Il mondo tradizionale di Tolkien e i maestri censori della mostra a lui dedicata

Pochi giorni fa si è inaugurata la mostra su Tolkien e il giudizio dei Maestri Censori oscilla tra questi due anatemi.
Molti si formarono sul Signore degli Anelli, basti pensare agli impresari e divulgatori del tolkenismo nostrano; a partire da Alfredo Cattabiani che lo pubblicò da Rusconi, Elémire Zolla che lo propose, Gianfranco De Turris che ne è il vicario nostrano e Oronzo Cilli che ha curato la mostra.

Negli anni ’50-’60, Il Signore degli Anelli era una specie di Bibbia favolosa per i giovani di destra in libera uscita dalla storia; ma era anche un nuovo libro Cuore per la formazione dei ragazzi al tempo degli anni di piombo. Era un breviario per la gioventù tradizionalista, che piaceva sia ai cattolici che ai neopagani; quei ragazzi si allontanavano dalla mitologia fascista per abbracciare una nuova mitologia fuori dalla storia e dall’ideologia. Una mitologia mite, ecologista, nutrita di boschi e di pacifici hobbit, creature piccole, buffe, inoffensive. Certo, poi c’erano i maghi che erano la trasposizione in fiaba degli Evola e dei Guénon, c’erano i guerrieri che lottavano con la Compagnia dell’Anello.

Quel viaggio fantastico tra gli Hobbit disarmava l’egoismo, la brama di potere, la volontà di potenza. Una teologia primordiale e puerile, una specie di scoutismo eroico e magico, dove si intrecciano elementi celtici e pagani ed elementi cristiani, e dove si contrappongono in modo netto le forze del bene e le forze del male. Con gli hobbit e l’eroic fantasy molti giovani di destra cercavano la loro rivincita dal regno storico dei vinti.

La sinistra reputava il tolkenismo di destra un’oasi di ricreazione del nazismo, quasi l’asilo nido per la militanza fascista.
Anche chi non ama particolarmente gli Hobbit, trova piacevole il ripiegamento nella dimensione fiabesca del fantasy e dei mezzi uomini dai piedi pelosi: una fuga dalla realtà, frutto dell’incapacità di affrontare il mondo, preferendo rifarsi delle sconfitte storiche rifugiandosi nei castelli della fantasia. Tolkien dava una rappresentazione fiabesca del Mondo della Tradizione; quasi un rifugio in un mondo magico di eroi, maghi e demoni e la realtà della vita quotidiana. Tolkienismo, malattia infantile del tradizionalismo.

Ma gli hobbit e gli elfi nel frattempo hanno colonizzato l’immaginario globale, sono esplosi al cinema e tra le masse. Quei giovani sognatori di Frodo erano gli ignari precursori di un bisogno profondo, diffuso e insoddisfatto. Come può una saga priva di storie d’amore, di sesso, priva di storia, di modernità, perfino priva di scarpe, suscitare una così accesa passione planetaria? C’è qualcosa che sfugge alle contabilità del nostro tempo.

La fuga dal presente cresceva anche a sinistra, ma anziché inseguire tempi favolosi e medioevi dello spirito, come facevano i ragazzi di destra, inseguivano miti esotici e rivoluzioni premoderne, ondeggiando tra Mao, Hochimin e il Che. L’altrove della destra era fuori dal tempo; l’altrove della sinistra rivoluzionaria era fuori dallo spazio capitalistico-occidentale. Gli uni a cavallo, gli altri in bicicletta. L’unico Medioevo che si affacciò poi a sinistra fu quello del Nome della rosa; ma il loro Tolkien era l’Eco dell’illuminismo e del progressismo. A destra, Tolkien ridava invece fiato all’immaginario simbolico del Graal, di Re Artù e perfino alla Divina Commedia col suo cammino iniziatico dagli inferi al cielo.

Il sacro si incontrava con il santo, il mito con la storia sacra, e gli elfi apparivano un po’ angeli e un po’ déi, tra fate e madonne in una rappresentazione infantile e manichea della lotta tra il Bene e il Male. Nessuno più ricorda i libri di culto della sinistra giovanile negli anni settanta mentre è ancora vivo oggi il librone che piaceva ai ragazzi di destra. Come mai la colta sinistra ha ceduto il Libro all’incolta destra dei boschi? Perché il bisogno di coltivare mondi ulteriori, di viaggiare in dimensioni fantastiche, di passare dall’inferno al paradiso, ce lo portiamo dentro di noi, sempre.

Il Signore degli Anelli è un romanzo d’eccezione, al di fuori del tempo: chiarissimo ed enigmatico, semplice e sublime. Esso dona alla felicità del lettore ciò che la narrativa del nostro secolo sembrava incapace di offrire: avventure in luoghi remoti e terribili, episodi d’inesauribile allegria, segreti paurosi che si svelano a poco a poco, draghi crudeli e alberi che camminano, città d’argento e di diamante poco lontane da necropoli tenebrose in cui dimorano esseri che spaventano solo al nominarli, urti giganteschi di eserciti luminosi e oscuri; e tutto questo in un mondo immaginario ma ricostruito con cura meticolosa, e in effetti assolutamente verosimile, perché dietro i suoi simboli si nasconde una realtà che dura oltre e malgrado la storia: la lotta, senza tregua, fra il bene e il male. Leggenda e fiaba, tragedia e poema cavalleresco, il romanzo di Tolkien è in realtà un’allegoria della condizione umana che ripropone in chiave moderna i miti antichi.

Il mito abita dentro la nostra anima, e niente può sfrattarlo; il senso del sacro è una dimensione radicale, costitutiva del nostro essere uomini. Possiamo figurarlo in modi diversi, ma non sopprimerlo. Da quando il mondo ha scoperto di essere dentro un’unica dimensione globale, si avverte ancor più il bisogno di abitare un’altra città non dominata dalla tecnica e dall’economia. Una città dell’anima e dei sogni, dove abitano i desideri e le pulsioni, i sentimenti e i valori negati nella realtà: è il bisogno di connettersi a un’altra dimensione, la necessità di trascendere il nostro io piccino e quotidiano, il nostro presente meschino e profano. Non sappiamo vivere senza un aldilà.

Oltre la fisica cerchiamo una metafisica. Anche puerile, anche impraticabile, e fantasiosa; ma ne abbiamo bisogno come il pane; anzi il lembas, il pane degli elfi, indigesto alla sinistra e a certi giornali che parlano di Tolkien di Stato. Polemiche che probabilmente rivelano una determinata propensione da parte della sinistra ad etichettare tutto ciò che non appartiene alla loro cultura, come estrema destra o fascista.

Tolkien è riuscito intelligentemente a dare ad ogni archetipo una profondità e una solidità fuori dal comune, raccontando per ognuno di loro una storia che è rappresentativa del clan a cui appartiene. Il passato di Aragorn, ad esempio, parla non solo di lui ma di tutti i Raminghi.

