crederci): Stiamo andando verso una rivo­lu­zione… Vedrete, tutto que­sto finirà con una rivoluzione!”. Negli ultimi anni è cominciata una riscoperta delle opere di Irène Némirovsky da parte delle case editrici italiane, come l’Adelphi con la pubblicazione di Suite Francese nel 2005, in seguito al settantesimo anniversario della morte della scrittrice ucraina deportata nel 1942 ad Auschwitz. L’opera di diffusione dei suoi scritti comprende anche opere inedite come la raccolta di racconti Nascita di una rivoluzione, edita da Castelvecchi editore nel 2012, comprendente due scritti pubblicati per la prima volta nel 1938 e l’ultimo solo postumo nel 2011. Illuminante la prefazione di Susanne Scholl a quest’edizione, dal titolo Cosa fa la rivoluzione con gli uomini e cosa fanno gli uomini con la rivoluzione, nella quale pone gli interrogativi fondamentali su cui si basa la raccolta della Némirovsky, soprattutto se sia giusto o meno anteporre un ideale alla vita e ai diritti del singolo. Le sommosse cominciano sempre con i migliori propositi, ovvero l’euforia per il futuro, una “gioiosa sensazione d’attesa”, come afferma la Scholl, dettata dal rifiuto e dal disprezzo del passato. Ma nel loro svolgersi le rivoluzioni attraversano sempre un punto di non ritorno, dopo il quale non si può che fallire, ovvero la perdita dell’umanità. Ecco le parole di Susanne Scholl in proposito:

“E ancor prima di formulare i loro obiettivi, i rivoluzionari iniziano a uccidere. (…) La lezione di tutte quelle rivoluzioni del passato che si sono concluse con la perdita di ogni valore umanitario sembra ormai essersi dissolta nella miseria morale dei sopravvissuti.”

E ciò che resta non è altro che vuoto. Il vuoto riempie la falla creatasi in seguitoalla morte di ogni ideologia. È proprio questo di cui parla il racconto che da il nome alla raccolta, Nascita di una rivoluzione, ovvero un ricordo di infanzia della stessa Irène, quando era ancora una bambina appartenente a una famiglia benestante con una tata francese. Ricorda il Febbraio del 1917, lo scoppio della rivoluzione russa. Ricorda la folla in marcia, il popolo pieno di speranza, il volto di una rivoluzione che non aveva ancora versato sangue. Eppure il momento di cui parla la Némirovsky si colloca poco dopo. Ricorda di aver assistito, affacciata alla finestra della propria casa, a una finta esecuzione ai danni del portiere del suo palazzo, un tale Ivan, davanti a tutta la sua famiglia. Un gesto insensato solo per fargli paura. La scrittrice attribuisce a questo ricordo il vero scoppio della rivoluzione: “Solo più avanti, compresi. Fu quel giorno, fu in quell’istante che vidi nascere la rivoluzione. Avevo visto il momento in cui l’uomo non si è ancora spogliato delle abitudini e della pietà umana, il momento in cui non è ancora abitato dal demonio, che già però gli si avvicina e turba la sua anima”.

Il secondo racconto, Magia, parla di un gruppo di esuli, fuggiaschi russi, in Finlandia nel 1918, ragazzi e ragazze che esorcizzano la paura, nel mezzo di una foresta, organizzando una seduta spiritica, durante la quale viene scherzosamente profetizzato a uno dei giovani il nome della donna del suo destino, Doris Williams. Anni dopo il ragazzo incontrerà per un istante una donna con lo stesso nome, chiedendosi scioccamente se fosse davvero la donna della sua vita. Il destino risponderà al suo posto, dato che Doris Williams, giornalista inglese, venne trovata morta poco tempo dopo nel suo appartamento. La Némirovsky commenta:

<<Ci deve essere stato a un certo punto, nel filo che il destino tesse per noi, una maglia mancata>>.

In questo secondo racconto si evince il senso di straniamento della scrittrice nella Francia della sua fuga, quando la sua colpa era solo di non essere una vera francese. L’ultimo racconto, dal nome Émilie Plater, parla della giovane polacca che combatté nel 1831 durante la rivoluzione per liberare il suo Paese dal giogo russo e che morì per il suo ideale. Susanne Scholl riassume il racconto in questo modo:

“Ma non è proprio questo ciò che le rivoluzioni fanno agli uomini? La rivoluzione scatena in loro la speranza, la gioia, ma abbatte anche tutti quei confini di cui l’uomo ha bisogno per non abbrutirsi. E l’uomo, a sua volta, utilizza la rivoluzione per impadronirsi di ciò che altrimenti gli sarebbe sempre negato. Non per stimolare un cambiamento positivo in sé per sé. Ragion per cui, alla fine, si può solo fallire”.

