“La strada verso casa”, “l’attesissimo” romanzo del mediocre Fabio Volo

Nonostante il nome d’arte (all’anagrafe Bonetti), il nostro “NON SCRITTORE” Fabio Volo, come ama lui stesso definirsi, ha i piedi ben piantati per terra e non tre metri sopra il cielo. Ma a ben pensare in realtà, qualche caratteristica “mocciana” l’ha ereditata: sfornare un gran numero di romanzi in un tempo ristretto, romanzi che a detta sua descrivono la società, ottenendo un successo tale da battere anche Dan Brown… un vero fenomeno!

Inspiegabile, addirittura invidiato, Fabio Volo, il trentasettenne bergamasco ex panettiere, ex barista ed ex Iena partner di Simona Ventura, riesce ancora una volta a stupirci pubblicando un nuovo romanzo dal titolo “La strada verso casa” (Mondadori).

Si racconta la storia di un amore tormentato e  di due fratelli,  Andrea e Marco, caratterialmente diversi e lontani, ma che gli eventi costringono ad avvicinarsi, a capirsi di nuovo e a confrontarsi con un inconfessabile segreto di famiglia che li segue come un fantasma, per una narrazione che procede tra la retorica sentimentale e abbondanza di luoghi comuni e con l’intento di emozionare e commuovere il lettore, spingendo l’acceleratore sul ‘fattore nostalgia’.

Il tour promozionale di questa ultima fatica letteraria che porterà Fabio Volo in giro per l’Italia è già partito ed è possibile non solo prenotarlo in tutte le librerie, ma anche  in formato e-book. Grande fervore dunque per i suoi numerosissimi fansche alla notizia, in meno di dieci minuti sono riusciti a fargli raggiungere cinquemila “mi piace”(la nuova frontiera) al suo post di Facebook.

Nonostante la consapevolezza di essere distante anni luce dall’ Olimpo della letteratura, Volo riesce comunque a vendere milioni di copie, un continuo successo che può essere spiegato solo su base empirica.

Il giornalista e critico televisivo Aldo Grasso ha detto di lui che qualsiasi cosa faccia, “sente la vanga, la provincia che avanza”. Ma a Fabio Volo, dall’alto della sua torre d’avorio, quella definizione è piaciuta tantissimo, al punto da appenderla al muro in un quadretto. “L’ironia è fondamentale” ha sempre sostenuto  il non-scrittore , “la vita è stata fatta per essere semplice…” e ancora  “…da ragazzino non ho concluso mai nulla, anche se la lettura mi ha sempre aperto la mente, ma la mia metamorfosi può dirsi compiuta solo grazie ad una persona: Silvano Agosti… i suoi romanzi mi hanno cambiato la vita”.

Con semplicità e creatività Volo è andato avanti, col volto, lo stile e il talento di uno qualunque, e come spesso ha ripetuto “Chi va in mare, naviga. Chi sta a terra, giudica. Io navigo!” e volendo utilizzare termini leopardiani potremmo dire che “il naufragar gli è dolce in questo mare!”.

‘Paesi Tuoi’: la porta principale del neorealismo italiano

“Paesi Tuoi” è il primo romanzo di Cesare Pavese: scritto dall’autore nel 1939 ma pubblicato nel 1941. Rappresenta un forte punto di svolta per la narrativa del novecento: il libro di Pavese infatti si andrà a collocare in quella che molti chiameranno “corrente neo realista”. Imprescindibile caposaldo della letteratura italiana, “Paesi Tuoi” preannuncia il tema fondante della sua opera letteraria: il rapporto tra città e campagna. Questo, però, è solo il tema principale da cui nascono e si diramano vari altri temi concatenati: città contro campagna vuol dire anche solitudine contro alienazione, vuol dire indagare il periodo del dopo guerra italiano, descrivere la “stanchezza” della gente che lavora, descrivere un mondo che sta tentando non solo di risorgere, ma che sta anche profondamente cambiando. E in questo cambiamento si insinuano i corpi malmessi dei contadini, gli sguardi persi dei migranti verso la città, si percepisce il disagio e la fatica di tutte quelle persone che si impegnano a costruire le fondamenta di una nuova nazione.

Il mondo della campagna, il mondo della fabbrica, le colline e le luci della città: in poche parole questi sono i temi di “Paesi Tuoi”, che inizia e racchiude allo stesso tempo tutta l’opera pavesiana. Berto, un operaio torinese, conosce nel carcere dove è stato rinchiuso per aver investito un ciclista, un goffo uomo di campagna, Talino, un istintivo che è stato accusato di aver incendiato dolosamente una cascina di un rivale che aveva corteggiato la sorella di cui egli stesso è stato un amante incestuoso. Appena usciti dal carcere, Talino riesce a convincere Berto, che è esperto meccanico, a seguirlo in campagna, a Monticello, lontano dalle leggi che governano la società umana; lì egli potrà lavorare alla trebbiatrice.

Berto lo segue a malincuore, perché sospetta che quel goffo contadino covi dentro di sé qualche suo oscuro piano diabolico e si voglia servire di lui. Ed effettivamente Talino lo ha invitato in campagna per farsene scudo contro una eventuale vendetta di quel tale a cui aveva bruciato il capanno. Giunto in paese, Berto rimane turbato alla scoperta della campagna: l’odore del fieno, la vista di quelle colline a forma di mammelle, la famiglia di Talino, il padre di quest’ultimo, Vinverra, le sorelle terrose, tutto lo sorprende e lo affascina.  Soprattutto lo affascina però la sorella di Talino, Gisella: solo ella gli appare diversa, di un’altra razza, non quella della campagna. Berto quindi comincia a farle la corte per un senso di prorompente sensualità che emana da quegli stessi luoghi e per solidarietà con lei. Ma Talino ha avuto rapporti incestuosi con la sorella, ed ora non resiste alla nuova realtà dell’amore di Gisella per Berto:  nel giorno della trebbiatura, mentre la gente è tutta affaccendata e congestionata dal sole e dalla polvere, mentre Gisella porge da bere al meccanico e respinge il fratello che le fa due occhi da bestia, con un salto, Talino pianta nel collo di Gisella il tridente.