Probabilmente la più grande impresa di Tolkien è quella di aver scritto un romanzo epico che sembra del tutto pertinente alla realtà dell’epoca in cui viviamo. Quando leggiamo storie medievali del medesimo genere, per quanto piacevoli le possiamo trovare, siamo talvolta tentati di domandare al Cavaliere Errante: la tua missione è così importante? Ma forse la sinistra mal tollera le storie medievali scritte da un cattolico, da un conservatore, perdipiù caratterizzate da uno spiccato ambientalismo (sano).

 

Perché Tolkien ammaliò i ragazzi di destra  

‘Viaggio al termine della notte’, il capolavoro di Céline che ha meglio rappresentato il Novecento

Viaggio al termine della notte si è imposto come il romanzo che ha saputo meglio capire e rappresentare il Novecento, illuminandone con provocatoria originalità espressiva gli aspetti fondamentali. «Céline è stato creato da Dio per dare scandalo», scrisse Bernanos quando nel 1932 il romanzo diventò un successo mondiale, suscitando entusiasmi e contrasti feroci. Lo «scandalo Céline», che dura tuttora, è la profetica lucidità del suo delirio, uno sguardo che nulla perdona a sé e agli altri, che ha il coraggio di affrontare la notte dell’uomo così com’è. Questo libro sembra riassumere in sé la disperazione del Novecento: è in realtà un’opera potentemente comica, esilarante, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo.

Il romanzo di Céline, pubblicato nel 1932, è suddiviso in episodi non numerati che rispettano l’ordine cronologico degli eventi narrati. Henri Godard ha osservato come l’andamento delle storie raccontate all’interno di ciascun episodio sia ciclico: incominciano con un errore, una gaffe, una sfida mal calcolata, uno scatto d’umore che precipitano Bardamu (il narratore e protagonista del Voyage) in un tragicomico balletto di situazioni difficili o disperate, da cui il protagonista esce sempre a fatica, sempre provvisoriamente. In mezzo l’accumularsi di ostacoli e delle minacce, i segni
nefasti che annunciano il precipitare del dramma, il suo accelerarsi; e lo sconforto lucido e amaro delle riflessioni che Bardamu ne ricava.

La Prima Guerra Mondiale è cominciata. Ferdinand Bardamu lascia la sua dimora in Place de Clichy e si arruola volontario nell’esercito francese. Attorno a lui vi sono uomini e luoghi disperati: colonnelli senza immaginazione, generali rabbiosi, villaggi e civili che galleggiano da qualche parte nella notte. La notte del Bardamu divenuto Brigadiere è un luogo prima fisico e poi simbolico che si mangia la strada e invade l’intimità. In una città del nord «tutta illuminata e sparsa come se l’avessero perduta» Bardamu incontra Léon Robinson, la voce che lungo tutta una vita accompagnerà Bardamu, manifestandosi in momenti e luoghi disparati, da un capo all’altro della terra, al punto che il lettore a lungo resterà in dubbio se definire le sue apparizioni reali o frutto della coscienza alterata del narratore.

“È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre”.

Robinson è dunque il disertore, disarmato e pacifista, colui che si arrende e insieme ne approfitta, uno dei tanti prodotti della guerra. Alla fine dell’episodio di Robinson, i due uomini si salutano augurandosi buona fortuna.

Dopo un tempo indefinito, Bardamu rimane ferito e si guadagna una medaglia militare. Questo gli permette di affrancarsi e di fare della malattia uno degli obiettivi che perseguirà per tutta la durata della guerra. In ospedale, a Parigi, incontra Lola, un’infermiera
americana. Bardamu se ne innamora. I due fanno lunghe passeggiate ed è durante una di queste che Lola gli rivela lo sgomento di invecchiare, di ritrovarsi adulta a guerra finita, di aver sprecato, a causa di un destino avverso, gli anni migliori nella sofferenza. Lola si
ammala di anoressia, mentre Bardamu alza la voce in un bar facendosi addirittura portare via a forza. La diagnosi di folle è discutibile, ma si fa strada in lui la possibilità di restare rinchiuso fino alla pace e lasciare che questa faccenda della guerra se la sbrighino gli altri, i ragionevoli.Dopo una discussione con Bardamu sull’inutilità di una guerra di cui tra diecimila anni nessuno si ricorderà, Lola, che contrariamente al protagonista è molto patriottica, decide di lasciarlo.

Bardamu si consola frequentando la bottega-bordello di Madame Herote dove conosce Musyne, una giovane violinista con un debole per i
sudamericani. La storia finisce presto. Bardamu comincia a frequentare un’attrice della Comédie-Française ma la storia è destinata a concludersi velocemente. Bardamu medita un modo per lasciare l’ospedale che sente sempre più simile a una prigione.

Marcia in modo strano la pietà. Se qualcuno avesse detto al comandante Pincon che lui altro non era che uno sporco assassino vigliacco, gli avrebbe fatto un piacere enorme, quello di farci fucilare seduta stante dal capitano della gerdarmeria che non lo lasciava mai d’un passo e che, lui, pensava esattamente quello. Era mica coi tedeschi che ce l’aveva, il capitano della gerdarmeria.

L’episodio che segue è breve. Racconta di quando, nel 1913, insieme al collega Jean Voireuse, Bardamu lavorava come commesso presso il signor Roger Puta, gioielliere della Madeleine. Bardamu deve portare a passeggio i cani da guardia del negozio per quaranta franchi al mese mentre Puta rifornisce di gioielli il Ministero. Madame Puta, di contro, fa un tutt’uno con la cassa ed è felice di non avere figli: poiché la guerra è un dovere e bisogna che i figli di qualcuno ci vadano a combattere, si sente sollevata a sapere che i figli in questione non siano i suoi. È questa la prima volta in cui Bardamu incontra nuovamente Robinson e, insieme a Voireuse, passeggiano fino a Place Vendôme.

L’episodio si chiude con con un’anticipazione: Jean Voireuse morirà due anni più tardi, in Bretagna, in un sanatorio marino, in una camera a gas della Somme. La prima e unica volta che nella sua vita avrà l’occasione di vedere il mare.

Una volta fuori dal mattatoio, Bardamu progetta di raggiungere l’America ma non ha il denaro per farlo. Il viaggio è solo rimandato. Imbarcato su una nave della Compagnia dei Corsari Riuniti, l’Amiral-Bragueton, che insieme a ufficiali e funzionari trasporta un carico
di cotone, Bardamu raggiunge l’Africa. Il viaggio trascorre in un clima di spossatezza per il caldo soffocante che, una volta superate le coste del Portogallo, diviene condizione permanente: gli uomini si consolano con il ghiaccio del whisky.

Il finale di Viaggio al termine della notte è tanto folle quanto grottesco: un’improbabile uscita a quattro, Bardamu, Robinson, Madelon e Sophie, la giovane assistente polacca assunta presso l’Asilo dallo stesso Bardamu; la morte di Robinson, crivellato dai colpi a fuoco sparati da una Madelon fuori di sé, dopo numerose pagine di delirio senza contenuto (l’eco degli spari giunge al lettore come interminabile nonostante il tutto si consumi all’interno di un taxi).