Sherlock a Shanghai, di Cheng Xiaoqing

Cheng Xiaoqing (1893-1976) è il più famoso autore di detective stories cinesi della prima metà del Novecento. La sua notorietà è determinata non solo dalla vasta produzione letteraria, decisamente prolifica (oltre 30 volumi), ma anche dall’interesse che continua a suscitare in ambito critico e storiografico. Le opere di Xiaoqing infatti offrono un prezioso contributo agli studi letterari comparativi e postcoloniali.

L’autore cinese è stato uno fra gli esponenti più brillanti di quella corrente letteraria meglio nota come ‘Mandarin Ducks and Butterflies’. Il termine rimanda a quella forma di letteratura popolare che caratterizzò la scena cinese nei primi anni del Novecento e che ha indicato il romanzo popolare dai contorni rosa e poco pretenziosi, diffuso soprattutto tra le classi meno abbienti. Tuttavia a cominciare dal 1920 una nuova generazione di giovani scrittori ‘The May Fourth movement’ adottò il termine per tutti i romanzi popolari vecchio stile e che, oltre all’amore, puntavano a provocare il pubblico ben pensante, moralista e convenzionale con trame audaci, d’avventura o poliziesche. Questi romanzi erano ad ogni modo destinati ad un pubblico di massa non certo elitàrio o accademico. La corrente letteraria finì col ricalcare il meno ambizioso stile da soap opera o pulp e pertanto gli autori del ‘May Fourth movement’ furono etichettati, a torto o ragione, come commerciali.

Questa stessa letteratura ben si prestò all’arte cinematografica per il Mingxing Studio che tra gli anni ‘20 e ‘30 costituì un nodo importante per la diffusione di una cultura massificata e che allo stesso tempo fosse in antitesi al cinema americano. Tuttavia Xiaoqing è l’esponente più noto e tradotto all’estero per la capacità di aver dato vita al genere Western detective alla Sherlock Holmes. Il protagonista di Sherlock a Shangai è ben inserito nel contesto orientale che l’autore non tradisce, creando una sinestesia tra Oriente e Occidente, ne evidenzia le tensioni e le atmosfere con un andamento narrativo che è proprio di quello orientale. Un microcosmo meraviglioso, tra due tradizioni importanti che si incontrano e dialogano, offre al lettore una di quelle magie che a volte si concretizzano sulle pagine migliori della letteratura.

Leggere un poliziesco ambientato in Cina, per di più negli anni Venti, rappresenta un inedito piacere per il lettore occidentale, avvezzo a ben altri canoni.

Nei sette racconti che compongono il lavoro di Xiaoqing, il detective Huo Sang e il suo assistente si misurano con altrettanti casi in cui deduzioni affrettate, per quanto logiche, potrebbero ingannare anche la mente più acuta. Il confronto con Conan Doyle è voluto, in quanto l’autore è un grande estimatore del padre di Sherlock Homes. La veste gialla, così, è un’opportunità, quasi un pretesto per mostrare limiti e contraddizioni della natura umana; il tutto inserito in un preciso momento storico, segnato da grandi cambiamenti: la tradizione si scontra con la modernizzazione e Shanghi diviene il teatro ideale per i misteriosi delitti.

Quello che più affascina è proprio la descrizione della metropoli e della sua élite raffinata e al contempo cinica. Nonostante gli episodi siano ricalcati sui misteri holmesiani, le azioni sono ridotte al minimo e alla lunga la prosa, minuziosa e disseminata di dettagli che non aggiungono nulla alla trama, si fa pesante.

Diverte, invece, confrontare il divergente punto di vista dei due investigatori, l’uno analitico e l’altro grossolano, vittima di intuizioni scontate e perciò erronee.

Xiaoqing coniuga l’intento narrativo con uno più prettamente didascalico, tipico di molta letteratura orientale, ed è proprio questo a nuocere alla buona riuscita dei racconti. Se da un lato l’autore vuole infatti stimolare un pensiero critico, dall’altro l’agire del suo alter ego desta perplessità e spesso appare fastidioso e saccente.

Il ritmo cadenzato sostiene l’approccio speculativo, ma richiede un po’ di tempo affinché si possa apprezzare in modo adeguato il testo. Per godere appieno di questo libro davvero singolare può quindi risultare opportuna una seconda lettura, contrassegnata da un atteggiamento differente verso una mentalità che non ci appartiene, ma che senza dubbio affascina.