L’assassino ha come prima reazione quella di fuggire, e va a nascondersi nel fienile. Il giorno seguente però fa ritorno a  casa, dove la sorella giace ancora preda di una terribile agonia. Nonostante la drammaticità della situazione Vinverra sprona la famiglia a tornare al lavoro, e la ragazza viene lasciata a morire. Talino viene arrestato dai carabinieri e Berto se ne torna in città. “Paesi tuoi” al suo tempo viene accolto dalla critica e dal pubblico dell’epoca come un romanzo fortemente anticonformista e scandaloso per alcune tematiche tabù come quella della passione incestuosa. Anche il linguaggio, che mescola all’italiano medio tratti dialettali rilevati e, talora, violenti, viene accolto con sorpresa.

Il focus principale, che rimane simbolico e che serpeggia per “Paesi tuoi” è il contrasto tra civiltà e natura in tutte le sue forme: quando Berto arriva in campagna è esterrefatto dal mondo cui viene a contatto, un mondo che non avrebbe mai pensato esistesse, un mondo incivile, dove l’uomo cerca di governare la natura proprio come fosse un animale impazzito. La realtà rurale che traspare in filigrana nel romanzo è una realtà antica, una fotografia ingiallita, un paesaggio molto distante dai ritmi e dal carattere che si respira in città. Il finale è il risultato del rapporto conflittuale tra città e campagna, appunto: due mondi che non possono convivere serenamente: il dramma finale è la metafora dello scontro tra la natura viva, istintuale, viscerale, passionale del mondo di campagna (incarnato da Tallino)e la natura distaccata, sospettosa, calcolatrice, sorniona ed esperta del mondo di città, incarnato da Berto. Berto è quindi l’uomo urbanizzato, senza appartenenza, che si deve confrontare con un mondo antico, distante, fatto di riti e simboli: la differenza tra Berto e Tallino sta tutta nella descrizione, tipicamente pavesiana, dei caratteri fisici segnati dalla fatica.

Il dramma finale di Paesi tuoi è il simbolo della bestialità dell’istinto umano, che è rimasto intatto nel mondo di campagna: Tallino non può che esserne atterrito. Ma c’è di più: Berto vive la tragica fine di Gisella ossessionato dalla consapevolezza di una morte annunciata, che avrebbe potuto essere evitata, se solo egli ne avesse avuto la convinzione. Berto è la rabbia che cova e che  si trasforma in follia, una rabbia che trova nella gelosia solo la miccia per esplodere, ma che in realtà ha cause e genesi molto più profonde: la povertà, la condizione misera della vita, l’abbrutimento dell’animo, un sentimento di ingiustizia verso il mondo.

Potremmo dire oggi che Pavese quasi opera una descrizione “pasoliniana” dei suoi personaggi, tutti verosimilissimi: pasoliniana perché sembra quasi scorgere un occhio attento, sensibile a tutti i più significativi particolari, sembra quasi di vedere  attraverso la macchina da presa di Pasolini che raccoglieva i particolari più bassi e più veri della vita: in questo romanzo ci riferiamo a cosa se non che al tema dell’amore incestuoso, ingrediente quasi diabolico. Questo Naturalismo che mira a un senso più profondo, fu quasi immediatamente colto dalla critica degli anni fascisti: Paesi tuoi è importante a sua volta, in quanto rompe con la cultura dell’epoca in cui la retorica fascista primeggiava. Insomma, è come una provocazione, perché sconvolge tutti gli schemi e tutte le idee che allora si facevano della letteratura. Il paesaggio non viene descritto come in precedenza, ma con una serie di metafore: ad esempio, le colline langhigiane vengono soprannominate “mammelle” ed acquistano un significato simbolico dal punto di vista sessuale. Un altro esempio: la terra viene associata alla figura del corpo femminile ancora per sottolineare il simbolo della fertilità umana. In definitiva il paesaggio non ha il comune ruolo di sfondo ma è funzionale, quasi un personaggio che ha un suo peso nell’ambito della vicenda. Proprio come specchio dei suoi tempi, diranno vari critici anni dopo, il fondamento di “Paesi Tuoi” è questa vena simbolica che, attraverso la brutale, improvvisa e inaspettata violenza di Tallino, sembra voler richiamarsi alla più generale violenza della storia dell’uomo, il destino a cui nessuno può sottrarsi: che in quegli anni si chiamava seconda guerra mondiale.

Mrs Dalloway: la complessità della vita in una sola giornata

Se dovessimo descriverlo attraverso poche parole, diremmo sicuramente che Mrs Dalloway di Virginia Woolf questo rappresenta uno dei più bei , intensi e riusciti romanzi scritti durante il primo Novecento. Pubblicato nel 1925, il romanzo narra la giornata di Mrs Dalloway e di altri personaggi mostrati, dall’autrice, sia in primo piano che sullo sfondo.

La storia di “Mrs Dalloway” si svolge in una sola giornata, qualche anno dopo la Prima Guerra Mondiale, sufficiente però a ritrarre la complessità della vita, il predominio delle mente che tutto assimila e l’instancabilità del pensiero che trascende lo spazio, mescolandosi con i ricordi.

In Mrs Dalloway, l’autrice utilizza la tecnica del monologo interiore per descrivere uno scenario in cui, la nostra protagonista, la cinquantenne borghese  signora Dalloway, si mostra quale rappresentazione della società britannica di inizio Novecento, con i suoi pregi e i suoi difetti. Una società snob, una donna che la incarna e un uomo, Peter Walsh, consapevole di ciò ma che, nonostante tutto, non riesce a smette di amarla. E così, fugge. Da ciò che rappresenta quell’amore-odio dal quale non si può scappare.

Un oggetto porta e nasconde in se il mistero di un ricordo perso e forse, soffocato dall’inconscio. Così il movimento ondeggiante di una foglia può ricordare a Clarissa la passione per la danza o le lunghe cavalcate a Bourton. L’incontro con Hugh Withbread porta alla donna, ancora una volta, nel mondo dei ricordi legati alla sua giovinezza. Ma resta il pensiero di Peter, ad accompagnare le ore che scandiscono il tempo. E ancora lei, Clarissa che prende vita in queste 200 pagine portando con se un alone di mistero per quella malattia dalla quale è appena uscita ma di cui, la Woolf, non parla mai in modo diretto. Quasi volendola celare con ostinazione e vergogna.

