Edna St. Vincent Millay, poetessa scapigliata ed impegnata vincitrice del Pulitzer nel 1923

Un secolo fa, nel 1920, Edna St. Vincent Millay, ragazza sognatrice e audace, di astratta bellezza, pubblica A Few Figs From Thistles: non è il suo esordio (alcuni testi, insieme al poema Renascence, pura potenza – “Io vidi, udii, conobbi fino in fondo/ di ogni cosa il Come e il Perché:/ il passato, il presente e il per sempre” –, uscirono nel 1917), ma è il libro che la rende regina del Greenwich Village, la diva degli intellettuali scapigliati.

Per via di quella poesia ambigua, spigliata, sul crinale della carne, l’anno dopo Edna fece il canonico viaggio a Parigi, diventò amica di Constantin Brancusi e di Man Ray, fu femminista, impegnata, conservando, nei versi, sempre, la misura lirica.  “Come la sua poesia, così la sua morte sarà all’insegna di una tragica, ironica leggerezza: scivolerà dalle scale la notte del 18 ottobre 1950, con un bicchiere di vino rosso in mano, dopo molte ore dedicate alla rilettura di una sua traduzione dell’Eneide”, scrive Silvio Raffo, che delle Poesie di Edna è il gran traduttore.

Per gran parte della sua carriera, la vincitrice del Premio Pulitzer Edna St. Vincent Millay è stata una delle poetesse di maggior successo e rispettate in America. È nota sia per le sue opere drammatiche, tra cui Aria da capo, The Lamp and the Bell, sia per il libretto composto per un’opera, The King’s Henchman, e per versi lirici come “Renascence” e le poesie presenti nelle raccolte A Few Figs From Thistles, Second April, e The Ballad of the Harp-Weaver, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1923.

Come il suo contemporaneo Robert Frost, Millay è stata una delle più abili scrittrici di sonetti del ventesimo secolo, e come Frost, è stata in grado di combinare atteggiamenti modernisti con forme tradizionali creando una poesia americana unica. Ma la popolarità di Millay come poeta aveva almeno altrettanto a che fare con la sua persona: era nota per le sue letture e spettacoli avvincenti, le sue posizioni politiche progressiste, la rappresentazione franca sia dell’etero che dell’omosessualità e, soprattutto, la sua incarnazione e descrizione di nuovi tipi di esperienza ed espressione femminile.

Dalla fama quasi universale negli anni ’20, la reputazione poetica di Millay è diminuita negli anni ’30. Pochi critici pensavano che avesse speso bene il suo tempo traducendo Baudelaire con Dillon o scrivendo la discorsiva Conversation at Midnight (1937). La sua franchezza finì per sembrare antiquata quando la poesia intellettuale del Modernismo internazionale divenne di moda. Nel 1931 Millay disse a Elizabeth Breuer in Pictorial Review che ai lettori piaceva il suo lavoro perché trattava temi antichi come l’amore, la morte e la natura. Quando Winfield Townley Scott recensì Collected Sonnets e Collected Lyrics in Poetry, disse che i “letterati” avevano rifiutato Millay per “disinvoltura e popolarità”.

Negli anni ’60 il Modernismo sposato da T. S. Eliot, Ezra Pound, William Carlos Williams e W. H. Auden aveva assunto una grande importanza, e la poesia romantica di Millay e delle altre poetesse della sua generazione fu largamente ignorata. Ma la crescente diffusione del femminismo alla fine ravvivò un interesse per i suoi scritti, e lei riguadagnò il riconoscimento come scrittrice di grande talento, una che creò molte belle poesie e parlò liberamente nella migliore tradizione americana, sostenendo la libertà e l’individualismo; difendere i principi umanisti radicali e idealistici; e nutrendo ampie simpatie e un profondo rispetto per la vita.

La belva che mi strazia ovunque io vada,
questa passione, questa obliosa brama
che mi soggioga al declinante autunno,
mi lascerò, saziata, in primavera.
Chiusa la piaga, sparirà la febbre,
in seno il cuore scioglierà il suo nodo;
prima che torni il picchio avrò scordato
il tuo sguardo, mio oriente e occidente.
Ma da un simile artiglio non sarò
mai più sicura, anche se amassi ancora:
lungo il mio corpo, vigile nel sonno,
tagliente al bacio, neve alla carezza,
come una spada questa cicatrice
fra me e il turbato amante resterà.
*
La notte è mia sorella, io nel profondo
dell’amore annegata, giaccio a riva,
acque e alghe a fior d’onda mi lambiscono,
mi ferirà la draga, e c’è di più:
lei, solo braccio teso dalla sabbia,
unica voce il cui respiro sento
a sgelarmi le nari, ad aprirmi la mano,
lei potrebbe avvisarti, se tu udissi.
Ma di certo è impensabile che un uomo
in sì dura tempesta lasci il quieto
focolare e s’imbarchi al salvataggio
di un’annegata per portarla a casa,
sgocciolante conchiglie sul tappeto.
Buia è la notte, e per me piange il vento.
*
Verrà il momento, polvere superba,
che a giacere con me sarai gettata.
Che sia il sangue fremente, o come ruggine
su un infranto congegno. E così sia.
Se non oggi, più tardi; se non qui,
sull’erba verde, in sospirosa ebbrezza,
al di sotto, da buone amiche, cara,
insieme dormiremo nella notte.
E, stanne certa, più violento e rude
che ogni ardore del corpo voluttuoso
sarà il bacio umiliante della tenebra
che alfine chiuderà l’altera bocca.
La morte non ha amici: presto o tardi,
torni a nutrire il drago con la luna.
*
Veglia i sentieri della mia passione
come notturna tenebra il pericolo.
Deserti intorno. Da me s’allontani
chi è come il bimbo che l’ombra atterrisce,
fugga da questo luogo infido dove
tremule, oscure e pallide le rose
ondeggiano nell’aria senza stelo
e raggela le mani la rugiada.
Chi è come il bimbo che non ha paura
del buio della notte, lui soltanto
rimanga qui, gli occhi d’amore ardenti,
scaldato dalla febbre delle vene
giaccia quieto con me, protetto dall’insonne
Bellezza e dalla sua tenera spina.

