Il bestiario del DDL Zan a partire da Draghi l’incommensurabile. Una cronaca grottesca

Facciamoci del male. A ravanare tra i pensieri spericolati di questa tre-giorni-di-paura Vaticano versus Ddl Zan, c’è quasi da rimpiangere i bollettini in diretta del Comitato Tecnico-Scientifico. Ma il rispetto per l’intelligenza, unico partito cui sentiamo di dover immeritatamente iscriverci, ci impone l’improbo lavoro di decrittazione. Armiamoci e armatevi di coraggio.

Draghi, per gli amici Pilato. Il nostro primo ministro, finora conosciuto come l’Infallibile, dopo aver ricordato che l’Italia è uno Stato laico, ha precisato che la laicità “non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso”, ma “tutela del pluralismo e delle diversità culturali”, e che fra le norme costituzionali a garanzia dell’indipendenza rispetto alla Chiesa di Roma c’è il Concordato, che in effetti figura nell’articolo 7 della Carta, non in fondo, nelle transitorie e finali.

“Queste sono le dichiarazioni che oggi mi sento di fare, senza entrare ovviamente nel merito della discussione parlamentare”, ha concluso l’Incriticabile. Peana da sinistra: Draghi salvatore della patria laica (e antifascista, non guasta mai). Applausi da destra: Draghi difensore delle fede contro i laicisti mangiapreti. Sveglia: l’Incommensurabile se n’è solo lavato le mani, chiudendo subito qui la rogna e passando il cerino alla commedia delle parti, anzi dei partiti, in Senato dove è fermo il disegno di legge Zan in seguito al via libera della Camera, il 4 novembre scorso. Non sarà un politico in senso stretto, l’Inscalfibile, ma è più furbo del politicante medio. È uomo della finanza.

Murgia as usual. “La principale preoccupazione vaticana è che, se la legge viene approvata, le scuole cattoliche non saranno esentate dal dover insegnare il rispetto per le persone, quale che sia la loro condizione e il loro orientamento. Ma perché mai dovrebbe essere diversamente? Perché per una parte del sistema scolastico finanziato dallo Stato dovrebbero valere leggi diverse da quelle che valgono per tutti gli altri?” (La Stampa, 24/6).

Non ci duole sottolineare che la scrittrice inventrice del “fascistometro”, genialata senza pari, come al solito non ha capito granché. Proprio lei che fa parte della schiera di feticisti della Costituzione sembra ignorare che il Concordato, erede dei Patti Lateranensi del 1929 e revisionato nel 1984, sta appunto dentro la Costituzione.

Ora, gli accordi fra Stato italiano e Santa Madre Romana Cattolica Apostolica eccetera eccetera, da sempre vengono contestati dai laici (quelli veri, non ad annate alterne), perché consistono in un privilegio legislativo inammissibile in un ordinamento giuridicamente normale, il quale non dovrebbe riconoscere trattamenti speciali a questa o a quella religione, anche questa dovesse rappresentare il 99% di chi ha traffici spirituali con qualche Dio.

Rileva poco, qui, che il cattolicesimo faccia sempre meno presa nella vita quotidiana degli italiani; quel che importa è che, fino a quando il favoritismo concordatario non sarà stato abolito, le garanzie previste sono uno scudo che non si capisce perché mai la Chiesa beneficiaria non dovrebbe poter sfruttare, per salvaguardare scuole in cui, sic stantibus rebus, preti e suore hanno tutto il diritto di insegnare la loro dottrina.

Il finanziamento statale alle ‘paritarie’ (in teoria “senza oneri per lo Stato”: sì, come no) diventa scandaloso solo se si presuppone di denunciare quel benedetto Concordato e riscrivere la legislazione religiosa, per intero e daccapo.

Altrimenti, è la solita litania che ogni tanto riciccia fuori dal dimenticato fondo di un certo anticlericalismo di maniera, che suona grottesco in bocca agli sfegatati fan del Papa ambientalista, pro-migranti e, almeno così pareva, filo-lgbt (“Chi sono io per giudicare?”).

Cirinnà, facce ride. “Un prete potrà tranquillamente dire cos’è per la Chiesa la famiglia, se invece dovesse invitare i fedeli a prendere a botte le coppie gay commetterebbe un reato. Chiaro no?” (Il Manifesto, 25/6).

L’autrice di questa perla è Monica Cirinnà, senatrice del Pd la cui fama si deve alla legge d’introduzione delle unioni civili che porta il suo nome. Secondo il diritto, l’ignoranza della legge non salva il reo.

La Cirinnà dimostra di non sapere che se chiunque, non un prete ma proprio chiunque, dovesse esortare qualcuno a usare violenza contro qualcun altro, finirebbe, almeno si spera, davanti a un giudice.

E già oggi, ora, nunc, non grazie al Ddl Zan. A parziale e insufficiente compensazione, la brillante Cirinnà rivela almeno che “se la vecchia maggioranza del Conte 2 tiene senza defezioni, i numeri ci sono”. Leggi: se Renzi e i cattolici del Pd non fanno scherzi, Zan passa. Quanto meno un’informazione utile e sensata l’ha fornita, la neo-ripetente in giurisprudenza.

Verità est una (ma anche no). Nella nota informale, come da gergo diplomatico è chiamata la comunicazione consegnata dal Segretario per i Rapporti con gli Stati, Paul Gallagher, al nostro Ministero degli Esteri, si legge: “Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”.