Parole, quelle della Woolf, che mostrano un dolore celato dagli eventi, un dolore che altri non è se non quel “mostro, quell’odio come un formicolio lungo la schiena”. Tutto il dolore che si rispecchia in un’autrice che, prima di riuscirci, ha tentato più volte di strapparsi la vita. La stessa Woolf dirà di sè :“Quando scrivo non sono che una sensibilità. A volte mi piace essere Virginia, ma solo quando sono sparsa, varia e gregaria.

La narrazione di Mrs Dalloway si sofferma su diversi avvenimenti che riguardano persone differenti e vari punti di Londra, ma che avvengono tutti nello stesso momento. Un attimo che si estende trascinando con se il lettore in un’opera letteraria senza tempo.

Il tempo, è lui il vero protagonista. Non possiamo trascurare il particolare legato al titolo che, inizialmente, la Woolf, voleva dare al suo libro, “Le ore”. Ogni personaggio viene ad essere caratterizzato dal suo rapporto con il tempo. Ma quel tempo, questo tempo, non è solo quello esterno, quello che riusciamo a captare attraverso le informazioni date dall’autrice, una data, un periodo storico, i rintocchi del Big Ben. Il tempo, quello che travolge il lettore, è quello interiore di ogni personaggio, quello collegato a quelle caverne di cui la Woolf ci parla nel suo diario.

Avrei molto da dire intorno a “Le ore” e alla mia scoperta: come io scavi bellissime caverne dietro i miei personaggi, questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità, profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al momento giusto.” (Virginia Woolf, “Diario di una scrittrice”, 29 agosto 1923)

E qui, in queste pagine, nasce l’alter ego di Septimus, il cui tragico suicidio coinvolgerà e turberà Clarissa. Ma non ci sarà pietà per quest’uomo che, secondo la nostra protagonista, mostra così, attraverso il suicidio, il suo egoismo. Clarissa si immedesima così nel giovane suicida, spinta da una profonda riflessione sulla sua vita, il suo primo pensiero alla notizia del suicidio di un ragazzo di trent’anni è: «Oh… Nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte» trovando sconveniente che a una festa si parlasse di disgrazie. E ancora una volta appare quell’egoismo che rappresenta il suo carattere, quello snobbismo che mostra una società intera. Appresa la notizia, Clarissa si rifugia nella sua camera mostrando una maleducazione proprio dell’ Inghilterra del primo Novecento.

Lei è la nostra anti-eroina, a mostrarci un romanzo che, ancora una volta, mostra la forza di una scrittrice fuori dagli schemi, una donna che affermava di andare in depressione dopo aver finito di scrivere un libro. Una donna, unica e sola, in grado di descrivere quella realtà di cui ancora oggi facciamo parte, con le nostre fragilità, i nostri dubbi, le nostre incertezze, le nostre paure. Un mondo reale descritto attraverso parole che potrebbero essere rilette mille e mille volte ancora, portandoci in quella Londra del ‘900 probabilmente ancora attuale.

Parole, domande, incertezze, ricordi. E quel finale attraverso cui giungiamo dinanzi ad una sola realtà: la vita, con tutti i suoi momenti, le persone che incontriamo, con tutte le loro mille contraddizioni, gli errori, i ricordi, che sono da sempre la nostra forza, mostrano la certezza di una vita sempre degna di essere vissuta.

“Che cos’è questo terrore? Che cos’è quest’estasi? Che cos’è che mi riempie di un’emozione senza pari?” A chi di noi non è mai capitato di vivere intensamente un solo attimo, tutta una vita con le sue complicazioni in una sola giornata?

“L’assassino”: l’arguta psicologia di George Simenon

Georges Joseph Christian Simenon (1903-1989) è autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico come ideatore del personaggio Jules Maigret, commissario di polizia francese. Prolifico scrittore, inizia la sua carriera a poco meno di sedici anni, a Liegi, come giornalista nella sua città natale. Trasferitosi a Parigi negli anni venti, diventa autore di narrativa popolare ottenendo grandi successi. Negli anni ’70 produce un considerevole numero di romanzi (gialli e non), tale da renderlo uno degli autori più letti e tradotti del XX secolo.

“L’assassino” (in originale francese “L’assassin”), è appunto uno dei suoi romanzi, edito nel 1937 da Gallimard e pubblicato in italiano nel 2011 dalla casa editrice Adelphi ,tradotto da Raffaella Fontana.

Hans Kupérus è un medico, ma anche un uomo corpulento, metodico, abitudinario, riservato. Ha da sempre un’ambizione frustrata: quella di diventare presidente dell’unico posto di ritrovo del piccolo paese in cui è cresciuto: il circolo del biliardo. È un martedì di gennaio e Kupérus è ad Amsterdam per una periodica riunione medica dove è solito fermarsi anche a dormire per tornare il giorno successivo, ma al convegno questa volta non si presenta. Entra in un’armeria e compra una pistola anche se non sa ancora cosa farne, poi riprende il treno per tornare in paese a Sneek.

È ormai trascorso un anno da quando un biglietto anonimo l’aveva messo al corrente che la moglie, quando lui andava in città, passava la notte fuori casa tradendolo proprio con la persona che da sempre veniva eletto tacitamente, per la sua altolocata posizione, presidente del circolo impedendogli di coronare il suo modesto sogno. Non lontano dalla stazione d’arrivo, il treno improvvisamente si ferma e Kuperus prende una decisione. Scende di nascosto e si reca nel capanno dove è certo di trovare i due amanti. Colti sul fatto, li uccide. Poi getta i corpi nel lago che, ghiacciando, li occulterà per tutto l’inverno. Quindi rientra in paese e passa al solito caffè, chiacchiera con gli amici e torna a casa. Al rientro Neel, la domestica, gli comunica che la moglie è andata a trovare dei parenti e che sarebbe rientrata il giorno dopo. Kuperus, come se fosse la cosa più normale, ordina a Neel, sulla quale aveva da sempre fantasticato, senza mai osare nulla, di raggiungerlo in camera da letto. Dopo un debole tentativo di dissuasione lei cede alle sue richieste. Da quella volta, Kuperus rinnova ogni sera la pretesa che viene silenziosamente soddisfatta, divenendo sempre più  coinvolto in questo strano menage. Così comincia questo romanzo noir , intrigante e  gelido come il suo protagonista, in cui Simenon segue la discesa nell’abisso di uno dei suoi eroi più tipici: uno di quelli che osano “passare la linea” e ne pagano il prezzo.