Edna St. Vincent Millay

 

Fonte: https://www.poetryfoundation.org/poets/edna-st-vincent-millay

Hilda Doolittle, la poetessa americana che amava la mitologia classica e l’imagismo e che stregò Ezra Pound

Nata a Bethlehem, in Pennsylvania, il 10 Settembre del 1886 da Helen Wolle, morava, amante della musica e pianista, e da Charles Doolittle,  professore di astronomia presso la Lehigh University, la vita di Hilda Doolittle è stata molto ricca di viaggi, incontri personali e culturali. La coppia ha cinque figli, di cui una morta subito dopo la nascita. Nella famiglia Doolittle vive inoltre un altro figlio di primo letto del padre. Hilda cresce dunque con cinque fratelli maschi.

Conosciuta semplicemente con le iniziali H.D., la poetessa Hilda Doolittle studia letteratura greca al Bryn Mawr College di Philadelphia, ma si ritira prima di aver concluso gli studi. Nel 1907, per un solo anno, è fidanzata con Ezra Pound. Le sue poesie, apparse su “Poetry” nel 1913, sono da questo definite come un perfetto esempio di poetica imagista.

Tuttavia già negli anni della prima guerra mondiale lo stile della Doolittle si avvicina più a quello dell’antica Grecia, sia per i temi trattati sia per il linguaggio. La Doolittle pubblica alcune traduzioni dal greco come l’Ippolito di Euripide e anche adattamenti di testi teatrali greci, come Ippolito temporeggia (1927). Durante la seconda guerra mondiale vive a Londra e compone The gift, che sarà pubblicato nel 1960 e 1982. Tra il 1944 e il 1946 pubblica Trilogy, Tribute to the Angels e Flowering of the Rod. Successivamente si dedica alla scrittura del poema Helen in Egypt (1961).

Hilda Doolittle è stata una musa scontrosa per molti. Nel 1913 sposa Richard Aldington, poeta potente e studioso di letteratura, da cui ha un figlio. Nel frattempo, H.D. coltiva una relazione con Cecil Gray, compositore decisamente più giovane di lei, di cui rimane incinta, partorendo Perdita, nel 1919. Nello stesso tempo, flirta con D.H. Lawrence benché il rapporto più sincero e duraturo sia con Annie Winifred Ellerman, scrittrice, nota come “Bryher”.

Pressoché sconosciuta in Italia Hilda Doolittle è stata la prima donna a vincere la medaglia dell’American Academy of Arts and Letters.

La sua poetica è caratterizzata dall’intensa forza delle immagini, dall’uso limitato delle parole e della mitologia classica. Non ha mai conosciuto il successo, anche perché il suo nome è rimasto a lungo confinato con il movimento imagista, presto superato. Anche i suoi messaggi potevano non essere compresi o accolti con favore, dal momento che affrontava temi femministi e lesbici, dovuti ad una vita  fuori dal comune. La sua riscoperta è degli anni settanta, quando ovviamente il movimento femminista ne ha fatto un’icona, probabilmente più per l’inusuale stile di vita, che per l’opera letteraria, seppur valida.

La vita e l’opera della poetessa americana dallo sguardo fiero e malinconico, riassumono i temi principali del modernismo: la fine delle certezze vittoriane, un’epoca dominata da famelici cambiamenti tecnologici, la violenza di due guerre mondiali, la distruzione dei sistemi simbolici tradizionali, la ricerca di nuovi miti.

 

CALORE

O vento, strappa il calore,
dividi il calore,
laceralo in stracci.

La frutta non riesce a cadere
attraverso questa aria densa―
la frutta non può cadere nel calore
che schiaccia e smussa
le punte delle pere
e arrotonda l’uva.

Taglia il calore―
apriti un varco attraverso di esso,
ruotandolo in ogni lato
del tuo cammino.

 

ELENA

La Grecia tutta odia
lo sguardo fermo sulla faccia bianca,
la limpidezza degli ulivi
dove si riposa
e le sue mani bianche.
La Grecia tutta disprezza
il candore del suo viso che sorride,
cresce bianco e innocente
insieme all’odio
ricordano l’incanto passato
i passati mali.
La Grecia fissa impassibile
la figlia di Dio, nata nell’amore,
la bellezza dei piedi leggiadri
e le ginocchia sottili,
potrebbe amare quella ragazza
solo se fosse deposta

 

‘Taranta d’inchiostro’ di Valeria Serofilli, in anteprima il saggio critico di Floriano Romboli alla raccolta poetica

Proponiamo in anteprima il saggio critico del Prof. Floriano Romboli dell’Università di Pisa alla nuova raccolta poetica di Valeria Serofilli, Taranta d’inchiostro, che uscirà il prossimo maggio per Oèdipus editore.

Il vario e sofferto lavoro del ragno

La più recente raccolta di versi di Valeria Serofilli, Taranta d’inchiostro, è contraddistinta da un notevole equilibrio formale-stilistico e dall’indubbia coesione strutturale dei testi.