Così si chiude la spudorata opera di Céline: la follia è da ogni parte, regolata e sregolata, cala la notte del Novecento, secolo di cui il Voyage diviene opera simbolo e racconto spietato.

La prosa di Céline è nuova, un mix micidiale di crudo realismo e umorismo nero, costruita su espressioni gergali, dure, oscene, e si arricchisce con l‘argot francese e con il linguaggio dei reietti, perché Céline vuole adottare il punto di vista dei poveri e degli emarginati, quelli sputati fuori dalla società. Uno stile di rottura con la classicità della lingua francese, un vero e proprio jazz linguistico, con dislocazione delle parole, anticipate o posticipate nella frase.

L’humour del romanzo emerge soprattutto negli ambigui rapporti tra i personaggi, uniti dalle circostanze, compagni nella “notte” ma sempre e diffidenti gli uni con gli altri.

L’autore è entrato nel delirio e lo ha raccontato in un viaggio attraverso il cinismo, l’ipocrisia, la falsità, la cattiveria e tutto ciò che di negativo c’è nell’ “uomo” e di un uomo che si è nutrito di pane e miseria, schiavo di un desiderio mai appagato.

“Scrivere, che idea divertente!” di Florence Noiville. Un omaggio a Milan Kundera, il più elusivo di tutti gli scrittori contemporanei

In Italia, Florence Noiville – francese, classe 1961 – è nota per i romanzi. L’ultimo, La cleptomane, è stato tradotto da Garzanti quest’anno. Studiosa dell’opera di Isaac B. Singer, a cui ha dedicato una biografia di successo – edita da Stock nel 2004, subito tradotta da Longanesi – e un “Cahier de l’Herne” (2012), ha appena pubblicato un libro biografico su Milan Kundera, il più elusivo degli scrittori contemporanei. Il libro, Milan Kundera. «Écrire, quelle drôle d’idée!», è stampato da Gallimard, è sembra il più opportuno per celebrare il grande scrittore ceco scomparso ieri a Parigi.

Naturalmente, l’editore enfatizza il tutto – “Mai opera ha detto così tanto su un autore” –, giocando sul paradosso: l’assoluto distacco di Kundera. Il libro, in effetti, è un tentativo di vincere la reticenza di uno degli scrittori più noti del pianeta, recluso, prima, in un maniaco pudore, poi nel male immedicabile, ora nel niente. “Spesso mi dico che sono stata fortunata a conoscere il Milan non più giovane. Nell’ultimo terzo della sua vita. Aveva già fatto voto di silenzio mediatico”, ha detto la Noiville. “Al culmine della maturità e della libertà, Kundera ha preso ad assomigliare sempre più al vecchio di La vita è altrove. Quel vecchio scienziato che osserva in silenzio i giovani ‘chiassosi’”.

Il desiderio di Kundera – arretrare nell’oblio – è diventato destino, vita orbata.

“È sorprendente che la prospettiva di avere un biografo non abbia costretto alcuni a rinunciare alla vita”, scherzava Emil Cioran. La celebra boutade del sommo nichilista rumeno è stata quasi smentita da un altro scrittore dell’Europa centrale, Milan Kundera. Poiché anche lui detesta tutto ciò che comincia con bio – biografo, biografia –, l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere si è sforzato di non avere un’esistenza visibile. Per una ragione semplice. “Nell’istante in cui Kafka attira maggiore attenzione di Joseph K., si annuncia il processo della morte postuma di Kafka”, ha profetizzato in L’arte del romanzo.

Nell’epoca della comunicazione trionfante, del rapido consumo di cultura, questa frase assume tutto il suo significato. Nella mia vita da critico letterario continuo a incontrare “lettori”, giornalisti, a volte anche studiosi che desiderano per lo più farsi una rapida idea di un nuovo autore. Ovviamente, più la vita privata di questo autore è intricata, spigolosa, enigmatica, più sarà considerato “interessante”. Tali “lettori” leggeranno un ritratto dell’autore su una rivista, una recensione piena di lusinghe, qualche citazione, qua e là, certi, così, di aver capito “di cosa si tratta”. Non c’è bisogno di leggere altro – quanto ai libri, pazienza. Questo è ciò che Kundera ha inteso per “processo di una morte annunciata”.

In Cecoslovacchia è esistito un tempo in cui la scrittura letteraria era preziosa, tanto più preziosa perché vietata, passata al vaglio della censura. Era il tempo dei samizdat, questi oggetti del desiderio che si passavano di nascosto, tra coltri di cappotti. Ecco perché Kundera ha continuato a martellare incessantemente quel semplice messaggio: Dimenticatemi. Aprite i miei libri.

Nella storia della letteratura, questa posizione non è unica. Molti scrittori hanno cercato di sparire dietro la propria opera. “È lei che conta, non l’uomo che l’ha scritta”, tuonava il premio Nobel per la letteratura Isaac B. Singer, di origine polacca, che poi chiosava, scherzando: “Quando hai fame, conta soltanto il pane, della vita del fornaio non ti importa nulla”.

Milan Kundera è andato oltre. Dalla metà degli anni Ottanta ha cercato di annientarsi. Nessun discorso, nessuna intervista. Nessuna traccia pubblica della sua “vita reale”. Il tritatutto funziona bene a casa Kundera. Nulla, dopo Milan, deve restare tranne i suoi libri. Il resto – manoscritti incompiuti, lettere private, corrispondenza varia, diari, fotografie – viene sistematicamente distrutto. Dobbiamo “far credere ai posteri che non abbiamo vissuto”. Così ha scritto Flaubert. È ciò che pensa Kundera.

“Vedi, da lì a lì… c’è ancora uno scaffale, ciò che è rimasto… pronto per essere sbriciolato”, mi ha detto Vera, un giorno, la moglie di Kundera. Una pioggia di coriandoli per celebrare l’insignificanza dell’essere. La sua leggerezza?

“Secondo una celebre metafora, il romanziere demolisce la casa della sua vita per costruire, con gli stessi mattoni, un’altra casa: quella del suo romanzo. Da ciò consegue che i biografi disfano ciò che il romanziere ha costruito, ricostruiscono ciò che egli ha disfatto. Il loro lavoro, puramente negativo dal punto di vista dell’arte, non può illuminare né il valore né il senso di un romanzo”.

Ecco il grande malinteso – il primo di una lunga serie – intorno a Milan Kundera. Tendiamo a credere che egli si ostini a separare la vita dall’opera. Ci pare artificiale, a volte artificioso. Perfino sospetto. Vuole dissimulare qualcosa? Quante volte mi ha detto: “È tutto nei miei libri”. Non è una formula. La sua vita si è infusa e confusa nelle sue pagine. Tutto quello che bisogna fare è aggirarsi dentro quell’“altra casa” per ritrovarla. Per trovare lui, o i frammenti del suo io, sparsi negli eroi che gli somigliano. Egli è in ogni stanza. Come tutti i bravi muratori, prepara i mattoni. Quelli che provengono dalla sua casa e quelli che vengono da altrove. È questo edificio a ispirare.