Pur utilizzando uno stile narrativo asciutto e poco incline a estetismi letterari, le opere di Simenon dimostrano una notevole capacità di ritrarre con arguta psicologia vicende dal sapore profondamente umano. Si parla addirittura di borghesizzazione del racconto giallo: uomini umili appartenenti alla borghesia, si trovano coinvolti in vicende drammatiche, passando sotto la lente di un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in descrizioni favolistiche, ma anzi ad esse dedica poche ed esaustive righe. Tutto è realtà e naturalmente anche il bigottismo e l’ipocrisia della società perbenista che condanna senza pietà l’assassino. Simenon attraverso la vicenda criminale e la discesa nelle tenebre della coscienza di Kuperus, dà grande prova di conoscere profondamente l’ambiente di provincia (in questo caso quella olandese ma è universale).

Molti dei romanzi di Simenon sono diventati film, sceneggiati e serie televisive. “L’assassino” è stato portato sullo schermo da Ottokar Runze, in un film tedesco dal titolo “Der Mörder”, uscito nel 1979.

“Intemperie”, il successo inaspettato di Jesus Carrasco

In Spagna ha avuto dieci edizioni in tre mesi.  Stiamo parlando di “Intemperie”, dello spagnolo Jesus Carrasco; un romanzo senza tempo, protagonisti senza nome, un paesaggio duro, aspro. Un successo inaspettato.

In un romanzo in cui le parole spingono alla ricerca della salvezza, Jesus Carrasco, porta dinanzi agli occhi dei lettori due protagonisti, un uomo e un bambino. Il bambino che cerca una via di fuga, una luce, ancora una speranza, un ultimo barlume. Cerca, forse, quell’uomo, quella persona, a cui potersi affidare, aggrappare. Una figura diversa da tutte quelle che, pur potendo e dovendo, non hanno voluto salvarlo, proteggerlo, gettandolo in una realtà che, a un bambino, mai dovrebbe appartenere.

In un luogo e in un tempo senza speranza alcuna, il bambino fugge dall’ufficiale cui è stato concesso, per i suoi piaceri, dallo stesso padre. Una corsa vana senza quella figura, un pastore incontrato per caso, che possa salvarlo da chi desidera ardentemente, per i propri piaceri, perversi e crudeli, quella carne ancora troppo giovane, ingenua, ma in grado di correre, di desiderare una vita in cui esista ancora quella dignità che sembra essergli stata negata, sottratta.

E così due anime si incontrano, bisognose l’una dell’altra, in questa terra desolata. Un paesaggio, duro e aspro, che rappresenta uno specchio dell’animo umano. Una natura che mostra ciò che l’uomo è, ciò che non è, ciò che dovrebbe essere, ciò che sente, che fa male, fa paura, ma può salvare ancora.  Due figure che, il nostro autore, immerge in un mondo da cui, entrambe forse, hanno bisogno, in modi diversi, di essere salvate. Un uomo, taciturno e silenzioso, con le sue capre e il suo cane; un bambino con le sue paure, la sua fragilità, quella forza che lo spinge a scappare e quella voglia e quel bisogno di credere ancora.

Protagonisti, come già accennato, due figure senza nome proprio. Un adulto che possa ancora rappresentare quel punto di riferimento ormai perduto o, forse, mai avuto. Un capraio che vede in quello sguardo di bambino, quel dolce contatto mai avuto o forse avuto poco, in quella che intuiamo essere stata una vita lunga, difficile, solitaria.

Un romanzo, quello di Jesus Carrasco, accostato a “Il vecchio e il mare” di Hemingway, che tocca ogni fibra del nostro essere. Ogni parola, che grida nel silenzio di quella terra, è un battito accelerato, un cuore che si ferma. Un romanzo teso e che tende le nostre corde fino all’ultimo istante, fino a quell’ultima parola.

Ed è qui che giunge la sorpresa, perchè questo che rappresenta uno dei più bei romanzi degli ultimi anni, non l’ha scritto un autore noto, ma un quarantenne spagnolo, un esordiente cresciuto nella campagna dell’ Estremadura. Un uomo che ama la semplicità, arricchita da quei mondi che solo la lettura può regalare, offrire, descrivere. Un lavoro da copy pubblicitario, una moglie sivigliana, due bimbe, una bicicletta e un orto che cura con gli amici.

In un’intervista a Elle.it, ha parlato del suo legame con la scrittura, un legame che esiste da sempre ma che, negli ultimi 20 anni, è cambiato, cresciuto, portandolo ad essere pronto a costruire quella storia che potesse piacere anche a noi lettori. E così è stato.

Jesus Carrasco, con uno sguardo magnetico, il baffo alla Don Chisciotte, due occhi grandi e penetranti, idee chiare e limpide fatte di forza e semplicità, entra nelle nostre viscere con un linguaggio che mostra un’opera d’arte. Ed è questa la forza di ogni singola parola scritta tra queste pagine. Quelle parole, pura poesia, che giungono diritte al cuore, quelle parole con cui, Jesus Carrasco, ha rapito la nostra attenzione e ci ha portato in un mondo in cui una natura desolata, incontra due anime pronte ad aprirsi, a sperare, a guardare oltre, ad imparare l’una dall’altra. Perchè da soli, questo splendido viaggio che è la vita, non ha sostanza.

E poi una dedica. La sua. Al padre. L’uomo che l’ha avvicinato alla lettura, l’uomo di cui racconta attraverso la semplice descrizione di un’immagine. ”  Forse la scintilla che mi spinto ad arrivare fin qui è mio padre, la persona a cui è dedicato il romanzo. Ho sempre l’immagine di lui seduto a leggere in poltrona. È stato il primo che ho visto leggere e colui che mi ha indotto con l’esempio ad avvicinarmi alla lettura e in seguito alla scrittura”. (CIT. Elle.it di  Jesus Carrasco)

“I Buddenbrook”: il capolavoro ‘schopenhaueriano’ di Mann

«Soltanto, non dovete credere che ci troviamo su un letto di rose…[..]..gli affari vanno male, …[..]..vi dico solo questo: se il babbo fosse vivo…[..]..giungerebbe le mani e ci raccomanderebbe tutti alla misericordia di Dio». Alle orecchie di quanti, suona, questa considerazione, come la tipica ed opportuna raccomandazione fatta in famiglia che, in tempi come quelli correnti, non manca mai all’appello? No. Come spesso capita, la letteratura ci permette di riflettere su quanto alcune vicende, per quanto antiche cronologicamente, siano attuali. E questo è il caso de “I Buddenbrook”: decadenza di una famiglia”.