Con interessante perizia ordinativa l’autrice premette infatti alle cinque sezioni di cui consta la silloge una lirica, intitolata L’architetto, dalla palese funzione introduttiva e tematicamente focalizzante, ove è facile rilevare la centralità della figura del ragno quale referente primario di un suggestivo campo associativo che connette la tessitura dell’insetto industrioso (“Tesseva un filo in più il ragno”) all’attività del poeta, alla sua ricerca etico-estetica (“Come aggiungesse da poeta un altro verso”), nell’allargamento prospettico di chi intende elaborare le esperienze particolari allo scopo di enuclearne i significati più generali e profondi in vista dell’acquisizione di una sintesi superiore animata da uno spirito metafisico:

Entrambi mattoni dell’universo
al cospetto
dell’unico Architetto/ il più alto Maestro

Tale scansione problematica risulta indicativa – nel suo efficace risvolto prolettico – dei motivi fondamentali e dei tratti ideativi del libro, dominato dal ricorrere di situazioni contraddittorie e unificato, dal punto di vista compositivo, dalle antitesi, tra cui quella essenziale fra libertà e predeterminazione, fra consapevole iniziativa individuale e sorte impersonale misteriosamente disposta “dall’alto”, peraltro preparata dall’exergo faulkneriano:

Quando
un filo si staccò dal complicato ordito:
o tutto già era stato scritto
tutto previsto?

A questi versi conclusivi del componimento incipitario giova aggiungerne altri compresi nella sezione ultima, a conferma di una obiettiva costanza tematica (“Chi sa dall’alto che risate/ nel vederci imbrigliati in ragnatele/ tessute in ancedenza/ in / nostra assenza”, Chissà dall’alto che risate, in Fuori della tela), che non implica però la rinuncia amara e nichilistica all’ardore vitale, a forme anche intense di coinvolgimento istintivo ed emozionale valorizzato e contrario nella paronomasia:

Il rischio è di sopire il tuo sapore
Non mi conviene/ penso
mentre piuttosto alimento
ardore con ardore (Ti ha morso la tarantola?, in La taranta, corsivi miei)

Il ragno ha in sé l’ambiguità costitutiva dell’animaletto che tesse la sua tela con ostinata razionalità, e costruisce rigorose sequenze conoscitive (“Ingombrante scaleo/ di sapienza cui/ ogni gradino ha acuito conoscenza”, Conoscenza, in La taranta, corsivo mio), solide catene intellettuali e memoriali (“Bulbo di memoria/ la conoscenza cresce ad oltranza”, in Vecchiezza, ivi, corsivi miei; e “Un altro pianeta sopra le nuvole/ ragnatela di neuroni/ Come se tutti segregassero in alto/ i propri pensieri/ i più pesanti/ anche se i più bianchi (…) Teoria delle onde in cielo/ ove l’ala non spezza il ricordo/ ché troppo saldo è il legame a terra”, Ragnatela di neuroni (L’amato gomitolo), in Ragnatela del mondo, corsivi miei); ma è pure abile predatore e soprattutto il suo morso può, secondo la leggenda, scatenare l’invasamento amoroso, la passione sensuale incontrollabile e tormentosa:

Forse che
sono io il ragno
a misurare le distanze
tra dune di sabbia
ormai tarantata in notti senza sonno ( Io ragno, in La taranta, cors. mio)

La trama del ragno avviluppa, lega, vincola nella stabilità del rapporto affettivo, mentre la “pizzica” sconvolgente, l’eros elettrico ed esplosivo (“E’ che/ quando stiamo insieme/ le stelle le abbiamo dentro/ Quell’elettricità latente/ che la mente accende/ e ti incendia il cuore/ Amore che si espande e ti acquieta/ stella luminosa di passione”, Notte di San Lorenzo (10 agosto 2017), in Fuori della tela) inducono insofferenza delle consuetudini relazionali, finanche in Penelope, raffigurazione archetipica della fedeltà paziente e incrollabile:

Stufa di tessere, gettò via
il suo fuso/ prima pungendosi
e mentre una goccia del suo sangue/ irradiava
l’intera trama per farne rosso arcobaleno… (Taranta Penelope, in La taranta)

A parti rovesciate il suo sposo Ulisse – altro archetipo potente e prestigioso – afferma invece il valore irrinunciabile e corroborante del legame d’amore (“Io non ho mai dubitato di noi nemmeno un attimo/ pur se mille sirene ad attirarmi/ a inabissarmi/ barbate, la prua (…) O mia Regina, mi sento solo/ pur tra mille orpelli/ Sei tu/ corpo e spirito/ la mia sola Festa/ il mio definitivo attracco”, Ulisse. Nell’onda una luce, in Ragnatela del mondo), nell’àmbito di un discorso sapientemente innervato da correlazioni antitetiche:

Quante volte/ ogni nuovo giorno, all’albeggiare
ho benedetto, maledetto il mare
per il sapore di avventura
e la sventura
l’ansia di scoperta e l’ansimare (ibidem, corsivi miei )

E le polarità si susseguono incalzanti – giustificazione/insensatezza, perspicuità/mistero, felicità/ dolore, vita/morte –, come agevolmente può verificare ogni lettore attento, sulla falsariga dell’acuta osservazione del post-fatore Antonio Spagnuolo, secondo il quale in questi testi “anche se il sapere si approfondisce e si differenzia secondo gli schemi inarrestabili della contemporaneità, la poesia insegue le diversificazioni della conquista del segno e della parola”.