 

 

Il gioco segreto del tempo, di P. S. Garnica

 

Giunse con tre ferite:
dell’amore,
della morte,
della vita.

Con tre ferite viene:
della vita,
dell’amore,
della morte.

Con tre ferite io:
Della vita,
della morte,
dell’amore

Con queste tre strofe del poeta Miguel Hernàndez viene introdotto Il gioco segreto del tempo, l’ultimo romanzo della scrittrice spagnola Paloma Sànchez-Garnica, che ha raggiunto il successo nel 2012 con la pubblicazione del suo terzo romanzo storico, La cattedrale ai confini del mondo, grazie al quale ha scalato le classifiche spagnole e italiane. Il gioco segreto del tempo narra la storia di due generazioni di uomini: coloro che sono vissuti in un periodo di grande sofferenza per tutta la Spagna, durante la guerra civile, e chi, ai giorni nostri, cerca di scavare in quel passato non troppo lontano per scoprirne i segreti e cercare di dare un senso a ciò che è accaduto.

“Quando tutto finirà… quando tutto finirà…” Queste sono le parole che nel 1936 Andrés Abad Rodrìguez imprime come un mantra nella sua mente, mentre guarda la fotografia ormai sgualcita della moglie, sdraiato sulla sua sudicia branda insieme al resto del battaglione, pensando a ciò che ha perduto e che forse prima o poi riuscirà a recuperare. La storia di Andrès e della moglie Mercedes Manrique Sànchez viene riesumata dalla polvere dei ricordi nel ventunesimo secolo da Ernesto Santamaria, aspirante scrittore squattrinato, per quella strana tautologia che vede il genio incompreso sempre relegato dentro una cornice modesta fatta di loft sporchi e disordinati e vite al limite. Ernesto, girovagando fra i mercatini dell’usato, trova una vecchia scatola dentro la quale vede la fotografia di Andrès e Mercedes, scattata nel 1936 nel piccolo paese di Mostoles. Da quel momento Ernesto comincia a scavare dentro al passato di quei due sconosciuti, intuendo la scintilla che può dargli l’ispirazione a scrivere il suo romanzo.

La narrazione de Il gioco segreto del tempo alterna passato e presente, le vicende di Mercedes che scappa dal suo paese dopo l’arresto del marito per andare a Madrid a nascondersi in casa del medico benestante Eusebio Cifuentes, e le indagini di Ernesto a ritroso nel tempo. Essenziale per lo svolgimento della trama è l’incontro e l’amicizia nata da subito fra Mercedes e Teresa Cifuentes, figlia di Eusebio, entrambe innamorate e tenute lontane dai loro uomini dalla guerra civile. Mercedes, incinta del marito, e Teresa, pecora nera della famiglia perché parteggiante per i “rossi” e fidanzata con uno di loro, Arturo, vivono una vita parallela alla famiglia Cifuentes, composta per il resto da avidi nazionalisti, arrivisti e sottomessi al regime, per cercare di ritrovare Andrès e uscire tutti indenni dal conflitto. Il desiderio di ricominciare e lasciarsi alle spalle il proprio passato si evince da questo passo del libro:

Il mio spirito ribelle, quello spirito che ho saputo assecondare solo quando sono riuscita a lasciarmi alle spalle tutto ciò che ostacolava la mia vita, e ho deciso di correre dei rischi per cercare qualcosa di meglio, per andare avanti, per guadagnare e anche per perdere perché la vittoria di ciascuno di noi si costruisce sulle rovine delle proprie sconfitte.

La storia di Ernesto si snoda fra indizi e intuizioni, nella migliore tradizione di Arthur Conan Doyle, con l’inserimento anche di elementi paranormali, mentre la storia di Mercedes e Teresa rientra nella migliore tradizione del dramma storico, genere molto diffuso in Spagna con Ildefonso Falcones, Maria Duenas e Carlos Ruiz Zafòn, quest’ultimo amante anche del mistero e dell’indagine a ritroso nella storia. I temi trattati sono molteplici: dalla condanna della guerra al tradimento e agli accordi sottobanco per sopravvivere nelle condizioni più difficili, dall’amore e i rapporti coniugali di quel periodo alla condizione della donna, non solo all’interno del matrimonio ma anche nelle gerarchie sociali. Le due linee temporali si uniranno con l’incontro fra Ernesto Santamaria e un personaggio principale della storia da lui narrata, e con la scoperta che la chiave del mistero sta proprio nella gravidanza portata avanti da Mercedes.

