Nel 2019 fu la volta di Mahmood come il ragazzo figlio di madre italiana e padre egiziano perfettamente integrato a vincere il Festival di Sanremo con la canzone “Soldi” le cui frasi in arabo e rime furbe avevano mandato in visibilio la giuria di qualità (infima) radical chic che annullò il verdetto popolare che voleva Ultimo al primo posto, quest’anno, a Sanremo 2022 Mahmood si è presentato in coppia con tale Blanco cantando “Brividi”, canzone inascoltabile e incantabile, con scontato inserto rappato, testo debole e messaggio mainstream incorporato, la solita solfa dell’italo-immigrato e del carrozzone gender-fluid che ha fatto la differenza più che la canzone stessa e le voci lagnose dei tue interpreti, soprattutto quella salmodiante di Mahmood. Della canzone si salvano le due battute iniziali, quella senza voce, che sembrano un’introduzione Fusion.
Sanremo 2022: la canzone vincitrice
Brividi, manco a dirlo, ha vinto Sanremo 2022 suscitando polemiche, come accade da sempre alla kermesse canora (basti pensare alle edizioni più recenti: il vergognoso secondo posto del principe Filiberto, la vittoria del piccione di Povia sulla meravigliosa canzone dei Nomadi “Dove si va”), battendo la fiabesca ed eterea Elisa, che trasmette una sensazione di pace quando canta, seconda classificata con “O forse sei tu” e l’eterno ragazzo Gianni Morandi, terzo classificato con l’allegra canzone “Apri tutte le porte”.
C’erano almeno altre 5 canzoni più belle della vincitrice di quest’anno, più orecchiabili ed emozionanti, ma durante le serate del Festival sala stampa e giuria demoscopica hanno tenuto in alto Mahmood e Blanco, fino all’ultima serata che prevedeva anche il voto da casa. Segno dei nostri tempi: si deve affermare quanto più si può una ideologia, quasi a volerla installare a tutti i costi della testa dei più riottosi, retrogradi fascisti, transomofobi!
Come tante altre parate della televisione pubblica, il festival, da leggere come fatto antropologico, veicola messaggi politici e nuovi conformismi, quindi è esso stesso propaganda di opinioni e stili di vita che non hanno utili economici immediati ma di condizionamento delle masse, soprattutto dei giovani. Non sono le case discografiche a tratte profitto dal festival luogo, come tanti altri, dove si consumano markette, bensì gli sponsor.
Le presenze perlopiù da “superopsiti” di Elisa, Massimo Ranieri, Gianni Morandi, Iva Zanicchi sono servite ad alzare l’asticella del concorso, a far contenti tutti, visto che Sanremo è un festival nazionalpopolare. Si certo i suddetti cantanti non hanno bisogno di Sanremo, continuano a stare sulla scena da anni, hanno venduto e vendono dischi, fatto concerti, hanno una carriera. Carriera che molto probabilmente non avranno la maggior parte di coloro che hanno partecipato alla gara, perlopiù incapaci di cantare, “rapper” improvvisate per mascherare le proprie lacune canore.
Brividi tra qualche anno sarà dimenticata, non entrerà nel quotidiano degli italiani, nella storia del Festival, e non vincerà nemmeno all’Eurovision, le canzoni di Ranieri, Zanicchi, Morandi, Elisa e altri che magari non hanno nemmeno mai partecipato a Sanremo (Venditti, De Gregori, Guccini, che però fu escluso e De André che non amava la competizione), oppure non hanno mai vinto, invece sono entrate nel nostro cuore, sono diventate parte della nostra italianità.
La formula sanremese andrebbe ancora una volta rivista: è indecente e irrispettoso inserire all’interno della stesso gruppo quelli che una volta si chiamavano “big” e i giovani sconosciuti o usciti dai talent, le “quote Maria de Filippi” che registrano migliaia di visualizzazioni sui social e su Youtube. Si ritorni alla divisione tra big e nuove proposte, possibilmente dando più spazio alla qualità musicale piuttosto che allo show e ai pistolotti moralisti per educare il popolo incivile che non vuole adeguarsi alle ideologie e al politicamente corretto.
L’ipocrisia dei benpensanti
Del resto bisogna ricordare che nel 2019 nessuno scrisse che a vincere Sanremo era stato un rapper di nome Mahmood, tutti scrissero che a vincere era stato un italo-egiziano di nome Mahmood. E a farlo furono soprattutto i giornali di sinistra, strumentalizzando la sua vittoria per andare contro Salvini.
Non ci sarà mai integrazione se si continuerà a sottolineare in questo modo le differenze. lo stesso discorso vale anche se ci spostiamo sul terreno del gender fluid, del femminismo, del razzismo. Non si fa che parlare di inclusività; si è visto un lungo e imbarazzante monologo da parte di un’attrice italiana di colore, Lorena Cesarini, in veste di moralizzatrice tesissima e testimonial di un libro sul razzismo edito dalla Nave di Teseo, in virtù del fatto di aver ricevuto insulti razzisti sui social da qualche imbecille. Questi atti vergognosi non fanno dell’Italia un paese razzista e probabilmente certi insulti non hanno nemmeno quella matrice. Ma fa comodo pensarlo a chi si prepara la lezioncina moralistica.