Per Valeria Serofilli la ricchezza dell’esperienza umana si concretizza altresì nella varietà cromatica, a cui il motivo di una viva solidarietà sociale e morale-psicologica conferisce adeguata densità semantica (“Al risveglio cerco i colori/ in fondo all’anima:/ il rosso di tutto l’amore/ il bianco/ il manto del mio gatto (…) il verde/ corse sfrenate da bambina/ il giallo/ capelli della mia prima/ bambola di pezza (…) Al risveglio i colori/ Poi penso: quali trova nel cuore/ una bambina somala?/ Il rosso/ sangue di violenza/ il bianco della neve mai vista (…) il giallo dei capelli/ bambola mai avuta…”, Cerco i colori, in Ragnatela del mondo); e il suo linguaggio appare essenziale e raffinato, nel gioco studiato e musicale delle rime e delle riprese iterative, come nella poesia non per caso posta al termine dell’opera, poiché in essa l’inizio e la fine della vicenda esistenziale si richiamano e si presuppongono, e i vincoli sentimentali e ideali si rinsaldano:

Saremo tutti luce comunque
quando l’alba ci chiamerà al tramonto
E la luce rischiarerà il tuo corpo
a me di spalle (…)
Sarà allora che s’intrecceranno per sempre
le nostre mani
a nodo imprescindibile d’amore
Quando luce ne suggellerà il calore:
unica forza condensata in esplosione (Quando l’alba ci chiamerà al tramonto, in Fuori della tela, corsivi miei)

‘Dantedì’: Una giornata per celebrare Dante, il “Sommo Poeta” e la nostra identità

A partire dall’anno corrente, il 25 marzo non sarà più considerato un giorno qualunque. Il Ministero dei Beni Culturali ha istituito nella sunnotata data il Dantedì, giornata dedicata alla celebrazione del “Sommo Poeta” Dante Alighieri. Infatti, proprio nel 2021, ricorrerà il 700esimo anniversario della morte del “padre della lingua italiana”.  In occasione di questa festa letteraria ognuno di noi è invitato a partecipare e a dare il proprio contributo. In che modo? Leggendo, “postando” sui social, declamando, o semplicemente citando i meravigliosi versi che hanno unito milioni di generazioni e che continueranno ad unirle anche in questo momento non facile. Permettendo a tutti di farsi avvolgere dal potere eternante della poesia in un unico abbraccio collettivo, dal sapore “familiare”.

Sarebbe tuttavia impossibile riportare l’opera dantesca, intera e meravigliosa, per cui saranno di seguito scelti per ogni cantica, alcuni versi che, leggeremo insieme virtualmente, cercando di onorare, nel nostro piccolo un poeta di enorme levatura.

Inferno: l’incontro con i due amanti “maledetti” Paolo e Francesca.

Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.                 102                     

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.                    105

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.                                 108

(Inferno, canto V, vv. 100-108).

Quando leggemmo il disiato riso                                   
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,                             135
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.                     138

(Inferno, canto V, vv. 133-138).

Chi non ha mai studiato questi versi soavi a scuola?

Le parole di Francesca trasudano amore e passione per Paolo, suo cognato. Un amore tortuoso e fedifrago, nato per caso, leggendo il romanzo di Lancillotto. Ma come dice Francesca “chi è amato non può non ricambiare amore” quello stesso amore che li ha eternamente condannati.

Purgatorio: Dante e il “dolce stil novo”.

Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore        
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch’avete intelletto d’amore‘».                             51

E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».                                  54

«O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!                                  57

(Purgatorio, canto XXIV, vv. 49-57).

quand’ io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre;                              99

(Purgatorio, canto XXVI, vv. 97-99).

Nel XXIV canto del Purgatorio Bonagiunta Orbicciani da Lucca (notaio e poeta lucchese) presenta Dante come “colui che fore trasse le nove rime, cominciando ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’” indicando nella canzone del poeta fiorentino il manifesto del “dolce stil novo” dantesco, e di conseguenza Dante stesso, come seguace di questo nuovo stile poetico, inaugurato da Guido Guinizzelli (poeta bolognese) con la canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore”. Dante, di fatti, nel canto XXVI, indica proprio lo stesso Guinizzelli come “il padre meo e de li altri miei miglior che mai rime d’amor usar dolci e leggiadre.” Inoltre Bonagiunta specifica di trovarsi da una parte opposta del “nodo” di questa nuova poetica e quindi di non farne parte insieme a Iacopo da Lentini (il Notaro, esponente della Scuola siciliana) e Guittone d’Arezzo (in seguito Fra Guittone, esponente della cosiddetta “Scuola toscana”).

Paradiso: San Bernardo e la Preghiera alla Vergine

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,                                     3

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.                                     6

(Paradiso, canto XXXIII, vv. 1-6).

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,                                            24

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.                                             27

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,                           30

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.                               33

(Paradiso, canto XXXIII, vv. 22-33).

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,                                69

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;                                       72

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.                                         75

(Paradiso, canto XXXIII, vv. 67-75).

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.                            141

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,                              144

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Paradiso, canto XXXIII, vv. 139-145).

Il canto conclusivo si apre con un’emozionante preghiera alla Vergine Maria da parte di San Bernardo con cui il santo intercede affinché anche Dante possa assistere alla visione di Dio, e che la Madre possa liberarlo dagli impedimenti terreni. Il Santo riesce nel suo intento e Dante visibilmente commosso volge lo sguardo verso l’alto per contemplare la suprema beatitudine. Sebbene il poeta sia umano, e quindi la “memoria non può seguire l’intelletto”, prega la luce divina affinché possa ricordare questo mirabile evento e possa tramandare alle generazioni future almeno un barlume della gloria divina. Il suo desiderio viene esaudito da un’improvvisa folgorazione che lo rende degno di comprendere Dio e di conoscere l’amore divino che “move il sole e l’altre stelle”.

‘Frammenti di un precario’ di Giuseppe di Matteo: i dolori e le gioie di una generazione

Il precario gioca la sua poetica finale, da outsider, come sempre, ma lasciando una scia profonda d’insegnamento ai posteri. Frammenti di un precario (Les Flâneurs Edizioni, 2019), del giornalista barese Giuseppe Di Matteo, già collaboratore de «Il Giorno», Telenorba e «La Gazzetta del Mezzogiorno», rappresenta una carezza sul capo dolente degli Ungaretti, Quasimodo e Saba: la sua poesia pianta nel panorama letterario ultra-contemporaneo un ermetismo 2.0 dallo stile godibile, pervaso d’attualità, che si esprime in schegge pregne di ricordi di viaggio, spinte da pavide emozioni della disillusa generazione “Z” e illuminate da fasci di luce di un lessico mescolato tra classicismo fondante e calembours transalpini.