 

Florence Noiville

‘Tutto secondo gli accordi’, poesia e musica nella raccolta poetica di Riccardo Santarelli

Il legame tra poesia e musicalità ha radici antiche e risale ai poemi omerici, dove l’esametro serviva alla memoria degli aedi per ricordare più facilmente le grandi imprese della guerra di Troia e le avventure di Ulisse in viaggio nel Mediterraneo. Lo scrittore pugliese Riccardo Santarelli fa coesistere parola e musica più volte nella raccolta poetica dal titolo Tutto secondo gli accordi, edito da Eretica, mostrando come un’opera poetica e un brano musicale possano apparentemente prescindere l’una dall’altro ma poi sentano il bisogno di chiamarsi, desiderarsi e ispirarsi, andando a creare un preciso e singolare contesto.

Ideata durante la seconda metà del 2021, la raccolta di poesie Tutto secondo gli accordi è nata dalla volontà di far partire dallo stesso binario musica e verso. I titoli dati alle poesie sono accordi musicali che formano quella che in musica si chiama armonia non funzionale, ovvero una successione non canonica, che prescinde dalla tonalità ma il cui risultato compositivo è più che valido.

Come si spiega nella Prefazione, all’inizio dell’estate del 2021 Santarelli aveva già in mente di scrivere un libro di poesie che strizzasse l’occhio alla musica; aveva già il suo inizio e la sua fine: il titolo Tutto secondo gli accordi e la poesia “Silenzio”, l’ultima di questo originale volume.

Il titolo di ogni poesia che compone la raccolta è un accordo, e ogni lirica nasce da un percorso arduo, quasi irrazionale, vitale e istintivo alla cui base c’è l’ispirazione musicale. La duplice forma dell’opera corrisponde alla volontà di Santarelli, che nella sua ricerca espressiva favorisce sempre di più una modalità di lettura empirica, di coinvolgere più sensi senza la pretesa di dare loro un ordine ben definito.

La raccolta di Santarelli sottende il sottotitolo che è una citazione di Beethoven: <<La musica è una rivelazione, più alta di qualsiasi saggezza e di qualsiasi filosofia>>. Nel caso specifico, l’autore sperimenta i meandri del vuoto, rimanendo ancorato alla ricerca del “movimento segreto delle cose”. Cerca, manifesta, comprende, definendo la musica in poesia, unico spazio di infinita vitalità e divenire.

La musica per Santarelli è l’avamposto della vita e della speranza, la poesia quello della luminosità e della trasparenza. Tale connubio, si esplica chiaramente e felicemente in Tutto secondo gli accordi, dove non solo si cercano di percepire gli oggetti nei loro dettagli, ma anche la forza della metafora di trattenere la loro essenza, e di portare loro a uno stato di purezza.

Il cuore di Santarelli batte per l’enigma della parola, delle cose, della realtà che a volte non sappiamo definire innocente, cose e parole  smarrite fra rivoli di sentimenti e visioni:

 

RE CON SECONDA SOSPESA

Ho concepito l’attesa
vietando alle parole
di sciogliersi
sulla bocca,
forzando il pensiero
su binari molli
che percorrono fondali.

Da bambina
mi si è appesa al collo,
ha svelato il suo segreto
e ha umiliato il tempo,
riducendolo a un folle
che predica la fine
troppo presto,
troppo in fretta.

Ormai cresciuta,
mi porta sulla cima
del mondo,
dove ogni uomo,
una volta nella vita,
si lascia morire.

 

Tutto secondo gli accordi è sia un brano di musica classica (all’interno del volume c’è anche un codice QR che rende possibile l’ascolto) che una raccolta poetica che sa di mistero e piccoli svelamenti. L’autore ha lasciato che il verso ispirasse la musica e che la musica ispirasse il verso. Il senso di marcia non conta: si può cominciare con l’ascolto o con la lettura; l’importante è lasciare che l’udito e la vista godano rispettivamente della musicalità del verso, dominio della poesia, e delle ampie spennellate di sensibilità che solo la musica riesce a realizzare. Le poesie ruotano intorno a riflessioni esistenziali, l’autore considera il vuoto quasi come un luogo davvero concreto, non il vuoto aborrito dalla Natura:

Vivo nel vuoto,
perché è l’unico luogo
che mi contenga.
Posso portarci
qualsiasi cosa:
una città intera,
senza che si riempia;
la pioggia scrosciante,
senza che si bagni;
doni su doni,
senza ricevere
alcuna gratitudine.
Posso portarci
il mio volto,
senza per forza
essere riconosciuto.

Santarelli compone il suo spartito poetico seguendo l’assunto che vuole che Musica e poesia accomunate dalla specificità di forme distribuite nel tempo. Entrambe, insomma, hanno il tempo come carattere fondante. Così come entrambe costruiscono il proprio effetto ricettivo su fenomeni di tipo uditivo, di tipo acustico. E questo i poeti, da Dante a Petrarca, da Leopardi a Montale, lo sapevano benissimo: anche nel momento in cui scrivono un metro chiuso, obbligato, per rime incatenate e così via, giocano continuamente sull’anisosillabismo dell’esecuzione. Riccardo Santarelli non è da meno, e regala agli appassionati di musica e di poesia squarci di vita pensata, riflessioni, un mondo interiore in cui tutti le anime sensibili possono riconoscersi, mostrando acutamente e delicatamente come la musica e la poesia siano un binomio essenziale.

 

Riccardo Santarelli è nato a San Giovanni Rotondo nel 1988, si è laureato alla facoltà di Lettere Moderne. Nel 2009 pubblica il suo primo libro di poesie, Frammenti di anti-quotidianità, presso la casa editrice Rupe Mutevole e nel 2016 autopubblica un’altra raccolta dal titolo Il verso della Sorgente.
A fine ottobre 2022, esce la sua ultima raccolta poetica Tutto secondo gli accordi, pubblicata con Eretica Edizioni. Di prossima pubblicazione è l’album musicale Ascendente.

Marino Moretti, la poesia domestica e la letteratura del quotidiano

Marino Moretti, il poeta che affermava ‘’di non aver nulla da dire’’, ma che scrisse più di 70 libri.  Il poeta umile della letteratura domestica, colui che trasferiva la sua estrema modestia anche nella poesia. Celebre la raccolta Poesie scritte col lapis, ovvero, frammenti e versi potenzialmente cancellabili proprio perché non perfetti. Moretti nasce il 18 Luglio 1885 a Cesenatico.

Nel 1902 si trasferisce a Firenze per motivi di studio ma, ben presto, abbandona la vita studentesca per frequentare la scuola di recitazione dove ha modo di conoscere un altro grande nome della letteratura, Aldo Palazzeschi, di cui diviene amico fraterno. Intanto, entra in contatto con altri esponenti del movimento crepuscolare: Govoni, Corazzini, Gozzano. Dichiaratosi, apertamente, contro il fascismo il poeta firma anche il Manifesto antifascista di Benedetto Croce, pur conducendo una vita schiva e solitaria, e non partecipando attivamente alla politica.