Scritto da Thomas Mann sul finire dell’800, tratta della storia generazionale e sociale di una ricca famiglia della borghesia mercantile di Lubecca (Germania), della loro ascesa al potere alla loro fine che coincide con la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo: il Novecento con le sue guerre e totalitarismi. La storia narrata va dal 1835 al 1877, passando per i fondamentali fatti storici Tedeschi del periodo (Rivoluzione di Marzo, Ascesa Prussiana, Unificazione del territorio tedesco).

Nonostante le premesse, il primo romanzo di Mann presenta, più che una vicenda economico-storica, una narrazione interiore e comportamentale di stampo familiare,che ricorda da vicino tanti probabili casi odierni, dove la “decadenza” del titolo non è tanto dei beni materiali, che pure sono un elemento portante della vicenda, quanto dei fondamenti psicologici e sociali della famiglia.

L’oppressiva sensazione di un destino fallimentare e di una fiducia troppo spesso negata, incarnate da un gran numero di famiglie che oggi troppi giovani, spesso troppo sensibili, sono costretti ad affrontare, è il  fulcro del racconto il quale trova respiro nel personaggio del giovane Hanno (personaggio di rottura che rappresenta il ‘900), anima artistica che individua la sublimazione di sé nella musica, e la propria nemesi nelle imposizioni familiari delle generazioni precedenti. Così come l’accumularsi delle ansie mortifere, delle tensioni e dei disastrosi pessimismi cosmici sempre più autoalimentati dagli odierni capi famiglia, sono rappresentati dall’originariamente energico imprenditore Thomas Buddenbrook. Tali “modelli” comportamentali, che quasi sembrano domandarci se davvero siamo autori del nostro destino, e i protagonisti che li rappresentano, sono definiti con uno stile tanto naturale quanto preciso che sembrano esser vissuti davvero.

“Ed ecco, improvvisamente fu come se le tenebre si lacerassero davanti ai suoi occhi, come se la parete vellutata della notte si squarciasse rivelando un’immensa, sterminata, eterna vastità di luce. “Io vivrò.” Disse Thomas Buddenbrook quasi a voce alta. Che cos’era la morte? La risposta non gli fu data con poche e presuntuose parole: egli la sentì, possedendola nel profondo di sé. La morte era una felicità così grande che solo nei momenti di grazia come quello la si poteva misurare. Era il ritorno da uno sviamento indicibilmente penoso, la correzione di un gravissimo errore. Fine, disfacimento? Che cosa si dissolve? Null’altro che questo corpo … questa personalità e individualità, questo goffo, caparbio, grossolano, detestabile impedimento a essere qualcosa di diverso e di migliore”.

E in un certo senso è così, dato che Mann si ispirò alla propria famiglia, in effetti originaria di Lubecca, e a quel clima di soffocante indottrinamento borghese che prevede(va?) l’imposizione di un’immagine di sé forte e solida agli occhi della società, a scapito della verità dentro noi stessi. Possono il sentimento dell’arte,la maturata consapevolezza di sé stessi attraverso quattro generazioni prevalere sulle esigenze economiche? Può uno dei protagonisti, Tony imporsi definitivamente, con il suo amore genuino e ottimismo giovanile, sulle convenzioni, nonostante gli innumerevoli lutti? I Buddenbrook sono in romanzo dove i protagonisti e le loro vicende, nonostante lo svolgimento nell’arco di 40 anni, ricordano da vicino una modernità che, troppo spesso, ci impone dilemmi impietosi e costrizioni innaturali.

I Buddenbrook lasciano che il lettore si renda conto del precario equilibrio che c’è tra la vita e la morte (la malattia sembra essere quasi celebrata, attraverso descrizioni dettagliate). Mann sembra volerci insegnare questo: dopo il raggiungimento del successo vi può essere solo una discesa, che sia rapida o lenta (la decadenza) non importa; ciò che manda in crisi il protagonista  è l’aver percepito che il prestigio della propria famiglia, nonostante tutti i suoi sforzi, dopo aver raggiunto il culmine è destinato a deflagarsi. In questo senso è evidente l’inflenza che ha avuto la filosofia di Schopenhauer su Mann, e infatti la vita dei protagonisti appare dominata da una forza, una volontà irrazionale, che li pone di fronte ad eventi ineluttabili. L’uomo davanti a questi fatti fatali non può nulla.

I personaggi de I Buddenbrook sono dotati di una volontà morale abbastanza forte che gli consente di affermare i loro valori, ma come gli inetti di Svevo sono incapaci di lottare per rendersi protagonisti e far emergere le qualità straordinarie che possiedono, hanno in sé un cupio dissolvi che li conduce al tracollo. anticipando così L’uomo senza qualità di Musil.

Thoman Mann da un lato critica la chiusura e l’ottusità della mentalità borghese nei confronti dell’arte e di tutto ciò che fa riferimento allo spirito, dall’altra, al contrario di molti decadenti, di questa società  ammira il pragmatismo e la solidità materiale, economica, l’abilità di conservare il proprio benessere. Dunque p lo scrittore stesso che vive un drammatico dualismo: egli infatti è sia un distinto borghese che un “avventuriero dello spirito”.

Sicuramente “I Buddenbrook” sono il libro più affascinante e complesso dello scrittore tedesco, l’opera più rappresentativa della crisi esistenziale dell’uomo borghese di inizio ‘900, il quale non sa conciliare arte e profitto, perché riesce a calare magistralmente la sua diagnosi culturale, sociale e politica nella semplicità quotidiana senza spiegare, senza dimostrare ma riflettendo, peculiarità che fanno di questo romanzo, un capolavoro senza tempo pervaso naturalmente dalla malinconia ma anche dalla grazia. I Buddenbrook è un romanzo imperdibile, una sinfonia enciclopedica dove si alternano malinconia ed ironia; da leggere e rileggere.