Non ci si può stupire che il Papa faccia il Papa, e che il suo magistero “autentico” rimarchi la totale contrarietà a qualsivoglia concezione diversa dalla Verità rivelata, che essendo tale è fissata per sempre, punto e basta.

La leggenda di un Bergoglio aperto e riformatore al punto da rinnegare i fondamenti stessi del cattolicesimo è, appunto, una leggenda.

Funzionale ai suoi detrattori diciamo di destra (che dal punto di vista teologico, le loro ragioni ce le hanno) e ai suoi adoratori diciamo di sinistra (che neanche sanno, nella loro crassa fatuità, di essere stati preceduti da un certo Tolstoj e da un meno noto, ma forse ancor più grande e acuto Elull, grandi eretici in quanto contestatori di tutto ciò che è venuto dopo Cristo, ovvero l’intera Chiesa con annesso armamentario di divieti, sessuofobia e moralismi assortiti).

Il fatto è che nella modernità relativista le verità si scrivono con la minuscola e si declinano al plurale, e piaccia o no questa non è un’interpretazione, è un dato fattuale. Anche eventualmente da combattere, sia chiaro, ma comunque inaggirabile.

Il che dovrebbe indurre gli scatenati adepti del decostruzionismo gender al senso del relativo e, di conseguenza, al rispetto della libertà di professare anche l’idea considerata più retrograda, purché non intacchi la libertà di professare quella altrui. Altrimenti è uno scontro fra asserzioni assolute e dogmi di fede.

Decisamente non un passo avanti ma indietro. Molto indietro. Diciamo alle guerre di religione con cui si affacciò all’onor del mondo la modernità.

Parola di Parolin. Il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, intervistato da Vatican News il 26 giugno ha smorzato la polemica: “Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare la legge. Siamo contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale, come pure della loro appartenenza etnica o del loro credo. La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è”.

Detto che nel conquibus il prelato ha ragione, perché un povero giudice avrà la sua bella gatta da pelare quando dovrà stabilire il confine fra ciò è ammesso sostenere e ciò che non lo è, l’impressione è che il pontefice, ben nascosto dietro le quinte da consumato comunicatore quale è (ah, i gesuiti, che lenze), abbia mandato avanti il fido Parolin per dire una parola di distensione che riduce molto la forma, ma non la sostanza della contesa. Ci sarà pure una ragione, d’altronde, se la Chiesa bene o male dura da duemila anni.

Lucetta dei nostri occhi. Ebbene sì, una mente illuminata che l’ha messa giù bene, piana, semplice e incontrovertibile, c’è. È cattolica, ma anche un miscredentaccio uscito dal tunnel postmodernista potrebbe tranquillamente sottoscrivere.

Udite e gioitene tutti: avversare la filosofia ispiratrice del Ddl Zan non è “istigazione all’odio contro gli omosessuali, o i transgender o quanti vogliono essere classificati come fluidi, ma solo libertà di dire che gli esseri umani, tranne una minoranza esigua, nascono o donne o uomini. Dire questo non significa ovviamente che non si possa poi scegliere il comportamento sessuale, anche in opposizione all’appartenenza biologica. Significa solo poter affermare una verità che è sotto gli occhi di tutti, sostenuta anche da laici e da una parte delle femministe. Significa dire che i desideri trovano un limite nella realtà, e dobbiamo tenerne conto se non vogliamo entrare in una confusione pericolosa e sterile”: Lucetta Scaraffia (Il Giorno, 24/6).

Andate in pace, che non è ancora tempo di svaticanamenti.

 

Alessio Mannino

Lo Zan, Fedez e il tiro all’opinione

Tra Fedez e Pillon, tutti a grugnire intorno alla proposta di legge del deputato PD. In democrazia, più si rispetta la diversità, meglio è. Nella finta democrazia liberale, invece, funziona come nella Fattoria degli animali di Orwell: c’è sempre qualcuno che vuol essere più uguale degli altri.

Il diritto liberale funziona così: ogni minoranza deve poter chiedere e, prontamente, da parte della maggioranza esserle dato. Norme, soldi (4 milioni di euro per centri di assistenza a vittime delle violenze di genere), visibilità, riconoscimento sociale. Si sviluppa ad abundantiam, per proliferazione.

Non è una critica, è una constatazione. Tutto quel saltare di nervi, poi, per gli incontri nelle scuole abbinate a una futura Giornata nazionale contro le varie fobie, pare, suvvia, un tantinello sfasato: con tutta l’orgia di materiali di varia natura di cui un ragazzino può ingozzarsi quando gli pare e piace, guardando una qualunque serie su Netflix, o navigando solitario in cameretta sul telefonino (che certi disastrati genitori gli danno in mano quando ancora non sa la differenza fra il coso e la cosina), il terrore che imparino dalla maestra la legittima esistenza degli omosessuali o dei trans suona, diciamo, leggerissimamente fuori dal mondo.

Secondo i seguaci di Fedez, la proposta (già passata alla Camera, bloccata in commissione al Senato dalla Lega) non mette affatto a rischio la libertà di manifestare un’opinione diversa o critica su matrimonio gay o utero in affitto, anche perché è stata munita di un’aggiunta, la cosiddetta “clausola salva-idee”, che salvaguarda la libera espressione di punti di vista purché non vengano “a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

L’ambiguità, in effetti, c’è. Ma come in tutte le pandette, del resto, specie in Italia. Sarà ulteriore lavoro per i giudici nonché per i giornalisti, ghiotti di casi dell’offeso di turno che schizza in tribunale non appena sente un prurito alla propria personale fobia.