Nella raccolta balza subito all’occhio il palpitante viaggio a Cuba dell’autore, nel quale la miseria terrificante delle classi sociali meno abbienti si scontra con le oasi occidentali che hanno soppiantato l’ideologia dittatoriale di Fidel Castro. L’autore ricorda i frangenti caraibici con un’immagine paradossale a trionfare inquieta su tutte:

Sono andato a Cuba una sola volta, nel 2016. Ma è stata per me un’esperienza fortissima. Avrebbe dovuto trattarsi di un viaggio di piacere, ma alla fine si è rivelato un castigo. E dov’era il “delitto” (per citare il romanzo forse più bello di Fëdor Dostoevskij)? Probabilmente in un peccato di gioventù: ero infatti convinto che Cuba fosse il luogo più bello del mondo. Beh, mi accorsi che si trattava di un’illusione. Posso dirlo anche perché credo di averla vissuta davvero, e con un occhio abbastanza giornalistico. A differenza di tanti turisti, che si fermano solo a L’Avana e a Varadero, io ho scelto di partire dalla spiaggia di Santa Lucia, che si trova nel sud dell’isola, a circa 550 km dalla capitale. Da lì poi mi sono spostato prevalentemente in auto. L’Avana è stata l’ultima tappa del mio viaggio, ma non mi ha entusiasmato per nulla. Ho incontrato tanta povertà e molta tristezza. Costanti per altro riscontrate durante l’intero cammino. Perché a Cuba si balla e si canta molto meno di quanto si creda in Europa. Ed è difficilissimo autodeterminarsi, emergere. Lo Stato controlla tutto e mortifica qualsiasi iniziativa individuale. […]

I versi che esplodono nella mente dell’autore hanno il sapore amaro delle lacrime del ragazzo che scorgeva dalla figura di Ernesto Che Guevara, portata sulla maglia secondo un ideale di libera ribellione e concitata uguaglianza, il proprio futuro, ma che nella realtà geopolitica vissuta sul campo si pone come castrazione filosofica al servizio dei meccanismi economici dominanti.

…E di quest’isola
dondolante tra i giganti
romanticamente mitizzata
da una gioventù senza pudore
ricorderò le palme piegate
dal vento che come oracoli
sussurrano profezie dolenti
quando la brezza si fa lieve. […]
rimesterò l’età dei muri
sgarrupati di L’Avana,
dove uomini e mestieri
muoiono al sole
e mi stenderò sul Malecón
vissuto di salsedine
che alla sua bruttezza
sopravvive nel ricordo
consumato dei poeti.

Ma l’ermetismo di Di Matteo si pone nell’accecante spirale nord-sud della storia d’Italia come meridionalismo poetico delle piccole cose. Il giovane barese grida al mondo dei padroni di tutto, «Ho fame / di domani / in una città / mai costruita», sognando l’irrealizzabile: l’apologia della meritocrazia nella terra più corrotta di sempre. La sindrome di Stendhal lo abbatte sensualmente, quando attonito osserva il simbolo frainteso del capitalismo italiano, il Duomo della Milano, in grado, coi suoi marmi gotici, di masturbarlo artisticamente, consegnandolo a una nuova avventura: Di te / meraviglia nuda / sul mio fiato.

Il poeta è patriota della sua casa natia, così odiata, così pretesa, così dura nel percuoterlo quotidianamente con imbarazzanti mancanze. Ciononostante, lui, per quel sud contrastante e contrastato, ci morirebbe, in un soffio stellato di foglie d’ulivo:

Morirei di Sud
per il Sud
prigioniero tra le macerie
di un pianto inerte
ostaggio inerme di un amore
che mi chiede di restare.

Si è sempre sud di qualcuno, bisogna accettarlo. Ma la lotta, nei versi di chi ama con dolore, è infinitamente rigenerante. La partita che investe il precario nel libro di Di Matteo racconta un primo e secondo tempo psicofisico, nei quali il gusto bucolico dei panorami circostanti e del buon sesso riconciliano il viaggiatore con un Dio perennemente assente.

I tempi supplementari portano il primattore a tracciare un bilancio obbiettivo di un’esistenza per nulla garrula, ma che lascia un incontrovertibile amaro in bocca. I calci di rigore, della finale intramontabile nella mente del lettore, sollevano il ruolo dei vincitori e degli sconfitti nella società che illumina i pochi e lascia i molti all’ombra, senza curarsi di coloro che infrangono le massime del fair play:
Posso dire con certezza chi vince: la voglia di riscatto di chi, pur se eternamente precario, continua a combattere. E la poesia. Che è un antidoto efficace per combattere la precarietà. E la solitudine.

Vince la poesia. Il precario non deve mollare, nonostante le umiliazioni dell’alienazione vigente. Certo, tra gli sbalzi ottimistici e melanconici di versi vissuti in prima persona da chi li ha cesellati, rimbalza, come una granata su campi di pace, il conflitto interiore di uno spirito irrequieto, portabandiera del disagio e del disadattamento sociale: «E con me / che non riesco / a parlare».