‘Chiedi alla polvere’, il viaggio esistenziale di John Fante

Così l’ho intitolato Chiedi alla polvere, perché in quelle strade c’è la polvere dell’Est e del Middle West, ed è una polvere da cui non cresce nulla, una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere. E c’è una ragazza ingannata dall’idea che felici fossero quelli che si affannavano, e voleva essere dei loro. (John Fante)

Chiedi alla polvere dello scrittore italo-statunitense John Fante, rappresenta uno dei successi letterari più trascurati e sottovalutati del Novecento. In realtà dalla sua uscita, nel 1939, fu quasi dimenticato fino all’inizio degli anni ’80, riportato alla luce da un suo grande estimatore, Charles Bukowski.

John Fante pur non essendo elencato fra gli autori della Beat Generation, ne ha saputo tracciare le linee guida principali, tra le quali la vita sulla strada, il sesso “liberato” e l’utilizzo di sostanze stupefacenti. La “polvere” del romanzo è quella delle strade di Los Angeles, proveniente dal deserto Mojave, ma è anche la polvere che seppellisce le speranze dei giovani d’America, sulle ruote di vecchi autobus che promettono la speranza di una nuova vita sulle coste californiane, ma ciò che trovano non è Pasadena o le spiagge di Santa Monica, bensì i marciapiedi polverosi dei sogni infranti di tutti gli immigrati del Middle West. A questo gruppo di giovani appartiene anche all’incoerente e narcisista, ma anche sensibile e generoso Arturo Bandini, alter ego dello stesso John Fante, aspirante scrittore di origini italiane natio del Colorado e alla ricerca del successo. Arturo vive nell’albergo “Alta Loma”, a Bunker Hill, alla ricerca dell’ispirazione per scrivere il grande romanzo americano. Afferma il protagonista:

“Ah, il grande scrittore! Come fa a parlare delle donne, se non ne hai mai avuta una? Ehi, tu, miserabile impostore, fasullo che non sei altro, per forza non riesci a scrivere! Non c’è da stupirsi se non c’è nemmeno una donna in Il cagnolino rise. Non c’è da stupirsi se non c’è una storia d’amore, povero scemo, scolaretto presuntuoso. Dovevo scrivere una storia d’amore, imparare cos’era la vita!”.

E sarà proprio l’incontro- scontro con Camilla Lopez, giovane cameriera messicana di un bar malfamato, della quale si innamorerà ma con la quale non riuscirà ad avere una vera storia d’amore, a dargli l’ispirazione per scrivere. In Chiedi alla polvere non c’è alcun romanticismo, c’è la cruda realtà delle insicurezze e delle contraddizioni dei primi contatti con l’altro:

“Mi baciò ancora una volta e fu come se avesse appoggiato le labbra su un pezzo di arrosto freddo. Ero disperato […]. Poi sentii che il suo disprezzo si stava trasformando in odio e fu allora che cominciai a desiderarla. Evviva, Arturo, gioia e forza, forza e gioia…”

Camilla Lopez è un altro personaggio autobiografico, è la Marie Baray di John Fante, con la quale l’autore ruppe in malo modo nel 1936, una giovane dal fascino latino che ha in comune con Camilla anche il destino amoroso. Lo stesso Fante suggerisce una lettura politica dell’incapacità di Arturo e Camilla a relazionarsi normalmente, come lo scontro razziale fra la cultura messicana e quella italiana.

La storia di Chiedi alla polvere è il più classico viaggio esistenziale di un ragazzo che diventa uomo, nello scenario dei bassifondi e delle strade deserte della West Coast. In altre parole non accade mai nulla nel romanzo. Dissacrante, ironico, scanzonato, struggente, disperato, racconta la storia di un ragazzo perso, perso dentro, che si affanna alla ricerca di qualcosa che alla fine non è neanche certo di aver trovato. La scrittura è spezzata, schizofrenica e trasuda realismo, tracciando con linee asciutte un paesaggio disincantato, forse fin troppo. Immediato il paragone con Salinger e Il Giovane Holden, sia per lo sperimentalismo linguistico sia per la rappresentazione dissacratoria dell’America dimenticata della prima metà del Novecento; sebbene dal confronto con Holden Caulfield, Arturo Bandini ne esca sconfitto.

Un capolavoro o un libro sopravvalutato? Chiedi alla polvere è uno di quei libri che dividono, di cui probabilmente non si afferra pienamente il significato pur essendo consapevoli di trovarci davanti ad un romanzo importante (si è detto che anticipa la scrittura beat), che ci sussurra di interrogare la polvere per avere delle risposte, per far riafforare ricordi e sentimenti.

Nel 2006 è stato anche realizzato un film con lo stesso titolo per la regia di Robert Towne con Colin Farrell e Salma Hayek.

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