Ora, posto che non è in discussione punire chi discrimina un qualsivoglia cittadino a prescindere dalla categoria o dall’appartenenza (se dimostro, per esempio, che pur avendo i titoli mi scarti al lavoro perché non gradisci con chi mi accompagno, vai sanzionato per violazione della basilare uguaglianza, non per altro), specificare, settorializzare, parcellizzare reati di comportamento che dovrebbero valere per tutti è una battaglia che non dovrebbe sfiorare nemmeno un’aula di giustizia, perché è culturale e politica.

Tramite il Dl Zan i promotori intendono far avanzare la loro linea, e ci sta. Ma qua il problema non è il singolo comma del dettato legislativo, è che non dovrebbero proprio esistere i reati di opinione. Chiunque dovrebbe poter sostenere la propria, fosse anche la più indecente, a patto che non agisca per imporla a nessuno.

Si poteva benissimo pensare a giornate celebrative o centri anti-violenza o a inasprire le aggravanti, senza alimentare la dinamica opinionicida dell’iper-regolamentazione fobica.

La legge Zan non proteggerà nessuno, con buona pace di Fedez che non sa nemmeno di cosa parla. Al meglio, non cambierà niente; al peggio, rafforzerà le parti politiche che li discriminano. La legge introduce aggravanti, cioè pene appesantite per reati che già esistono. L’idea che inasprire le pene faccia diminuire il crimine è una delle numerose credenze intuitive ma false, ormai ampiamente smentite dagli studi. Per amor di brevità, citiamo solo la posizione del National Institute of Justice, l’agenzia di ricerca del Dipartimento di Giustizia americano:

“Le leggi pensate per ridurre il crimine concentrandosi principalmente sull’inasprimento della pena sono inefficaci, in parte perché i criminali non conoscono le sanzioni specifiche per i crimini. Pene più severe non correggono i condannati, e il carcere può aumentare la recidiva”.

Inoltre, tralasciando l’ipocrisia e la pochezza intellettuale di alcuni politici che dicono di “stare” con il rapper (fatto che ci dice che la politica ormai è quasi deceduta), il paladino dei trans e dei lavoratori Fedez, “dimentica” quelli di Amazon, multinazionale di cui è sponsor, come dimentica quella canzone in cui ironizzava sull’outing di Tiziano Ferro (uno che sa cantare), o le sue bordate sui carabinieri. L’impressione è che al cantante munito di autotune non interessino davvero i diritti civili, ma consolidare la sua immagine pubblica di influencer, magari sollecitato dalla moglie che ha brandizzato la propria famiglia, facendosi ulteriore pubblicità e “dimostrando” di non essere solo un artista (?) ma un artista impegnato, come si conviene oggi.

 

Fonte  Alessio Mannino

Il mercato della massa a Washington DC tra Whitman, Faulkner e Canetti, che avevano previsto tutto

All’inizio sembrava una gita, rocambolesco assalto tra violenza e selfie. Nei video vediamo uomini in costume, un tizio a torso nudo, con le corna; molti sorridono. Alcuni sventolano bandiere, i più sventolano i cellulari. Nell’androne che porta verso il Senato alcuni sono intimiditi, sorridono storto: hanno la consapevolezza di ‘fare la Storia’, ma pare, in fondo, che siano lì, impacciati, a fare una visita guidata nel ‘cuore della democrazia americana’. Fotografia emblematica: un tizio entra nell’ufficio di Nancy Pelosi, presidente della Camera, ride, mette il piede sinistro sulla scrivania. Ha il cellulare in mano. Il Congresso degli Stati Uniti, come si sa, è a Washington DC, al Campidoglio (Capitol): il legame con la tradizione ‘romana’ – insieme repubblicana e imperiale – è un fato, un segno.

Nel Congresso il potere politico si fonde con quello religioso, il Tempio di Giove Capitolino con la massima istituzione di Roma. Sfondare il Congresso e invaderlo è sfidare la sacralità del potere democratico americano: come se assalissimo il Vaticano, rovesciandone la statuaria. Il Congresso è lì, sferico, immane placenta politica: entrarvi, in assetto da gita più che da assalto, significa rinascere, ambire al nuovo parto. Le gerarchie sono scisse, la fede – perché parecchi milioni di uomini dovrebbero obbedire a un manipolo di pochi? –, che si regge su una idea, su una sacralità, è trafugata, trafitta.

In termini assoluti, la Storia si fa per irruzione: chi sta comodamente assiso nel dibattito politico accarezza la Storia, la contempla. Nessuna sommossa è stata vista, fotografata, raccontata come quella accaduta il giorno dell’Epifania al Congresso degli Stati Uniti: eppure, pur in tale prossimità mediatica c’è una tale distanza dalla comprensione dei fatti. Mob Incited by Trump Storms Capitol, titola il “NYTimes”, snocciolando una infinita serie di dichiarazioni di senatori, governatori, politici. Democracy under siege urla il “Daily Telegraph”. Più interessante il “Daily Express”, di taglio conservatore: Anarchy in the Usa. Il paradosso è esplicito: il Paese che ‘esporta la democrazia’ in ogni angolo del globo ha una democrazia – rivelazione nel giorno della Rivelazione – tarlata, fragilissima.