La poetica del quotidiano e gli influssi di Giovanni Pascoli

La poesia di Moretti si ispira alle atmosfere proprie del Pascoli; un’evidenza che si concretizza, in particolar modo, nella raccolta Fraternità del 1905 in cui gli affetti domestici sono protagonisti.  Dedicata al fratello scomparso, il centro di questa raccolta è proprio il legame con la madre;  ma soprattutto si evidenzia il tema del nido in quanto casa, immagine ricorrente nella produzione pasco liana, contrapposto al mondo circostante. Seguono i poemetti della raccolta Serenata delle Zanzare, in cui ironicamente il poeta delinea la mentalità piccolo-borghese, con toni sarcastici. Moretti è il precursore della corrente letteraria del crepuscolarismo; quel tipo di letteratura che celebra le nostalgie quotidiane, le periferie, i giardini desolati, la malinconia provinciale; così come l’incedere del tempo nei cicli stagionali, o le figure vicine all’infanzia: le maestre, la scuola, il tempo andato.

Uno dei suoi componimenti legati al mondo scolastico è Le prime tristezze; l’indimenticabile poesia in cui Moretti sottolinea il rapporto fra infanzia e mondo quotidiano. In  Marino Moretti, si ritrovano principalmente versi in cui il rivolgersi al passato è continuo: i ricordi infantili sono spesso legati agli ambienti scolastici, proprio come racconta ne Le prime tristezze , o nei versi de La signora Lalla dedicata a una sua maestra.  La sua produzione letteraria non aspira a nessun lirismo, solo alla mera realtà delle cose che si presentano e sfuggono, insieme al tempo. Il lapis, a tal proposito, è caduco, impalpabile, effimero; così come la sua poetica che nulla ha a che fare con la magnificenza dei versi illustri come quelli di Dante Leopardi, o dello stesso Pascoli da cui Moretti trae principalmente  ispirazione da una sua famosa raccolta: I Canti di Castelvecchio.

Il rapporto fra l’infanzia e la dimensione del quotidiano riflesso nella poesia di Moretti

La poetica di Moretti non ha pretesa, non ha alcuna ambizione né vuole esser ricordata o divenire mitica; narra solo le porzioni di vita vissuta, la giovinezza sbiadita, i personaggi e i luoghi a cui nessuno presta attenzione ma che popolano il quotidiano. Questo tipo di poesia è poi la stessa poetica che si rifletterà in tutto il movimento letterario del Crepuscolarismo, per altro parola coniata dallo stesso Moretti che appare per la prima volta in Poesie scritte col lapis. In questa raccolta è proprio la noia quotidiana a far da protagonista; un tedio rassegnato, venato di insoddisfazioni e repressioni che si rispecchiano nei grigiori degli ambienti di provincia, nelle domeniche lunghe e malinconiche; un altro dei temi dominanti della poesia morettiana è proprio la domenica, emblema del giorno nostalgico, che ricorre spesso in molti componimenti. Nel componimento La domenica delle recluse, Moretti scrive:

Oggi, che noia, che malinconia, 
che desiderio di tornare indietro ! 

Ma il cuore dice con dolente metro, 

come presso all’altare: Così sia.

Il linguaggio è spesso reiterato, uniforme e monotono; l’anima del poeta pare trovare ristoro solo nella regressione al mondo infantile. I banchi di scuola, le maestre e i compagni sono elementi consolatori e tragici, al contempo; se da un lato leniscono l’inquietudine di Moretti, dall’altro gli ricordano momenti svaniti di una spensieratezza perduta.

Tuttavia, le poesie, non sono mai lamentose o insofferenti; spesso, sono pervase da momenti ironici e toni indispettiti e pungenti. Solo nel 1916, nella raccolta Il giardino dei frutti, si intravede un motivo poetico di insofferenza, come la scarsa propensione al Leopardi o l’amore tumultuoso per Carolina Invernizio.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale e, pur non essendo ritenuto idoneo al servizio militare, si arruola come infermiere. A questo periodo appartengono i romanzi; una prosa ambientata, per lo più, nel mondo piccolo borghese in cui Moretti non disdegna di sottolinearne i difetti. Dopo aver scritto numerose novelle, ritorna poi alla poesia nel 1969 con quattro raccolte: L’ultima estate (1969), tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973) e Diario senza le date (1974). Lo stile qui appare più semplice, moderno e immediato intriso da vivida ironia.

Il provincialismo lessicale e delicato nel linguaggio poetico

Il tema della provincia è affrontato da Moretti a diversi livelli di approfondimento; non solo nelle tematiche, anche il lessico si riflette in un linguaggio semplice e immediato. Quello che descrive il poeta di Cesenatico è un provincialismo sonnacchioso, uggioso, fatto di ore vuote e lunghe, di gente che attende treni alla stazione o di signorine appassite che vagano fra i viali silenziosi e i giardini dipinti delle piccole città, ornati in base alle stagioni di riferimento. Emblematica è la poesia Il giardino della stazione:

E noi si va chi sa dove,
poveri illusi, si va
in cerca di felicità,
verso città sempre nuove,

verso l’ignoto e la sera!
Invece lì nel giardino
veduto dal finestrino
c’è tutta la primavera!

Due strofe presenti nella parte centrale della poesia che, tuttavia, sottolineano l’intero universo morettiano; la malinconia, la ricerca di una felicità senza vie da percorrere, mentre nel passato e nelle piccole strade che sono appartenute ai giorni dell’infanzia c’è tutta la felicità che si tenta di rincorrere, per tutta la vita, una volta trascorsa l’età dorata.

Il linguaggio utilizzato è spesso molto simile al parlato: la semplicità del lessico si evince dai termini di uso quotidiano che, il poeta, spesso usa nelle sue opere fino a giungere a una sorta di cantilena quasi infantile composta da ripetizioni. L’usus scribendi del Moretti persiste nell’utilizzo di aggettivi per descrivere la noia del quotidiano, ma anche diminuitivi o termini legati al mondo dell’infanzia,  quindi alla scuola o alla vita familiare che rimandano ancora una volta al Pascoli:

Vanno, vanno col loro
lumino mezzo verde,
come in soffio d’oro…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Oh, non aprire il pugno
per afferrarle… Guai!
Esse, bimbo, non sai?
son le fate di giugno…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Bimbo, che ne faresti
d’un lumino cosi
lieve? Immagino, si,
che me lo spegneresti…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Lucciole! Col lumino
loro, il lumino verde,
a qualcun che si perde
ti insegnano il cammino:
sono le nostre stelle,
le stelle della Terra,
o tu che ami la guerra,
fanciulletto ribelle.
«Lucciola, lucciola, vien da me!