 

Annibale Gagliani

Octavian Goga, il poeta-vate irredentista della Transilvania

La Transilvania di Octavian Goga è un quadro dipinto coi pastelli arcadici di verdi boschi di abeti e di campi falciati, morbidi e lisci come la seta, inondati dal sole sotto l’azzurro del cielo trapunto di farfalle svolazzanti. Ma il genius loci transilvano si rivela anche nelle tinte fosche di un paesaggio inospitale:

“Alle pendici oscure dei Carpazi

dove c’è suono di campane e accette

ed esce l’orso a passeggiare”

Qui, nel villaggio di Rășinari, lungo il confine rumeno dell’Impero asburgico, nasce nel 1881 Octavian Goga da Iosif, pope, e Aurelia, maestra. Studia con difficoltà al liceo ungherese di Sibiu: i risultati deludenti e uno scontro con il professore di storia lo spingono a trasferirsi al liceo rumeno di Brasov. Intraprende gli studi presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Budapest. Lascia l’università nel 1904 senza aver conseguito alcuna qualifica accademica. Un avvenimento fondamentale per la sua evoluzione intellettuale è rappresentato dalla collaborazione con la rivista Luceafărul, pubblicata nella capitale ungherese dagli esuli rumeni.

Al soggiorno nella antica città ungherese risale anche la maggior parte della sua produzione poetica. Un periodo di profonda crisi esistenziale lo spinge a tornare al villaggio natio. Viaggia in Germania, Francia ed Italia. Ritornato infine in patria, nella Romania interbellica ricopre più volte l’incarico di ministro, nel 1937 riceve dal re Carlo II, come presidente del Partito Nazionale Cristiano, l’incarico di primo ministro in un governo che ha il compito di indire nuove elezioni e che vedranno poi un inaspettato exploit elettorale della Guardia di Ferro di Corneliu Codreanu. Ritiratosi dalla vita politica, muore nel 1938 nella sua villa di Ciucea, nel distretto di Cluj.

Le principali raccolte poetiche di Goga – Canti, La terra ci chiama, Canti senza patria – dimostrano, sotto le varie articolazioni dei singoli componimenti, una notevole unità tematica dominata da un precipuo sentimento irredentista, nel desiderio di emendare il ruolo politicamente e socialmente subalterno della popolazione rumena della Transilvania, sognando l’unione coi fratelli del Regno di Romania. La regione storica della Transilvania, abitata dai Magiari e gli affini Siculi, dai Sassoni e dai Valacchi, dopo la battaglia di Mohács del 1526 si costituì come principato indipendente sottoposto al vassallaggio della Sublime Porta; dopo la pace di Carlowitz del 1699 venne inglobata nell’Impero d’Austria.

Durante tutte queste traversie storiche durate secoli, i contadini rumeni rimasero sempre legati in un rapporto feudale di sottomissione ai nobili magiari, che esercitavano il loro dominio dai castelli appollaiati sulle alture. La rivolta di contadini capeggiata da Vasile Ursu Nicola, noto come Horea, nel 1784 rappresentò solo un violento, ma effimero tentativo di riscossa. Grande impressione su Goga fanciullo provocò la vicenda e il processo che venne avviato dal “Memorandum”, documento col quale i rumeni di Transilvania, nel 1892, presentarono all’imperatore d’Austria le loro condizioni precarie di popolo oppresso dai Magiari.

Al centro del mondo goghiano vi è il microcosmo, che è allo stesso tempo macrocosmo, del villaggio rurale transilvano. L’autore, infatti, parlò della sua prima raccolta poetica come della “monografia di un villaggio”: qui si può sperimentare un mondo vero di sentimenti genuini e di idealità spontanee non compromesse dal cerebralismo cittadino. Riflette Goga:

“Il villaggio è il più grande serbatoio di energia nazionale e la sintesi che rappresenta il grande tutto: la stirpe. In questo microcosmo ho scoperto rispecchiata una vita spirituale molto ricca. Se qualcuno volesse cercare nel villaggio tutte le figure rese eterne dalle grandi letterature, le troverebbe certamente sia pure in forma rudimentale. Esistono in campagna Amleto e Tartufo, esiste l’Avaro, esiste Otello; tutte le figure complicate e tutte le grandi passioni ribollono in profondità”

L’esaltazione delle caratteristiche individuali nelle relazioni comunitarie è resa possibile proprio dalla dimensione raccolta ed unificante del villaggio. Questo mondo trova la sua nemesi nel mondo della città. Le grandi passioni “ribollono in profondità” nel villaggio, anche in forme violente ed eccessive come nella poesia “Gianni l’oste”. L’oste viene abbandonato dalla moglie e disperato decide di offrire tutto ciò che ha in cantina agli avventori. Si brinda e si festeggia: alla fine appicca il fuoco al tetto di paglia dell’osteria.

Il villaggio vive nella fissità quasi ieratica di un’icona, in un presente che è contemporaneamente passato, ma allo stesso tempo si articola internamente in individualità ben definite, come il pope, il vecchio maestro, la maestra bionda. Tra questi personaggi protagonisti degli idilli rustici goghiani, troviamo il vecchio suonatore zingaro, Nicolino l’Orbo, uomo dotato di grande umanità e protagonista di un trittico: alla sua morte, arriva in cielo e davanti a Dio e San Pietro attorniati da un coro angelico, intona nel suo canto la tristezza che tormenta l’animo del contadino transilvano.

La poesia di Goga in questo senso sviluppa una linea di pensiero eminentemente rumena, dove il mondo contadino non ha mai assunto un ruolo in contrapposizione con la cultura alta o accademica indigena. Anzi, entrambi i mondi erano accomunati dalla feroce opposizione alla cultura straniera, vuota, seriale e cosmopolita. La grande voce del romanticismo rumeno, Mihai Eminescu, alludeva a questa dicotomia dalla valenza quasi ontologica quando nell’Epistola III, faceva pronunciare queste parole al sovrano Mircea il Vecchio. Il re si rivolge al sultano ottomano Baiazid che aveva invaso il Paese:

“Io? Difendo la povertà e i bisogni del mio popolo…

E quindi tutto ciò che si muove in questa terra, acque, fronde,

È amico solo a me, ma di te è nemico,

Sarai avversato da tutto e da tutti senza nemmeno accorgertene;

Non abbiamo eserciti, ma l’amore di patria è un muro

Che non rabbrividisce per terrore di te, o Baiazid”