Già, ma cosa significa democrazia? Che esiste un popolo democratico e una banda, una massa, una plebaglia di rivoltosi? Non sono anche loro parte popolo americano? Lo sono, per certi versi, all’eccesso, per eccesso di eccitazione. Ma chi risponde, ora, di quei morti, quattro – per ciò che ne sappiamo, ora – a Capitol Hill? Quali sono i loro nomi, le loro vite, taciute, forse, per non essere santificate nell’agiografia sanguinaria della ribellione civile? Ashli Babbit, la donna uccisa dalla polizia in Campidoglio, durante i tumulti, viveva nei pressi di San Diego, ha prestato servizio nell’Air Force per quattordici anni, nelle fotografie divulgate in rete sorride, è bella, fa il segno della vittoria.

Non c’è bisogno di squadernare libri ‘maledetti’ come The Turner Diaries di William Luther Pierce, alias Andrew Macdonald, “la bibbia del razzismo di destra e della sua rivolta” (era il 1978, è edito in Italia da Bietti come La Seconda Guerra Civile Americana): quanto accaduto in Campidoglio, nella sua eccezionalità, è inscritto nella storia americana.

Ed era prevedibile. Pochi giorni fa Daniel Mallock, uno storico – nel 2016 ha pubblicato Agony and Eloquence, uno studio che si focalizza su John Adams e Thomas Jefferson – ha scritto, dalla “New English Review”, un articolo tonante fin dal titolo, An American Coup. Alcuni passi sono utili:

“Studiosi rispettabili, nel nostro paese e nel resto del mondo, stanno cercando di dare un senso a ciò che accade negli Stati Uniti. Questo è molto difficile perché il 98% della stampa americana è fuorviante, incline a confondere e a ostacolare, se non a mentire. Setacciare la verità in mezzo alla propaganda riversata sul pubblico ogni giorno non è facile. Negli Stati Uniti è in corso un colpo di stato. Il presidente Donald Trump ha vinto le elezioni in maniera schiacciante, proprio come afferma”.

Mallock procede nella sua analisi – “Il processo di tabulazione e comunicazione dei voti la notte delle elezioni era del tutto impreciso”; “Chi sapeva, prima di queste elezioni, che così tante persone nate il primo gennaio del 1900 votano per i democratici?”: immagine, questa, che rimanda alle Anime morte di Gogol’, al mercimonio delle identità defunte –, profila alcuni momenti della storia elettorale americana, scaglia accuse contro il sistema corrotto della stampa americana. Parole tendenziose, stravolte, stralunate? Può darsi. Sarebbe un errore, però – come è stato fatto – non considerarle, denigrarle.

C’è poi qualcosa di connesso all’anima americana, di inestricabile, più profondo di ogni analisi di Alexis de Tocqueville. La sovranità dell’individuo che sovrasta il giogo istituzionale. Walt Whitman, il cantore della democrazia americana, si scaglia contro i presidenti dem, James Buchanan, Millard Fillmore, Franklin Pierce, stigmatizzandone la corruzione e la pochezza, “uomini deformi, mediocri, piagnucolosi, inaffidabili, dal cuore falso”, li dice, incapaci di adempiere le promesse elettorali.

Nel 1860, il poeta si rivolge in versi al Presidente, “Dici che dall’America penzolano illusioni/ non hai imparato nulla dalla natura della politica/ non conosci ampiezza, rettitudine, imparzialità”. Di Pierce – quattordicesimo presidente americano, che sistemò economicamente Nathaniel Hawthorne – il poeta aveva una idea pessima: “Mangia escrementi tutto il giorno e gli piacciono così tanto da volerli imporre con forza agli stati e ai cittadini”. Nel 1955 William Faulkner, già nobilitato dal Nobel, scrive un corrosivo saggio, On Privacy, in cui ragiona sui rapporti, corrosi fino alla lotta, tra individuo privato e ingerenza pubblica:

Il punto è che oggi in America qualsiasi gruppo o organizzazione, per il semplice fatto di operare sotto la copertura di una espressione come libertà di stampa o sicurezza nazionale o lega anti-sovversione, può postulare a proprio favore la completa immunità riguardo alla violazione dell’individualità. La privacy individuale senza la quale l’individuo non può più essere tale e senza la quale individualità egli non è più nulla che valga la pena essere o continuare a essere… Chi è abbastanza individuo da esigerla [la privacy] anche soltanto per cambiarsi la camicia o fare il bagno, verrà bollato da un’unica, universale voce americana come sovversivo del sistema di vita americano e della bandiera americana.

Ma questi sono dati colti, intellettuali, aurei, che aiutano, semmai, a capire la turbolenza civile connaturata in terra americana. Il fatto profondo, al netto delle esasperazioni – di radical chic, di politicamente corretto, di canoni stravolti e di tradizioni impagliate e defunte si parla da almeno cinquant’anni, come con imbarazzante ricorrenza si parla delle ‘tante’ americhe, inconciliabili e autistiche – si chiama mass market.

No. Non il mercato ‘di massa’. Il mercato delle masse. A chi fa comodo, in effetti, la sgargiante massa di insorti che con clamorosa facilità ha fatto ingresso al Congress? Quella massa – irrisoria rispetto al popolo americano ma pur sempre una sua rappresentanza – ha il marchio ISBN addosso. Ha un prezzo. Donald Trump la userà – la ha usata –, quella massa, per i suoi scopi; i Repubblicani per i propri; Joe Biden & i suoi per i loro.