In questa poesia dal titolo Lucciole si riscontra il tipico linguaggio di Moretti: la ripetizione, i diminuitivi, l’abbondanza del sostantivo per descrivere il momento ma, soprattutto, la beltà dell’infanzia. Seppur Moretti sia spesso legato alla antologie di un tempo e relegato al mondo infantile, la sua è una poesia introspettiva, malinconica e, soprattutto, dettaglia: il regredire al mondo dell’infanzia permette di conoscersi e di auto-riconoscersi nel tempo storico della realtà.

“Il sesto sigillo” di Mario Pastore e Giulio Spreti: mai un fantasy fu così ‘profetico’

Il sesto sigillo edito, Brè Edizioni, è il romanzo a quattro mani di di Mario Pastore e Giulio Spreti. 

Mario Pastore, esperto di organizzazione, docente in ambito manageriale e comportamentale. Giornalista a La Stampa di Torino, direttore del personale di una grande azienda manifatturiera, dopo un lungo periodo come consulente e quindi amministratore di Forrad e Forbank, vive l’esperienza di Vicedirettore generale di una Cassa di Risparmio. È tra i primi docenti di Centro Internazionale FOR di cui diventa Presidente nel 2012.

Giulio M. Spreti, esperto di marketing. Docente in ambito manageriale e comportamentale. Matura la sua esperienza in agenzie di Direct Marketing a livello internazionale, divenendo Direttore generale di Rapp & Collins. Approda alla formazione in Accademia di Comunicazione a Milano. Collabora come Cultore della Materia al Politecnico di Milano. Dal 2012 è Direttore generale di Centro Internazionale FOR.

Il sesto sigillo: Sinossi

Il sesto sigillo, vincitore del primo premio al concorso letterario Città di Jesi 2021 , è sempre più attuale.

Il 25 marzo, nel corso di una funzione religiosa tenuta in San Pietro il Pontefice, in osservanza a una specifica richiesta dell’ultima veggente di Fatima, ha consacrato Ucraina e Russia al Sacro Cuore di Maria.

E proprio dalle parole profetiche di suor Lucia dos Santos, ultima veggente di Fatima, muove il romanzo di Mario Pastore e Giulio Spreti che nel 2010, diversi anni prima degli avvenimenti, ideavano una storia basata sulle dimissioni di un Papa (avvenute poi nel 2013) e sulla possibile clonazione umana (lo stesso anno moriva a Cambridge il suo fautore e Premio Nobel per la Medicina Robert Geoffrey Edwards).

Coimbra, 11 luglio 1977
La marchesa Olga Morosini de Cadaval, sfidando la pioggia battente, insolita per la metà di luglio a Coimbra, si incamminò lungo la discesa del convento delle Carmelitane gettando un’occhiata distratta al brutto mosaico che deturpava il lato sinistro della chiesa,
proprio sopra la salitella che porta all’ingresso della clausura. Il Patriarca le aveva chiesto con uno sguardo gentile, che lei aveva saputo interpretare grazie alle ripetute frequentazioni
veneziane, di lasciarlo solo per qualche minuto con suor Lucia. Anche se in fondo era stata lei l’artefice di quell’incontro, con la sua insistenza e grazie ai consigli di Don Mario, parroco della chiesa di San Lorenzo e amico, oltre che per diversi anni segretario di Monsignor Albino Luciani, la marchesa ritenne di ritirarsi dalla cella e lasciare il Cardinale in confidenza con l’ultima Veggente di Fatima.

Ancora una volta i Cardinali sono riuniti in conclave chiamati a trovare il successore di Pietro. La Chiesa di Roma è di fronte a un bivio: continuare una gestione della tradizione multi millenaria che l’ha portata oggi a confrontarsi con problematiche che la vedono minacciata nella credibilità, oppure tentare una rifondazione riproponendo valori trascurati che possono, tuttavia, rappresentare una minaccia al sistema. Il romanzo, con il piglio di un thriller, rievoca una vicenda che prende le mosse dal terzo segreto di Fatima e da Papa Albino Luciani per giungere a maturazione ai giorni nostri. Chi sarà il portatore di questi valori, da dove viene, da dove nasce e, soprattutto… da chi? A ricordarlo è una voce inaspettata, insolita, che agisce sulla cultura e non sulle rappresentazioni; una voce che viene da lontano, molto lontano.

2010: seduti in veranda in una tiepida serata di primavera, dopo una giornata di lavoro e una bottiglia Prosecco, commentando l’ostensione della Sacra Sindone nel Duomo di Torino, nasce di getto la trama de Il Sesto sigillo – rendono noto Mario Pastore e Giulio Spreti.

Ne abbiamo abbastanza di saggi a 4 mani legati al nostro comune lavoro, lasciamo correre la fantasia e divertiamoci!  Ci siamo immaginati una storia di ‘fantascienza’, con un Papa che si dimette e con un professore che afferma di poter clonare un essere umano. Nei giorni successivi, entusiasti dell’idea, ripartiamo i compiti e buttiamo giù qualche capitolo. Poi veniamo assorbiti dalla vita, dagli impegni, dagli eventi. La storia rimane accantonata nel limbo delle nostre menti a ‘maturare’ per tre anni buoni.

2013: fine febbraio, Papa Ratzinger si dimette e nell’aprile dello stesso anno muore il prof. Robert Edwards, premio Nobel per la medicina e padre della fecondazione in vitro. Potevamo noi autori far finta di nulla e non leggere questi due avvenimenti come un ‘segno’?

Immediatamente abbiamo ripreso il Prosecco e la storia che avevamo ipotizzato, adattandola alle date fatali. Se uno scienziato fosse in grado di ‘clonare’ da un resto di DNA l’essere impresso nella Sindone e nascesse un uomo e se quest’uomo all’età di 33 anni fosse ucciso…beh, il resto è la storia de Il Sesto sigillo. Una vera e propria Apocalisse”.

 

 

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‘Fiorirà l’aspidistra’ di George Orwell. Quando un nobile sogno diviene ossessione

Il sogno di una vita serena, con una pianta di aspidistra alla finestra, e la difficoltà di raggiungerlo, è questa in estrema sintesi la trama del romanzo del 1936 “Fiorirà l’aspidistra” (edizione italiana nel 1960) di George Orwell, che è una dura critica alla società capitalista: l’ossessione per i quattrini, visti come unico motore del mondo, che porta il protagonista Gordon all’abbrutimento totale.

Il romanzo di Orwell è attuale oggi come allora. Delinea i tratti senza tempo di ricchi e poveri; di chi i soldi li ha e di chi li desidera con tutto se stesso, tramutandoli in un’ossessione distruttiva. È un libro che richiede tempo per essere letto, digerito e compreso.

Gordon Comstock non è come tutti gli altri. Anche se mi rendo conto quanto nessuno, in fin dei conti, si senta mai “come gli altri”. Si crede sempre, specie in giovane età, d’essere diversi. Di avere quella luce, li, fissa negli occhi, a differenziarci da tutti gli altri. Ma la maggior parte, ahimè, crescendo, si arrenderà al fatto che in fondo si è un po’ tutti simili.

Gordon, invece, diverso lo è davvero.