Nella seconda parte del componimento, Eminescu si scagliava contro i ricchi borghesi che dilapidavano le ricchezze estorte sfruttando i contadini in patria:

“A Parigi, nell’accidia di cinici lupanari,

Con quelle femmine perdute in orge oscene,

Là avete giocato all’azzardo gli averi e la giovinezza”

Anche Goga riflette sul problema del cosmopolitismo e delle influenze straniere, giungendo alla conclusione che una acritica accettazione di queste tendenze rischia di risolversi ben presto in un appianamento delle specificità individuali e nazionali. Anzi, alla piena comprensione dell’umanità si può giungere solo esaltando le peculiarità nazionali, poiché l’amore per l’umanità inizia dall’amore per il proprio popolo e per la sua storia:

“Io ho creduto sin dall’inizio nello specifico nazionale, ho creduto cioè che non si accede all’universalità che attraverso una porta propria. Ho creduto nel diritto alla vita del valore autoctono, come complemento del principio di universalità. Ho detto che opprimere e sopprimere una manifestazione di particolarismo locale, spirituale, significa rubare dal grande tesoro dell’universalità. Ecco perché io considero gli oppressori che stanno strangolando i popoli una sorta di briganti dell’umanità”.

Nei componimenti di Goga viene elaborato con originalità ed un inconfondibile tono personale quest’ordine di idee. Il mondo contadino, le sue tradizioni, il villaggio, epifanie dell’anima rumena, si presentano sì come ideale a cui aspirare, ma nello stesso tempo come un mondo perduto per sempre, forse anche tradito dallo stesso poeta. Goga non intona un soddisfatto peana di restaurazione del passato, ma sussurra accompagnato dalla corda elegiaca del rimpianto:

“Mi riappare un mondo antico,

Non ciò che accadde mi torna alla mente,

Ma ciò che sarebbe potuto accadere” (Canta la morte)

 

 

Gianpaolo Caputo

Ada Negri, graffiante e solitaria poetessa osteggiata dal mondo

Ada Negri nacque a Lodi il 3 febbraio 1870. Rimasta orfana del padre all’età di un anno, dovette adattarsi a vivere nelle misere stanzette della portineria di casa Barni, dove la nonna svolgeva compiti di portinaia; la madre, Vittoria Cornalba, lavorava presso il lanificio per far studiare la piccola “Dinin”.

Biografia di Ada Negri

Iscritta alla “Scuola Normale Femminile”, il 18 luglio 1887 conseguì la patente di maestra elementare ed iniziò ad insegnare, prima a Codogno, poi a Motta Visconti, dove passò il periodo più felice della sua vita (come ricorderà molti anni dopo in alcune belle pagine autobiografiche di Stella Mattutina). In quegli anni nacquero le sue prime poesie di appassionata denuncia, confluite nel 1892 nella prima raccolta, Fatalità, pubblicata da Treves e salutata entusiasticamente da Giosuè Carducci.

Per la fama acquistata divenne docente al “Gaetana Agnesi” di Milano, dove si trasferì con la madre, entrando in contatto con vari membri del Partito Socialista Italiano, tra cui Filippo Turati, Benito Mussolini, Anna Kuliscioff (di cui si sentiva sorella ideale); visse un’intensa e travagliata vicenda d’amore con il giornalista Ettore Patrizi, che ben presto però si trasferì in America lasciando nella scrittrice una grande delusione.

Dal fallimentare matrimonio (1896) con Giovanni Garlanda, industriale tessile di Biella, nacquero Bianca, ispiratrice di molte poesie, e Vittoria, che morì a un mese di vita; poi il matrimonio tramontò e Ada proseguì la sua ricerca letteraria, incontrando un crescente successo di pubblico e di critica. Nel 1913 per un anno si trasferì a Zurigo con la figlia, per tornare a Milano allo scoppio della guerra. Nel frattempo la sua fama cresceva e si consolidava, fino a farle ottenere nel 1931 il Premio Mussolini per la carriera e nel 1940 (prima e unica donna) il titolo di Accademica d’Italia, dopo che già negli anni venti aveva sfiorato il Nobel (assegnato invece nel 1926 a Grazia Deledda). Nel capoluogo lombardo morì l’11 gennaio 1945.

Stile e contenuti della poetica

L’anelito di ribellione che era prevalente nelle raccolte giovanili si è via via evoluto e riscattato, da convinzione ideologica si è trasformato in consapevolezza teologica, si è cristianizzato e umanizzato, tanto che l’anziana poetessa ha avuto modo di cogliere l’illusorietà del credo socialista vagheggiato in gioventù, e può, quasi in punto di morte, invocare il Signore perché compia in lei il mandato che ella sente di non aver saputo portare a compimento.

“Io non ho nome, io sono la rozza figlia dell’umile stamberga, plebe triste è la mia famiglia”; Così si legge della lirica “Senza nome”, che fa parte del libro rivelazione Stella mattutina, uscito nel 1921, e che ebbe un successo così vasto e concorde di pubblico e di critica come probabilmente la sua autrice non aveva ottenuto mai.

Stella mattutina

Piacque la fedeltà al genere autobiografico che la individuava tipicamente, e piacque lo sforzo formale di dare il respiro lungo del romanzo a un’ispirazione sempre molto frammentata tra poesie e novelle, come ha sostenuto Anna Folli. Steso di getto in poco più di sei mesi, rifatto sulle bozze come d’abitudine, il libro sembrò realizzare il sogno d’arte di Ada Negri: scrivere furiosamente, a rotta di collo, soltanto per sé, per liberazione, quasi senza saperlo; ma nello stesso tempo, come per incanto, trovare il gesto e l’accento, il tono e l’espressione, la verità. I versi della raccolta poetica mostrano quali sentimenti albergano nell’animo della poetessa lodigiana: amarezza, odio, ribellione nei confronti di una società che fonda i suoi modelli sulla ricchezza e la discriminazione. Persino l’intelligenza e ancor di più il talento sono spesso ignorati, quasi snobbati, derisi, e solo pochi riescono a “brillare” in questa selva materialista. Ada Negri ha raccontato, con stile graffiante e singolare, i patimenti della sua infanzia e della sua adolescenza, e pur scoprendo in sé una vena poetica importante, sa che il mondo che la circonda le è ostile e non la favorisce in nulla.