La massa è plastica, informe, senza nome. Utile. La massa serve ai fini democratici – è massa elettorale – ma è serva di chi domina per scopi che la portano al massacro. La massa diventa popolo quando si coalizza intorno a un morto, quando acquista una identità diversa da chi pretende di guidarla. Chi guida la massa, in effetti, ne è terrorizzato: al potere di incendiare una massa deve bilanciarsi quello di saperla sedare e sciogliere – per non esserne travolto. L’ideologia felice del popolo promossa da Tolstoj in Guerra e pace qui non ha ambito: la massa fa paura, è rigurgito d’ira, coagulo di occhi, denti, mani, rissa che si autoalimenta, desiderio di morte, “volgo disperso che non ha nome”, come scrive Tacito nelle Historiae. Tutto era previsto, prevedibile, assassino.

La massa aizzata si forma in vista di una meta velocemente raggiungibile. La meta le è nota, precisamente designata, e vicina… La massa aizzata è antichissima; essa risale alla più remota unità dinamica conosciuta fra gli uomini… La massa aizzata che ha avuto la sua vittima si disgrega in modo particolarmente rapido. I potenti minacciati sono ben coscienti di questo fatto. Per fermare la crescita della massa, essi le gettano una vittima. Molte esecuzioni politiche sono state ordinate solo per tale scopo. Elias Canetti.

Massa e potere è il libro fondamentale di questo tempo, scritto da un genio, Elias Canetti, negletto, forse, per troppa lungimiranza. Nel caso specifico, la massa aizzata negli Usa è vittima di se stessa, si è involuta divorandosi. Di essa già stanno facendo pasto i paladini dell’ordine pubblico, i politici di buon senso, di qualsiasi fazione. D’altronde, hanno denti addestrati.

Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Sostiene Canetti. Si vuole vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo
conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito.

Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno
può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all’improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore.

Molto di questo concetto è entrato nel duplice significato della parola “angreifen” (protendersi per prendere, per toccare). Vi si trovano insieme sia il contatto innocuo sia l’aggressione pericolosa, e qualcosa di quest’ultima è sempre presente anche nel primo. Nel sostantivo “Angriff” (aggressione) è però rimasto soltanto il significato negativo.

La ripugnanza d’essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto ci è possibile di toccarli.

Ciò che dà vita alla massa dunque è la scarica: essa elimina ogni differenza tra gli uomini, li rende uguali eliminando le distanze. La massa sopravvive se la scarica continua su nuovi uomini che vi si aggiungono altrimenti si arriverà alla disgregazione. La massa è poi animata da un impulso di distruzione, ogni cosa viene distrutta, soprattutto ciò che è ostile.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Solo Assad può salvare Erdogan

Beirut. Giornalisti e intellettuali col ditino puntato, prima di scrivere o parlare dell’assedio di Idlib, per onestà intellettuale, hanno il dovere di spiegare a lettori e auditori tre questioni fondamentali. Primo. Chi occupa il territorio e tengono in ostaggio i civili sono gruppi terroristici in passato legati a Jabhat al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda, nemici di Assad e anche dei curdi. Secondo. La presenza militare della Turchia, membro della Nato, in quel territorio è una violazione del diritto internazionale oltre che della sovranità della Siria. Terzo e ultimo punto. La Turchia, membro della Nato, protegge gruppi terroristici in passato legati a Jabhat al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda, nemici di Assad e anche dei curdi, che tengono in ostaggio milioni di civili. Se mancano questi elementi qualsiasi narrazione che sentirete o leggerete è dunque parziale, sensazionalistica o ideologica, di conseguenza, falsa.

La realtà sulla vasta provincia di Idlib ci dice che di “ribelli moderati” non se ne vedono più da un pezzo. La maggior parte dei suoi combattenti siriani provengono dalle zone riconquistate negli ultimi anni dall’Esercito Arabo Siriano, Hama, la Ghouta Orientale, Aleppo, senza contare tutti gli stranieri già presenti sul posto prima dell’attuale assedio. Persino gli Stati Uniti per bocca dell’inviato Brett McGurck sono stati costretti ad ammetterlo definendolo “il più grande santuario di Al Qaeda dopo l’Afghanistan”.

Non a caso proprio lì si trovava, protetto probabilmente dall’intelligence turca, il Califfo dello Stato Islamico Abu Bakr Al Baghdadi, prima di essere ucciso, pare, da un raid americano. Ecco perché gli appelli strappalacrime di ONG e influencer su Idlib lasciano il tempo che trovano. Non perché le vite dei civili valgano poco, anzi, bensì perché chi vuole ricordarli oggi, da morti, avrebbe dovuto farlo in questi otto anni di guerra quando erano vivi, imprigionati, presi in ostaggio, usati come scudi umani dai gruppi jihadisti.

Quanto accade in questi giorni in Siria, nella provincia di Idlib, rientra nella diplomazia muscolare russo-turca, per cui ha il diritto di sedersi al tavolo delle negoziazioni solo chi ha il coraggio di sacrificare militari operativi sul campo. Turchia e Russia non arriveranno allo scontro diretto perché non è nell’interesse di nessuno.

Da un lato Putin, oggi, è l’unico amico rimasto a Erdogan in Medio Oriente, sempre più isolato nella Nato, e nemico giurato della “Nato araba”, il quale allo stesso tempo alza la posta con l’Europa con la minaccia migratoria per avvicinarla ai suoi interessi allontanandola da quelli atlantici; dall’altro Putin, che non scaricherà Assad per nessuna ragione al mondo, soprattutto ora che gioca la partita parallelamente anche sul fronte libico, ha lanciato un avvertimento al suo interlocutore diretto su un territorio che appartiene al governo siriano, occupato da gruppi terroristici, illegalmente da soldati turchi, e che nella realtà, giorno per giorno, sta per essere riconquistato dall’Esercito Arabo Siriano (a molti è sfuggito che di recente la principale via di comunicazione del Paese, l’autostrada M5 che collega le quattro principali città del Paese, Damasco, Homs, Hama e Aleppo, è stata liberata e riaperta). Insomma, Russia e Turchia, e di rado l’Iran, non possono perdere la più grande occasione che hanno per dettare l’agenda di Nordafrica e Medio Oriente.