Non ci sono forse anche altri preoccupanti problemi? Ad esempio la confusione nelle nozioni più semplici, il pressappochismo dialettico, l’instabilità emotiva, l’inclinazione, oltre che al narcisismo e all’omologazione, a un cripto-fascismo travestito da movimentismo progressista, che sfociare in delirio di onnipotenza, il vittimismo a prescindere, i pregiudizi al contrario, la superficialità?
I pistolotti moralistici
Il cantante Marco Mengoni nella serata finale del Festival, ha menzionato la Costituzione, facendo confusione tra minaccia ed insulto, citando alcune espressioni di utenti social, a senso, perché naturalmente le vittime sono sempre quelle categorie di persone che a quanto pare non possono essere oggetto di satira, di scherzo, perché no di insofferenza. Insofferenza dovuta al continuo martellamento mediatico su tematiche che non dovrebbero essere nemmeno tali, perché si tratta della sfera più intima della persona. A Sanremo possono partecipare tutti, purché dotati di una qualche cifra artistica, nessuno impedisce ad un omosessuale, ad un figlio di immigrati, ad un transgender, di partecipare. Perché questa ossessione? Perché nominare chi fa una critica, una battuta, come hater? Perché non dire che anche chi è ritenuto vittima a priori, si lancia in offese, praticando turpiloquio e violenza verbale?
Lucio Dalla, che amava partecipare a Sanremo, era omosessuale, ma non ne ha fatto mai una bandiera. La sua bandiera erano le sue canzoni. Promuoveva la sua arte, non una causa, una ideologia da far assimilare a tutti i costi a chi la vede in modo diverso o a chi non interessa minimamente il privato di una persona.
L’insofferenza si fa ancora più forte se si pensa al periodo storico gli italiani stanno vivendo, alle restrizioni, a chi si vede privare di veri diritti, a chi viene discriminato perché non ha un pass per andare dal tabaccaio, a chi si vede costretto a cedere ad un ricatto per non perdere il lavoro. Dal punto di vista di queste persone, vedere pontificare in tv su razzismo (inesistente) e fluidità di genere può annoiare e infastidire, non perché le persone siano tutte razziste, omofobe o perché tirino fuori il loro lato razzista ed omofobo, adagio trendy per assecondare la convinzione di chi vede questo mondo cattivo, razzista, e omofobo, contro di loro, piuttosto perché sono consapevoli di non essere fortunati quanto i fenomeni arroganti che salgono su un palco importante, dimostrando quanto siano distaccati dalla realtà e dai problemi seri della gente comune che in testa ha ben altri pensieri e che non capisce che cosa si dovrebbe dire o fare per supportare la gender fluidity stando attenti a non urtare mai la sensibilità altrui.
Checco Zalone: una boccata di ossigeno
A squarciare il velo dei buoni propositi e dei sentimenti nobili a Sanremo 2022 ci ha pensato Checco Zalone, un moderno Alberto Sordi che si fa beffe del famigerato uomo medio, e che pure ha suscito qualche disappunto nella comunità LGBTQ che evidentemente non ha compreso il sarcasmo di Zalone e che vorrebbe essere narrata in termini entusiastici. C’è anche chi ha etichettato il suo sketch sui trans come anti-omofobo. Insomma ognuno ci ha visto quello che voleva.
Tuttavia Zalone non ha fatto nulla di quello accennato, il comico pugliese di diverte a fare la spola a tutta velocità tra gli opposti estremismi dove risalta alla sua inimitabile maniera bipartisan di prendersi gioco di tutti, senza scadere in discorsi lacrimevoli che menzionano la parola diritti, ottenendo il risultato di far credere ogni volta a ciascuno (tele)spettatore che non sia lui, bensì il vicino di sedia, casa o di poltrona a essere preso per il sedere e svelato nella sua ipocrisia. Strepitose anche le parodie del rapper assalito dai propri demoni e del virologo di Cellino San Marco che scimmiotta Albano.
Sanremo ormai è diventato anche il festival dei meme, ma c’è ben poco di edificante e magnifico in questa mutazione virtuale; ciò dimostra che siamo una società chiusa su se stessa, legata ai video, agli smartphone, alle faccine, ai meme, dove ogni pettegolezzo di bassa bottega o pensierino da due soldi diventa virale! Si dovrebbe invece insegnare ai giovani che virale non è sinonimo di importante, rivoluzionario, eversivo e di fare di se stessi uomini e donne costruttori della Storia, imitando i loro nonni e nonne non cantanti improbabili con i capelli rosa, con la gonna e autotune. Non li rende dei geniali ribelli, semmai dei pargoli ammaestrati che pensano di fare successo senza avere talento, senza studiare, senza capire cosa sia l’Arte.
Quale sarà il prossimo step moralistico-canoro? Una canzone anti-specista? Perché no. Ambientalista? C’è già, ed è la soave “Ci vuole un fiore” di Sergio Endrigo, scritta da Gianni Rodari ben prima di Greta Thunberg e company.
Brevissima nota a margine: fanno tenerezza alcuni vecchi ed irriducibili comunisti come Vauro che si sono eccitati credendo davvero che il pugno chiuso della Rappresentante di lista alla fine della canzone Ciao Ciao fosse un riferimento alla loro ideologia. Anche Salvini ci ha creduto, e si è lamentato.
Ma come funziona esattamente il televoto? Davvero è impensabile che chi sponsorizza un artista non abbia il potere di acquistare molti voti.