Le solitarie

Tra le opere di Ada Negri, spicca anche Le solitarie: 18 ritratti di donne appartenenti a ceti umili, a esclusione di poche donne benestanti, per la maggior parte eccentriche, o dal punto di vista esteriore (ricorrente è la presenza del fisico brutto o anomalo, che ne giustifica l’emarginazione) o psicologico, per la posizione che loro malgrado si trovano a vivere rispetto alla ‘normalità’. La stessa Ada Negri parla di questi ritratti femminili presentandoli come “umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l’amore, sole: per propria colpa o per colpa degli uomini o del destino, sole. Le conobbi, le studiai, le riprodussi, cercando di attenermi il più crudamente possibile alla verità. Ahimè!… Troppe volte la verità è più amara di un tossico.”

Si tratta di esistenze al limite dell’isolamento e dell’abnegazione di sé, sotto il peso di un ambiente socialmente ostile che l’autrice compenetra con partecipazione emotiva e sapienti doti narrative. I racconti hanno conosciuto da subito una grande fortuna, alcuni di loro sono stati pubblicati sul Corriere della Sera o importanti rivista del tempo, anche perché funzionali a un sotteso scopo di denuncia sociale che troverà un’importante eco nella letteratura femminista di secondo Novecento. Ada Negri fu partecipe dei movimenti femminili dell’epoca, aperta sostenitrice degli ideali socialisti. Le solitarie sono diventate un importante riferimento per la conquista dei diritti civili delle donne.

Cade la neve

Sui campi e sulle strade
silenziosa e lieve
volteggiando, la neve
cade.

Danza la falda bianca
nell’ampio ciel scherzosa,
poi sul terren si posa,
stanca.

In mille immote forme
sui tetti e sui camini
sui cippi e sui giardini,
dorme.

Tutto d’intorno è pace,
chiuso in un oblìo profondo,
indifferente il mondo
tace.

 

Fonte: https://www.adanegri.it/node/17

Gian Pietro Lucini, poeta decadente e scapigliato

Gian Pietro Lucini è stato un poeta ribelle, animato da intenti rivoluzionari, insofferente all’ipocrisia e al perbenismo di facciata. Una sorta di anarchico-democratico si potrebbe dire, i cui versi trasudano sentimenti di vendicazione. Ma dietro l’outrance verbale di Lucini si percepisce un piglio sarcastico, un’ironia seria, amara, dolorosa. Dietro le sue parole composite e volgari si cela un’anima che pena, un cervello ardito, un cuore ferito che può sembrate crudele.

Tutta questa umanità attrasse non solo i futuristi pirotecnici ma anche dei giovani. Difatti Lucini fu invitato a scrivere su Quartiere latino, rivista che ebbe pochi numeri ma con un Lucini sempre in prima fila, lui che pure ha dato al primo futurismo, con il suo Verso Libero, probabilmente l’unico apporto teorico serio per giustificare il verso libero, servendosi di una conoscenza diretta e vastissima delle scuole poetiche francesi del Parnasse in poi, attraverso simbolismo e le correnti minori, Lucini non ha mai risparmiato ai suoi vecchi amici futuristi stoccate polemiche e prese in giro. Il poeta infatti non amava D’Annunzio, il borghese.

La poesia si Lucini raramente coglie momenti sereni, raggiungendo forse per caso uno stato poetico veramente limpido e liberato; il suo descrivere è minuzioso e insistito, dietro certe sue figure e aspetti di vita cittadina notturna, tra “cocotte” e rifiuti sociali, si sente il tono svagato, dolente e nevrotico della Scapigliatura. Quando la prosa di Lucini si pulisce, lascia qualcosa di avido e granuloso sebbene l’uomo in lui non è mai assente, anche quando la letteratura lo porta verso un gusto di rifiniture alessandrine. Certamente Lucini è un decadente, senza l’acuta coscienza critica verso l’opera propria dei veri decadenti. Ma è un decadente sui generis, con ideali sociali, politici, umani, che i decadenti non ebbero.

Lucini ha sempre pensato la letteratura come forza etica e, sebbene la sua etica fosse tutt’altro che serena di fronte alle passioni e alla storia, difatti, invece di dominare tali forze, il poeta si lasciava piuttosto dominare, ciò che in lui resta ancora vivo è una sorta di dolorosa energia, una vitalità sdegnosa che ricorda in lui ancora l’uomo del Risorgimento, quell’uomo che, se non aveva vissuto l’epoca di Cattaneo o di Nievo, pur nel sarcasmo frequente e nell’improvviso risentimento, recava in se ancora qualcosa di essa.

Da punto vista poetico l’arte di Lucini ha segnato una crisi e un passaggio: dalla scapigliatura alla poesia moderna, fuori da ogni schema di scuola. Più vicino a Dossi, Lucini ebbe curiosità ed esperienze più acute e larghe del suo maestro. Le Grazie, che tanto sorrisero a Foscolo, con greca purezza, consentendogli di decantare la sua stessa sensualità in un clima d’eliso, per Lucini furono matrigne; e, anche se lui se le figurò nel Carme di angoscia e di speranza, a lato le vide <<floscie, percosse, disfatte>>:

…il peplo azzurro infarinato,

il lembo macchiato di sangue…

 

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