E l’Italia in questa vicenda internazionale ha la possibilità di replicare e applicare con forza la strategia adottata col dossier libico, e inserirsi anche in quello siriano come mediatore nella diplomazia muscolare tra Putin e Erdogan, e tutelare i suoi interessi strategici nazionali, vale a dire, riconoscere la legittimità di Bashar Al Assad, riaprire per primi in Europa la nostra ambasciata a Damasco, e partecipare con le nostre aziende alla ricostruzione del Paese.

Per riuscire in questa impresa occorre però ridimensionare l’interventismo di Erdogan e farli rispettare i patti. Nessuno vuole assolverlo, soprattutto dopo aver approfittato della destabilizzazione della Siria per indebolire un suo vecchio amico, leader del mondo arabo, Bashar al Assad, e rafforzare il suo disegno neo-ottomano. In questi anni la frontiera turco-siriana è stata una vera e propria “autostrada della Jihad” nonché una retrovia strategica per i gruppi terroristici, pertanto la Turchia, dal fallito colpo di Stato in poi si è progressivamente allontanata dagli Usa, esclusa dalla “dottrina Trump”, e riavvicinata a Russia e Iran, tanto da entrare nei colloqui di Astana, rendendosi disponibile a modificare strategia, disarmare i gruppi jihadisti, ritirarsi dal Paese che oggi occupa illegalmente, in cambio di una ricollocazione dei rifugiati siriani ed ex combattenti siriani nell’area a maggioranza curda, di preciso in quella cintura temporanea di sicurezza, profonda 30 chilometri, collocata nella parte nord orientale. Tutto questo non è impossibile perché il presidente turco, oltre ad essere isolato sul piano internazionale, potrebbe essere il prossimo a finire sulla black list occidentale (soprattutto dopo che Bashar Al Assad se l’è scampata). E i russi, che lo hanno salvato già una volta nel 2016, quando fallì il golpe, non lo faranno una seconda. Soprattutto se gli accordi di Astana non verranno rispettati.

 

Sebastiano Caputo

L’universo orwelliano delle sardine

Chi non è, a suo modo, fomentatore d’odio, scagli la prima pietra. Questa di sicuro non è la prima, dato il clima pro-regolamentazioni della comunicazione e dell’informazione online che aleggia intensamente, almeno dai tempi della Brexit in poi.  Ma il promotore di questa idea è colui che, onnipresente da mesi sulle reti e sulla stampa nazionale e internazionale, pretende una Politica “con la P maiuscola” (nonostante questa nasca da un dibattito fatto di proposte concrete che, in più occasioni, le Sardine hanno dimostrato di non poter offrire). Mattia Santori infatti è il leader del movimento delle sardine che, proprio perché nato sospinto dai venti di mezzi e personaggi più mainstream, vorrebbe la distruzione degli altri mezzi di diffusione del pensiero, più funzionali alla disintermediazione.

Pertanto, Santori propone il daspo dai social come misura a tutela della «sostenibilità democratica» (non sia mai che si andasse in overdose), garantita dalla vigilanza di organi di polizia su determinati account. In questo modo la manifestazione del pensiero, seppur espresso con veemenza, viene assimilata a un atto di turbamento dell’ordine pubblico, segnatamente per le manifestazioni a sua detta «ai limiti della diffamazione».

Come se, in giudizio, si potesse adottare un sistematico pressappochismo nel decretare la sussistenza di un reato descritto con estrema precisione da codice penale, laddove già quest’ultimo indica le fattispecie di delitti a mezzo stampa, comprendendo le aggravanti legate all’istigazione della violenza per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, alla legge Mancino, oltre a quelle più classiche di calunnia, diffamazione, vilipendio e minaccia.

Benché l’organizzazione delle “piazze che non si Legano” avvenga proprio tramite la rete, Santori si fa promotore dell’antiquata distinzione tra reale e virtuale. È una visione nella quale si presenta una peculiare forma di «democrazia digitale», che ospita il populismo del sentimento umano più strumentalizzato: un odio (per la verità legittimo tanto quanto il suo opposto, fatti salvi i reati) talmente generico da poterci racchiudere tutte le manifestazioni del pensiero più sgradite; e pensare che Gramsci sull’odio aveva costruito un’invettiva agli indifferenti da premio. Secondo tale proposta, la (psico)polizia, in atto preventivo, dovrebbe controllare che i profili messi all’indice come fomentatori di violenza vengano banditi dalle piattaforme, in barba ad ogni precetto enucleato dall’art.21 della Costituzione.

Questo infatti, non solo comprende al primo comma «ogni altro mezzo di diffusione» della parola e dello scritto, come tutela della libertà di manifestare il proprio pensiero, senza prevedere, né con riserva giurisdizionale né di legge, la possibilità di esserne cacciati, anche dopo condanne definitive, ma persino l’istituto del sequestro avviene ex post la pubblicazione, e mai prima. Altrimenti, costituirebbe automaticamente una forma di censura. Per di più, Sartori beatifica quella privata, ad opera delle piattaforme social, in base agli ambigui “standard della community”, incoraggiando un esacerbarsi degli stessi: «va affinata la tecnica».