‘La bella estate’ di Cesare Pavese: la libertà è un male?

La Bella Estate è il titolo di una raccolta di romanzi brevi di Cesare Pavese pubblicata nel 1949. Si compone di tre testi: “La bella estate” (scritto nel 1940 e rimasto inedito fino alla sua comparsa nella raccolta), “Il diavolo sulle colline”, composto nel 1948, e “Tra donne sole”, risalente invece al 1949. Grazie a questi tre racconti, racchiusi ne “La bella estate”, Pavese si aggiudica la vittoria del Premio Strega nel 1950.

Fondamentale testo di Pavese, che rappresenta uno degli ultimi atti  della sua produzione letteraria, La bella estate non ha goduto di particolare considerazione da parte della critica, soprattutto in tempi recenti. Altre sono infatti le opere dell’autore piemontese assunte come veri e propri classici.
Tuttavia questa è un’opera fondamentale per capire la personalità dello scrittore e forse le tre storie raccolte sono le più significative per quanto riguarda l’immedesimazione dello stesso autore.
Le tre storie sono tutte diverse tra loro, ma tutte trattano in maniera delicata ma al tempo stesso ineccepibile alcuni temi che il Pavese sente molto vicini: primo tra tutti il passaggio all’età adulta, l’abbandono doloroso quindi del mondo adolescente a cui si vorrebbe sempre rimanere attaccati. Il rapporto quasi “umano” tra campagna e città, descritte in modo da far emergere proprio due caratteri diversi, due mondi distanti che molte volte ti respingono, altre volte ti accolgono.

La protagonista del racconto dal titolo “La bella estate” è Ginia, una sarta torinese di sedici anni. La giovane, allegra e spensierata, fa la conoscenza di Amelia, una ragazza più grande che lavora come modella per alcuni pittori torinesi. L’amicizia con Amelia la porterà a frequentare ambienti a cui era poco avvezza e qui l’ingenua e inesperta Ginia s’innamora di Guido, un pittore, e grazie all’intervento di Amelia diventa la sua amante. All’inizio della vicenda amorosa la ragazza è felice e convinta di aver trovato l’amore,  ma si rende presto conto che in realtà Guido è poco interessato alla sua compagnia e si diverte molto di più a trascorrere il suo tempo con gli altri artisti, in particolare con Rodrigues, un tempo amante di Amelia.

Ginia, nonostante soffra moltissimo per l’indifferenza che avverte da parte di Guido, continua i suoi approcci. Poi arriva il momento cruciale: un giorno Guido propone alla ragazza di posare nuda per i suoi dipinti, senza avvertirla che da dietro una tenda la sta osservando anche Rodrigues. Ad un certo punto questi fa capolino nella stanza dal suo nascondiglio, e Ginia, umiliata e piena di vergogna, si copre e scappa immediatamente. Da quel momento niente sarà più come prima e Ginia preferirà la compagnia di Amelia. Il tema centrale del racconto è il rapporto tra le due ragazze: durante la storia si rincorrono, si cercano, si perdono, si trovano. L’attrazione erotica tra le due ragazze non è mai espressa in modo esplicito: Pavese vuole che il lettore intuisca cosa di “strano” ci sia nella storia. L’immagine di loro due che si baciano è quasi tenera e non riesce a sortire l’effetto, che forse avrebbe voluto l’autore, di rendere il rapporto tra le due giovani come un qualcosa di pian piano travolgente.

Ne La bella estate molto spazio è concesso ai particolari “della carne”,  “L’odore che hai tu sotto le ascelle è più buono dell’acqua ragia” – dirà Guido a Ginia. Tutto quasi a significare i corpi che si cercano, che si vogliono. Idea che Pavese tuttavia non riesce a rendere perfettamente, nel racconto si intuisce solo lievemente la voglia di un amore “carnale” più che platonico: molti critici hanno spiegato ciò riconducendosi ai problemi che Pavese aveva con le donne e alla difficoltà di avere un rapporto sereno con esse.
“Voi altre non fate che corrervi dietro, perché se siete tutte e due donne?” – è la domanda, non tanto retorica forse, che Rodrigues, il pittore, farà a Ginia che, per tutta risposta, cambierà argomento In questa occasione e in poche altre ci si rende conto effettivamente  del rapporto che intercorre tra le due protagoniste.

La bella estate è proprio il periodo dell’anno che attende con tanta ansia Ginia, perché lei e Amelia possano tornare a indossare lunghe e svolazzanti gonne andando in giro per negozi e facendosi guardare, come entrambe affermano in più di una volta durante il romanzo.
La scena finale della fuga di Ginia è emblematica di una adolescenza ancora acerba, di un considerarsi prematuramente “donna”, perché ancora non pronta a sopportare gli sguardi degli uomini sul proprio corpo nudo.

Con “Il diavolo in collina” è invece un racconto che, accanto al tema della difficoltà del passaggio al mondo adulto, accosta anche la metafora della vita in campagna, una vita che viene dalla terra, dai profumi che essa rilascia e dal calore del sole in estate, una vita vera, senza i filtri che invece caratterizzano la vita della città.
La  narra di tre amici inseparabili, l’io narrante, un bravo ragazzo di città, Pieretto, e Oreste, semplice e ingenuo che viene dalla campagna. Costoro, nei loro vagabondaggi per le colline, incontrano Poli, il figlio dei padroni della tenuta il Greppo.

Vengono così a conoscere la squallida storia di Poli che vuole liberarsi dell’ex-amante Rosalba che fa di tutto per trattenerlo. Una sera, durante un ballo, Rosalba, che poi si suiciderà, ferisce Poli con un colpo di rivoltella durante un amplesso e i tre giovani, finita l’avventura, ritornano alle loro vite per ritrovarsi, alla fine di agosto, a casa di Oreste.

I tre amici riprendono i loro vagabondaggi per le colline godendo della natura finché vengono a sapere che Poli è ritornato al Greppo e decidono di andarlo a trovare.
Poli si trova alla villa insieme alla moglie Gabriella e ambedue insistono perché si fermino. Qualche giorno dopo ritornano alla villa e, presto incuriositi e in fondo attratti da questo mondo e dal fascino di Gabriella, decidono di fermarsi. Oreste è particolarmente attratto dalla donna che gli mostra apertamente il suo interesse e l’io narrante, che si rende conto del pericolo, vorrebbe andarsene ma Pieretto lo convince a fermarsi. Poli dopo una festa si sentirà male e Gabriella portandolo a milano per cure lascerà i giovani al paese.