Si dimena, scalcia, grida forte nella sua diversità, a tal punto che le persone che gli vogliono bene, come la sorella o la fidanzata, a un certo punto si arrendono nel ripetergli di quanto sia sicura e percorribile la “normalità”. Quella normalità che insegue il denaro ed è succube del buon posto di lavoro con tutte le sue catene ben fissate alla scrivania di quel minuscolo ufficio. Per Gordon la vita è un equazione semplice. Se hai i soldi hai tutto, e se non dovessi averli, scordati pure le attenzioni della gente o l’amore delle donne. Tutto e tutti cercheranno di mantenere le distanze da te evitandoti.

Per quanto Gordon sia fermamente convinto che il mondo funzioni così, non fa nulla né per opporvisi e né tantomeno per farne parte. La sua vita consiste in un perenne galleggiare tra lavori pagati due soldi e la sua ambizione letteraria di diventare scrittore.

In passato non sono poche le opportunità che ha avuto per potersi creare una carriera nel mondo pubblicitario come copywriter, ma non appena si è reso conto d’avere talento, e quindi di poter guadagnare sempre più, ha deciso di abbandonare il lavoro. Il terrore puro, dell’eventualità di poter essere come tutti gli altri, schiavo del Dio denaro quindi, lo ha condotto verso la fuga.

“Ebbe una visione di Londra, del mondo occidentale: vide milioni di schiavi sgobbare e strisciare ai piedi del trono di Quattrino.”

Julia, la sorella di Gordon, è esattamente l’esempio di quel che lui intende in queste due righe quando parla di “schiavo”. Dopotutto lei vive una vita nella miseria lavorando dalla mattina alla sera, sopravvivendo a malapena con il suo salario, e cercando in mille modi di aiutare il fratello, il quale è messo addirittura peggio di lei.

Gordon, in cuor suo, disprezza Julia, ma lo fa nonostante le voglia un gran bene e riconosca quanto lei abbia sempre cercato di aiutarlo. Non riesce però a nascondere la  totale mancanza di stima nei suoi confronti, per il semplice fatto che per tutta la durata della sua vita lei non abbia fatto altro che lavorare bramando denaro.

La sua perenne fuga dal denaro, è probabilmente dovuta dalla paura di non essere in grado di gestirlo, se mai ne avesse avuto. Questo suo incubo, ad un certo punto del romanzo, diviene realtà. Un importante rivista accetta una della sue poesie, inviandogli ben dieci sterline. Soldi che di colpo lo gettano nel panico, facendogli compiere una serie di sciocchezze. Nonostante il suo primo pensiero sia quello di dare parte di quel guadagno alla sorella Julia, come se fosse un risarcimento per tutto quel che lei ha fatto per lui durante quegli anni, alla fine si ubriaca dandosi alla pazza gioia, sperperando tutto.

È difficile scindere l’odio verso gli altri dalla povertà. Quando si ha poco o niente, l’unica cosa che rimane è detestare tutti quelli che hanno qualcosa, e Gordon ovviamente non può esimersi da questo.

“Londra! Chilometri e chilometri di case modeste, solitarie, tutte ad appartamentini e camere in affitto: non focolari, non comunità, ma semplicemente fasci di vite senza senso trascinate da una specie di caos sonnolento in lenta deriva verso la tomba! Vedeva passare gli uomini come cadaveri deambulanti”. Li detesta tutti Gordon, e dietro al suo sguardo scrutatore e senza ritegno, li considera dello stesso valore dell’aspidistra che tiene dietro la finestra in cucina.

Gordon ha una fidanzata, Rosemary, con la quale non riesce a fare l’amore perché convinto che per poter andare a letto con una ragazza ci vogliano i soldi. Dopotutto, offrirle una cena fuori aiuterebbe no? E portarla in una bella camera d’albergo, non sarebbe certamente d’aiuto? Per non parlare dei vestiti, indossare un capo di tutto rispetto, ci farebbe partire sicuramente avvantaggiati. Non potendo usufruire di tutto questo, il vittimismo di Gordon la fa da padrone ingurgitandolo e risucchiandolo in un vortice di negatività dal quale proverà ad uscire solamente nelle ultime pagine del romanzo.

In Fiorirà l’aspidistra, George Orwell ha messo a punto una precisa scelta ideologica. Un protagonista che diventa un borghese modello, con tanto di cravatta ed aspidistra, non significa altro che la vittoria del profitto, del denaro sull’idealismo, dell’apparenza sociale sull’essere. L’individuo è così soddisfatto, socialmente contento, ma sconfitto, a vantaggio di una visione utilitaristica e conformista dell’uomo.

Ed è proprio questa scelta politica che rende il romanzo realistico e visionario allo stesso tempo, nonché sempre attuale:

“Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, a sposarsi, far figli, lavorare, morire”.

Fiorirà l’aspidistra è un pamphlet antiborghese con diversi riferimenti autobiografici, una sorta di resa dei conti tra l’autore, le proprie aspirazioni e passioni, i compromessi rifiutati e quelli accettati durante la sua carriera, portato avanti con una scrittura mirabile e con una dettagliata definizione dei personaggi che dicono molto sul nostro modo di agire in qualsiasi luogo e tempo, di come un nobile sogno possa trasformarsi una pericolosa ossessione.

Ma è il capitalismo a renderci davvero più egoisti e ambiziosi o il desiderio insito nell’essere umano a migliorarsi continuamente per sfuggire alla mortifera noia e all’immobilismo? Manca forse in Fiorirà l”aspidistra l’attenzione per la dimensione psicologica, o meglio esistenziale della natura umana, concentrandosi su quella politica e sociale.

 

‘L’edera’. La Sardegna di Grazia Deledda nell’immaginario europeo

L’edera, romanzo del 1908 di Grazia Deledda, è il racconto di un solo personaggio, Annesa, la “figlia d’anima”, la giovane serva che si innamora del proprio padroncino. La sua maturazione avviene significativamente sulla “via di Damasco”, dalla cecità del male alla luce del bene, implicata nella pragmatica di esistenti immodificabili nei loro ruoli e dietro le loro tragiche maschere. La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di una umanità primitiva, malfatata e dolente, “gettata” in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta.

“Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l’aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia accanto all’albero cadente. Ed era cresciuta così, come l’edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dalla rovina che lo schiantava.”

La letteratura secondo Raffaele La Capria

In tempi recenti, Raffaele La Capria, invitato dal suo intervistatore ad esprimere un giudizio di gusto soprattutto di valore sulla attuale produzione letteraria, ha parlato con compiacimento di opere scritte bene, ben congegnate e ben strutturate, con il periodo ordinato e gli
«aggettivi al loro posto». Tuttavia molte di quelle stesse narrazioni, sebbene di ottima fattura, sarebbero, a suo dire, «disanimate», prive di soffio vitale, caratterizzate dal puro artificio, con storie senz’anima, senza sangue e senza vita, sorrette da situazioni improbabili e da personaggi falsi e inautentici.