Il colmo, per un movimento che si dichiara antifascista, è proporre misure ultra-securitarie. Si ripresentano addirittura sembianze della norma sulle manifestazioni del pensiero redatte nel Testo Unico di Pubblica Sicurezza, tra il 1926 e il 1931, il quale riesce a mettere insieme l’inasprimento delle licenze di polizia per la stampa, e il passaggio dell’istituto del sequestro, da provvedimento azionato dal giudice, con atto motivato, a strumento preventivo delle forze dell’ordine, indipendentemente dall’effettivo reato commesso.

Il paradosso è realizzato. Insomma, a furia di voler mettere i lucchetti ai pericolosi populisti internauti, contro i quali l’art.21, nonostante sia erga omnes e coessenziale alla Forma Repubblicana stessa, viene presentato come sacrificabile, le Sardine finiscono col riproporre, nelle vesti di crociati contro Salvini, una perfetta restrizione distopica. Il tutto nell’ignavia generale, che la fa passare come un’idea addirittura lecita.

 

Caterina Betti

Chi sono i morti dell’Europa? Il vuoto di Renzi, Salvini e della sardina Sartori

Pavel Ivanovič Čičikov attraversa la Russia per acquistare anime morte, i servi della gleba deceduti ma non ancora registrati come tali, così da costruirsi un capitale di spettri, una ricchezza fantasmatica da tramutare, poi, in viatico d’ascesa sociale. Questa figura mediocremente cordiale, “un uomo molto ammodo, comunque lo si rigirasse”, cui Gogol’ attribuisce i tratti della più totale banalità – né bello né brutto, né grasso né magro, né vecchio né giovane – è la metafora letteraria perfetta per il vuoto di rappresentanza che infesta l’Europa, reso ormai palese dal recente trionfo dei conservatori di Boris Johnson in Gran Bretagna.

Matteo Renzi, non unico fra gli affranti commentatori liberal, si affretta a dar la colpa a Jeremy Corbyn: la colpa di essere troppo a sinistra, nello specifico. Una lettura, però, semplicistica e strumentale, che non tiene conto dell’analisi del voto. Con buona pace della nostra sinistra-ma-non-troppo, le mappe e i numeri dipingono un quadro diverso: il Labour perde consensi soprattutto nelle aree storicamente rosse, il cosiddetto red wall. Nel nord dell’Inghilterra, quindi, nelle vecchie roccaforti operaie, le stesse zone che si erano schierate più decisamente per il leave in materia di Brexit.

La sterzata socialista promessa da Corbyn può aver spaventato gli europeisti di Londra, il grande capitale, la gauche caviar, certo, ma la vera catastrofe si registra proprio fra i votanti che Renzi definirebbe “di sinistra dura e pura”.

Il fenomeno è, sul fondo, identico a quello che stiamo osservando da più di un decennio in Italia: un travaso del voto popolare, a basso reddito, dalla sinistra alla destra. Eccole qui le anime morte, intere fasce della popolazione emarginate dai processi democratici, elettori che votano ma, chiunque votino, non verranno rappresentati. Salvini è il nostro Čičikov: viaggia di piazza in piazza, di sagra in sagra, discute con il medesimo piglio popolaresco di Nutella e della Madonna, e così raccatta questo popolo dimenticato, offrendo nient’altro che la propria presenza.

Salvini, quando parla di assetto economico nazionale, è curiosamente vicino ad Emma Bonino: la stessa venerazione per l’impresa privata, la stessa insofferenza per regolamentazioni, interventi dello Stato, tassazione progressiva, solidarietà sociale, per tutto ciò che non è mercato.
Però Salvini non ne parla spesso. I suoi argomenti sono altri, e meno rischiosi: l’immigrazione e la sovranità.

Così come la campagna elettorale di Johnson è stata del tutto incentrata sulla Brexit, tanto da trasformare le elezioni politiche, alla prova dei fatti, proprio in quel secondo referendum vagheggiato da Corbyn. Un gioco di prestigio, questo, che nasconde un tragico cortocircuito: la sinistra non potrà mai realizzare politiche sociali risolutive, e quindi recuperare consenso laddove l’ha perso, finché non saranno spezzate le catene europee; e la destra, che vuole spezzare le catene europee, non è interessata alla politica sociale. Il Jeremy Corbyn ambiguo, pavido, incapace di interpretare la Brexit, è l’incarnazione più recente di questo paradosso.

Nel frattempo, l’attività principale degli opinionisti di sinistra sembra essere la ricerca di giustificazioni fantasiose per i propri fallimenti. A sabotarci, ci raccontano, sono i vecchi, gli ignoranti, chi non è progressista, multiculturale, dinamico, moderno e almeno un po’ gender fluid: un odioso vaniloquio hipster che offusca la realtà, altrimenti cristallina.

Gli europei che odiano l’Unione Europea sono quelli che ne hanno pagato il prezzo: non i giovani, che non ricordano com’era prima, e non i ricchi, che delle devastazioni causate dall’austerità possono infischiarsene. Al posto del necessario mea culpa, però, la sinistra italiana preferisce mandare in piazza un ulteriore Čičikov, un nuovo pifferaio del nulla: la sardina Mattia Santori con i suoi seguaci.

Anche lui, come Salvini, predica il vuoto spinto: basta odio, integrazione universale, affidiamoci ai competenti. Anche lui, come Salvini, è una toppa appiccicata male sul vestito a brandelli della democrazia. Un “romanzo ideologico d’appendice”, per dirla con Gramsci, fatto di buonismi e cattivismi ugualmente fumosi, in cui naufraga la questione fondamentale della rappresentanza: nessuno parla davvero in nome della maggioranza degli italiani.