D’estate la vita assume altri significati, soprattutto quando si è giovani. Cosi i tre amici spesso si trovano in macchina tra le colline, nel cuore della notte, vagando senza una meta precisa nell’oscurità del paesaggio. È emblematico il modo in cui incontrano Poli: un’auto ferma in strada, con una persona riversa sul volante. Dapprima i tre sono impauriti, perché non sanno a cosa vanno incontro: emettono della grida che risuonano tra le colline deserte e buie. Questa è una delle tante immagini che meravigliosamente Pavese ci offrirà. I tre, ai quali poi si aggiungerà il diavolo sulle colline, cioè Poli , saranno soliti trascorrere le sere in compagnia (non sempre, tuttavia) di amiche, sfrecciando sulle stradine tortuose di collina, aspettando il sorgere del solo nelle piazzette deserte dei piccoli paesi.
Pavese come al solito ci fa solo intuire quali sono i caratteri dei protagonisti: lo studente di medicina che si permette poche distrazioni ma che viene spesso trascinato nelle avventure notturne da Poli, l’io narrante, che forse è il personaggio con meno personalità di tutti, perché non riuscirà mai a schierarsi apertamente contro le malefatte e scorribande che propone Poli, perché in realtà, forse, anche lui vuole divertirsi. E poi Poli: questo strano ragazzo che fa uso di droghe, sebbene sia di famiglia agiata, che vuole abbronzarsi fino a diventare nero come il carbone, che vuole la compagnia di belle donne, che vuole una vita a cento all’ora, ma che forse è il più disperato di tutti. Un personaggio quasi tipicamente gassmaniano, un mattatore dal sorriso triste e dagli occhi vispi.
Il modo in cui termina il racconto è l’epilogo di chi vuole ma non osa e di chi, per quanto abbia osato, si ritrova sconfitto: ovvero la vicenda di Oreste e quella di Poli. Insomma da un lato o dall’altro (appunto ai due antipodi, Oreste e Poli), Pavese ci offre un quadro di solitudine, di chi cerca in tutti i modi di aggrapparsi alle certezze quasi infantili che dolorosamente dovrà lasciarsi alle spalle, in un mondo da  adulti. E’ un racconto che lascia, anche in chi lo legge, un senso di scoramento.

“Tra donne sole” è forse l’opera che più ci fa capire il dramma di Pavese: gli sfondi del diavolo in collina, i richiami velati a una sessualità travolgente de “La bella estate”, lasciano spazio a un classico racconto dallo sfondo  neorealista. Tuttavia il motivo principale dell’importanza di quest’opera risulta essere l’inquietante parallelismo tra Rosetta, che morirà suicida e proprio lo stesso Pavese, che farà la stessa fine (anche con le stesse dinamiche in apparenza inspiegabili) pochissimo tempo dopo.

La protagonista, Clelia, è una donna che era partita da Torino 17 anni prima per  cercare lavoro e fortuna a Roma. Dopo molti anni di successo nel mondo del lavoro, ritorna alla sua città nativa, Torino, per aprire una succursale della sartoria romana per la quale lavora. Il ritorno al luogo dell’infanzia è per la protagonista una sorta di ricerca di se stessa. Clelia era infatti partita da Torino povera e desiderosa di uscire dalla sua situazione di miseria e aveva sognato di tornare un giorno a Torino e trovare un mondo diverso da quello da cui era partita, ma questo mondo si mostra ben presto tutt’altro da quello che lei si aspettava. Scopre così di sentirsi estraniata non solo di fronte ad una certa società, che disprezza e disapprova, ma anche di fronte ai luoghi della sua infanzia. Questo è reso bene da una immagine particolare che Pavese ci offre: “Conoscevo le case, conoscevo i negozi.  Fingevo di fermarmi a guardare le vetrine, ma in realtà esitavo, mi pareva impossibile d’essere stata bambina su quegli angoli e insieme provavo come paura di non essere più io”

Clelia ha raggiunto grazie al suo lavoro e al suo sforzo quegli ambienti che le sembravano prima inarrivabili ma ora invece freddi e vuoti. Clelia ha ottenuto l’accesso a quel mondo alto-borghese così lungamente desiderato, ma dopo aver frequentato queste persone così diverse da lei, aumenta la delusione e la consapevolezza che si tratta di un mondo vuoto, in cui mancano ideali autentici e veri valori. Giorno dopo giorno esamina le sue nuove conoscenze con indifferenza e senza coinvolgimenti emotivi. Scopre così che dietro l’apparenza, il bel mondo torinese nasconde una vacuità dei rapporti umani e un cinismo spietato.

Non mancano, nel libro, i giudizi che Clelia esprime sulle persone che frequenta, sempre contrapponendole al suo modo di essere donna: “Queste ragazze sono sempre  state con la madre, sono cresciute sul velluto, hanno visto il mondo dietro i vetri. Quando si tratta di cavarsela, non sanno e cascano male” .

In questa sorta di viaggio che Clelia compie all’interno di questa società, incontriamo tutta una serie di personaggi, soprattutto femminili: Clelia, voce narrante e protagonista del romanzo, ha l’immagine di donna emancipata che sembra aver trovato nel lavoro il senso dell’esistenza e la risposta ai propri dubbi.

Rosetta è una donna fragile, che non sa opporre resistenza al cinismo delle sue amiche, l’unica, forse, che sa ancora “sentire” qualcosa e proprio per questo destinata ad una fine tragica. Momina, una donna forte e cinica, vive una vita lussuosa, ma falsa e vuota, anche lei è però capace di sentire l’insensatezza di quel mondo e il disgusto di vivere, come rivelano i suoi dialoghi con Rosetta e con Clelia: “Il mondo è bello se non ci fossimo noi”. Mariella rappresenta la donna bella e simpatica, ma troppo superficiale e stupida. E infine c’è Nené, una donna ribelle con molto talento, ma che dipende da un uomo debole e frustrato.