Le «portaerei della letteratura», i bestseller alla Stephen King, sarebbero stati scritti, dunque, da autori certamente formidabili nel creare intrecci (a volte addirittura dosati meglio di quelli di un Dostoevskij) però, pur costruiti con le migliori tecniche del romanzo, sarebbero del tutto privi dell’«irresistibile vocazione a raccontare le peripezie di un personaggio rappresentativo di un’epoca».

Dove si trova oggi quel personaggio che un tempo popolava e connotava gli universi narrativi e in cui tutti potevano riconoscersi? Dove sarebbero oggi – si chiede La Capria – Julien Sorel, Emma Bovary, i fratelli Karamazov, Pinocchio? Dove più Amleto o Werther? Dove, aggiungiamo noi, Eix, Annesa o Marianna Sirca? La vera letteratura non è «un girare la chiavetta del robot per farlo muovere, ma è la vita, con le sue emozioni ed i suoi imprevisti». Con questo non si vuol dire che l’artiicio non sia arte, «può essere arte purché sia animato da un qualcosa di vitale».

Grazia Deledda, Nobel per la letteratura

Ogni qualvolta si legge un romanzo della Deledda ritornano alla mente le parole dello scrittore napoletano e, nel contempo, quelle, più lontane nel tempo, pronunciate dall’arcivescovo Nathan Söderblom, membro dell’Accademia Svedese, nell’indirizzo di saluto rivolto il dieci dicembre del 1927, in occasione del banchetto serale alla cerimonia dell’assegnazione del Nobel:

In your literary work, all roads lead to the human heart. You never tire of listening afectionately to its legends,
its mysteries, conlicts, anxieties, and eternal longings. Customs as well as civil and social institutions vary according to the times, the national character and history, faith and tradition, and should be respected religiously.

To do other wise and reduce everything to a uniformity would be a crime against art and truth. But the human heart and its problems are everywhere the same. he author who knows how to describe human nature and its vicissitudes in the most vivid colours and, more important, who knows how to investigate and unveil the world of the heart-such an author is universal, even in his local coninement.

Più volte e in separate pagine chi scrive ha creduto di scorgere, concordemente e sulla scorta di buona parte della vulgata critica, l’originalità e la forza della narrativa deleddiana proprio nella appassionata e magistrale rappresentazione dell’auto-modello sardo e, soprattutto, nella
proiezione simbolica del suo universale concreto. Sullo sfondo di paesaggi edenici, carichi di emozioni e di suggestioni incantatorie, l’isola è restituita e intesa, nelle pagine della scrittrice, come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere.

L’edera: genesi dell’opera

Tali istanze si trovano conforto proprio nella rilettura di un’opera paradigmatica qual è L’edera, fatta attraverso lo studio della genetica del testo e compresa, tramite i suoi processi stratigrafici ed evolutivi, dentro una intertestualità ampia. In questo romanzo uscito in Italia nel 1908 – dopo che già nel 1907 i tedeschi e i francesi lo avevano accolto nelle loro riviste – giungono a convegno temi e motivi novecenteschi.

Certamente la narrativa deleddiana ha guardato, soprattutto agli esordi, ad una letteratura in de siècle che si esplicava secondo architetture d’intreccio, configurazioni di trame, ritmi, escamotage e artifici narrativi derivanti dal feuilleton e dal repertorio del romanzo popolare a puntate.

Le trame di molte opere, infatti, rispondevano alle esigenze del racconto d’appendice che doveva colpire l’immaginazione dei lettori con intrighi, amori, fughe, agguati, travestimenti e con l’agnizione, il riconoscimento finale che scioglie tutti i nodi dell’intreccio. Si trattava di una narrativa di largo consumo, la cui destinazione a un pubblico ampio non poteva non avere implicazioni sulle stesse tecniche narrative pensate per catturare e mantenere viva l’attenzione del destinatario con scene di intensa pateticità e di forte impatto emotivo.

Tuttavia, questo spiega poco del portato della sua poetica e della profondità etica ed ontologica della sua narrativa. L’uso più o meno sapiente di tecniche e topoi nell’Edera, esemplati dal vasto repertorio della tradizione e riadattati in un mutato contesto linguistico e culturale, non si risolve mai in un artigianato compositivo ine a se stesso.

Se fosse solamente questo, oltre il piacere tutto cerebrale della fruizione del testo, nulla accadrebbe. Non si accenderebbero passioni, non si formerebbero coscienze, e, soprattutto, non si comprenderebbe l’enorme successo di pubblico ottenuto dalle sue storie in Europa e nel mondo.

La letteratura come formatrice della vita intellettuale e morale dell’uomo

Nella sua ars dictandi non c’è compiacimento retorico, non c’è maniera. La Deledda utilizza l’artificio per parlare d’altro, lo piega ad un ine più alto. Questo è ciò che la rende una grande scrittrice, figlia ed erede, a suo modo, della grande tradizione umanistica, che aveva teorizzato il miscēre utile dulci e il docēre delectando, e costituito il fondamento di un’idea della letteratura come «formatrice della vita intellettuale e morale dell’uomo, come moderatrice della sua natura»; un’arte educatrice con finalità essenzialmente etiche, che nei secoli aveva mirato ad insegnare e a dilettare, a consolare e a far riflettere.

Una delle questioni principali che la Deledda più avvertita e consapevole deve affrontare da un punto di vista narrativo è, infatti, come tenere insieme cultura osservata (il mondo nuorese e barbaricino) e cultura osservante (sardo-italica); come costruire un narratore capace di raccogliere lo straordinario bagaglio conoscitivo di un autore implicito figlio di quel mondo e profondo conoscitore dei suoi codici. Un narratore che, ponendosi a una distanza minima dall’universo rappresentato, sapesse nel contempo raccontare l’anima e il vissuto della sua gente a un pubblico d’oltremare.

La Sardegna come metafora di una condizione esistenziale

L’opera della Deledda si colloca – a partire dall’universo antropologico sardo, veicolato da un sistema linguistico peculiare e complesso (nuorese, logudorese, italiano) – in quella più generale temperie culturale che tenta, tra Ottocento e Novecento, per reazione
alla dilagante soluzione fiorentina dei manzoniani e alla «declamata super-prosa» di matrice dannunziana, di recuperare – assecondando un rinascente orientamento centrifugo e riattivando circuiti alternativi della comunicazione letteraria – il significato e la funzione di un policentrismo che, nella storia culturale e linguistica degli italiani, si era connotata nei secoli di valenze molteplici.

Con la Deledda, e tramite la sua operazione artistica, la Sardegna entra a far parte dell’immaginario europeo.
Una realtà geografica e antropologica si trasforma, come ha efficacemente rilevato Nicola Tanda, nella «terra del mito», metafora di una condizione esistenziale, quella del primitivo, che proprio la cultura del Novecento aveva recuperato come unica risposta possibile al disagio esistenziale creato dalla società industriale e luogo per eccellenza dove rappresentare le angosce dell’uomo contemporaneo di fronte al progresso scientifico.

 

Fonte: introduzione all’Edera di Dino Manca

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