Anche i personaggi maschili sono caratterizzati da un senso di fallimento generale e dalla mancanza di uno spessore interiore che si traduce in una serie di gesti e di azioni privi di reale consistenza. Clelia incontra questi personaggi prevalentemente di notte, in una Torino particolarmente vivace, diversa dalla città che Clelia vede di giorno. La città piemontese  che riscopre è diversa da come lei la ricordava, più agitata, attiva, trasformata rispetto ai tempi della sua infanzia. Proprio durante una di queste passeggiate, lei arriva nel quartiere dove ha vissuto da bambina, e ritrova l’amica di un tempo, che lei descrive come grigia e rassegnata, forse perché non è andata mai via da Torino.

Un altro personaggio della classe operaia, per il quale Clelia è attratta, è Beccuccio, il capomastro di via Po. Becuccio è una persona solida, che agisce con gentilezza e semplicità. Clelia trova la sua serenità frequentandolo e fra loro si sviluppa un rapporto di amicizia. Dopo una notte d’amore con il giovane, confusa da sempre di fronte alla scelta tra cuore e carriera, la donna sceglie di non proseguire il rapporto perché ciò significherebbe perdere la sua libertà e indipendenza, valori di molta importanza per lei.

Rinuncia dunque all’amore e all’autenticità di sentimenti a favore del lavoro e del successo. Qui c’è di conseguenza un’altra contrapposizione, tra la forte e libera Clelia, tutta dedicata al suo lavoro, e la fragile e disperata Rosetta. In lei il disgusto di vivere si fa sentire sempre più forte. “Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo” . Rosetta sembra essere insieme a Clelia, l’unica che si accorge della vacuità e superficialità del mondo in cui si trova coinvolta. E in questi confronti, il suicidio sembra essere la sua unica soluzione. Il suicidio non è stato dunque per amore, neppure per una storia finita molto tempo prima con Momina, ma a causa della presenza di un profondo disagio, che le impedisce di vivere ed integrarsi nel mondo, di cui è vittima inconsapevole. Rosetta è la vittima innocente di questo mondo di superficialità e ipocrisia.

Questa cerca invano di costruire rapporti più autentici e profondi, ma fallisce. Rosetta, con il suicidio, protesta contro il mondo falso e senza prospettive concrete della gioventù torinese. Il suicidio di Rosetta è presagito da Clelia che si rammarica, quando Rosetta scompare, di averlo sempre saputo e non aver fatto niente. Emblematico è la scena in cui tutti chiedono anche a Clelia notizie sull’apertura dell’atelier.

Molti critici affermano che Clelia e Rosetta siano entrambe due facce di Pavese: Clelia è la libertà, Rosetta la disperazione: queste due facce si incontrano con inquietante perfezione  in Pavese stesso. La libertà spesso appare come la peggiore tra le prigioni, una prigione che spinge a ricercare un senso nella propria esistenza: scoprirsi irrimediabilmente soli, non compresi dal mondo che ci circonda, è il passo principale verso una profonda solitudine e disperazione, una incomprensione verso il mondo e quindi verso se stessi. Sensazioni che Pavese probabilmente ha tentato di imprimere in questa sua ultima significativa opera.

“Canne al vento” di Grazia Deledda: i drammi della fragilità umana

Efix, un contadino che lavora da parecchi anni in un podere in Sardegna di proprietà delle dame Pintor, al termine di una dura giornata di lavoro riceve, in tarda serata, la visita di un giovane con la richiesta di presentarsi l’indomani mattina per dei chiarimenti riguardo una lettera appena giunta. Efix ripercorre la storia della famiglia Pintor; le tre signorine Pintor, Ruth, Noemi e Ester, la madre Donna Cristina, morta prematuramente, il padre Don Zame, dispotico ed arrogante, sempre più tiranno nei confronti delle figlie fino alla sua morte, avvenuta in strada per cause sconosciute, forse per sincope o forse per una aggressione di sconosciuti, la sorella Lia, scappata improvvisamente per dissapori familiari.

“Canne al vento”  è una storia semplice di uomini semplici. Il talento dell’autrice, che certamente non necessita di essere decantato, è stato quello di rappresentare con successo la società dell’epoca con le sue tradizioni, le sue feste e le sue superstizioni. L’autrice ci descrive una società in cui il giorno era dedicato alle incombenze della vita quotidiana e la notte al riposo. La notte è rappresentata come un momento di magia, animata da ogni sorta di creature di fantasia.

“Era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti.”

Tutti questi esseri misteriosi si svegliavano dal loro sonno quotidiano per vagare nelle campagne, rispettati e temuti da tutti.

“Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi.”

Gli uomini e le donne descritti dalla Deledda sono individui che, consapevoli della propria posizione dinanzi al divino, ne accettano le conseguenze con animo dimesso. Si rendono conto di essere come le canne sull’argine di un fiume, piegate dal vento a suo piacimento, senza però spezzarsi

La narrativa della Deledda, posta ora nella scia del verismo di Verga, ora accostata al decadentismo dannunziano, racconta di forti vicende d’amore, di dolore e di morte, nelle quali domina il senso religioso del peccato e la tragica coscienza di un inesorabile destino. Nella sua prosa si consuma la fusione carnale tra luoghi e figure, tra stati d’animo e paesaggio, tra gli uomini e la terra di Sardegna, luogo mitico e punto di partenza per un viaggio dell’anima alla scoperta di un mondo ancestrale e primitivo.
Il libro appare molto “musicale” e porta il lettore a lasciarsi suggestionare dall’armonia descrizioni del paesaggio, fino a  provare empatia verso la gente sarda che risulta semplice, ma tuttavia non priva di infelicità e miseria: il garzone, il libertino, la vergine aristocratica, ognuno naviga nella propria infelicità fin che rimane schiavo del proprio vizio. È servendo con lealtà e dignità il proprio destino che si raggiungerà la serenità.

Letterariamente molto diverso dalla narrativa contemporanea e forse un pò appesantito dalla descrizione dei paesaggi, è un viaggio attraverso la fragilità umana che diventa forza nel momento in cui si accetta pienamente il senso di colpa e ci si vuole salvare attraverso l’espiazione. Deledda racconta di un’umanità in balia del destino,in cui le convenzioni e le convinzioni valgono più delle scelte e del libero arbitrio, il tutto descritto con una vena di lirismo: siamo proprio come canne al vento.

 

 

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