 

Claudio Chianese

La vittoria Di Boris Johnson: ‘Let’s get Brexit done!’

“Abbiamo il nostro sogno e il nostro proprio compito. Noi siamo con l’Europa, ma non dell’Europa. Siamo collegati, ma non mescolati. Siamo interessati e associati ma non assorbiti”. Sembrano riecheggiare così le parole pronunciate da Winston Churchill nel lontano 1930 mentre Boris Johnson, uno dei suoi più grandi estimatori, ottiene con 364 seggi la tanto agognata maggioranza assoluta.

Il red wall laburista è stato abbattuto, Jeremy Corbyn ha perso ben 42 seggi rispetto alla legislazione precedente. Una vera e propria débâcle per il leader laburista, il cui partito ha ottenuto il peggior risultato dal 1935. Sono venute meno alcune roccaforti del Nord come Workington e Darlington, seggi tradizionalmente laburisti, in cui Corbyn ha perso rispettivamente 11,9 e 10,1 punti percentuale rispetto alle elezioni precedenti. Anche la Blyth Valley, indipendente o laburista dal 1950, non è più rossa.

Labour Party ha perso, qui, ben 15 punti: cinque sono andati al Partito Conservatore, che ha fatto suo il seggio, e ben otto al Brexit Party di Farage. La vittoria di Johnson era stata vaticinata nei giorni passati, ma non si credeva che avrebbe ottenuto un tale successo. Come ha titolato il The Sun per il labour è stato un vero e proprio Nightmare before Christmas che sarà difficile dimenticare.

La campagna elettorale di Corbyn impostata su un programma radicale di nazionalizzazione dei servizi pubblici e di ampi investimenti statali non ha convinto, come avrebbe dovuto, gli elettori. Mentre il mantra di BoJo “Let’s get Brexit done” è uscito vincitore dalle urne. Bisogna tener presente che queste elezioni sono state considerate, da gran parte dell’elettorato inglese, come un secondo Referendum.

E che soltanto Johnson ha espresso in maniera chiara la sua posizione sulla Brexit, ovvero rispetto della volontà popolare e uscita in breve tempo dall’Unione Europea. Corbyn, invece, ha mantenuto sempre un atteggiamento ambiguo. La proposta laburista di ottenere un nuovo accordo per poi inserirlo in un secondo Referendum insieme all’opzione di rimanere nell’UE non è stata premiata dall’elettorato. Così come non è stata premiata Bo Swinson, paladina antibrexit che, dopo aver perso il proprio seggio nel Dunbartonshire orientale, si è dimessa da leader del partito Liber Democratico.

L’unico partito contrario alla Brexit che riesce ad avanzare è quello Indipendentista scozzese, che ottiene ben 48 seggi su 59 disponibili. La leader Nicola Sturgeon ha dichiarato che Boris Johnson non ha altra scelta che concedere alla Scozia un secondo Referendum sull’Indipendenza. Una proposta che BoJo difficilmente accetterà dato che durante tutta la campagna elettorale ha promesso di evitare una uscita della Scozia dal Regno Unito.

Per il momento Johnson può godersi la sua vittoria: il Regno Unito saluterà l’Unione Europea entro il 31 Gennaio 2020, data in cui il Primo Ministro avvierà le trattative per definire i rapporti futuri con l’Unione. Il percorso non si è ancora concluso e il destino che attende la terra di Sua Maestà è ancora incerto. Come sosteneva Dean Acheson, segretario di Stato americano nel 1962: “La Gran Bretagna ha perso un impero e non ha ancora trovato un ruolo”. Mai come ora queste parole risuonano vere.

 

Clara Rosati

Chi conosce Anas K.? Il nuovo Jan Palach eclissato dai media

Mezzo secolo dopo il sacrificio di Jan Palach, un’altra torcia umana ha trasformato il settimo arrondissement di Lione in una nuova Piazza San Venceslao. Venerdì 8 Novembre Anas K., studente di Scienze Politiche dell’Università di Lione, ha deciso di cospargersi di benzina ed incendiarsi davanti alla mensa del campus universitario, riportando il 90% di ustioni sul corpo. La sua vita è appesa a un filo.

Ne avete sentito parlare? Prima di compiere l’estremo gesto, lo studente originario della vicina Saint-Étienne – della quale andava orgoglioso per via della sua vocazione operaia e popolare – ha lasciato un testamento virtuale sul suo profilo facebook, un durissimo J’accuse contro Macron, Hollande, Sarkozy e l’Unione Europea, colpevoli di aver ucciso il futuro degli studenti con le loro politiche, senza peraltro risparmiare la Le Pen e i giornalisti, definiti creatori di paure ingiustificate. L’attacco alla classe politica europeista, corollario del suo gesto, si chiude con l’invito rivolto ai suoi colleghi di combattere la crescita del fascismo e quella del liberismo, portatori di divisioni e disuguaglianze nel mondo.

Anas non soffriva di depressione ed isolamento come molti millennials, piuttosto era molto impegnato nel sociale, tanto da ricoprire l’incarico di segretario federale per il sindacato studentesco Solidaires Étudiant-e-s. Il suo straziante gesto, eclissato dai media che fungono da megafono della tribuna neoliberista, è un anelito di giustizia sociale, legato ai problemi economici di una generazione universitaria che in Francia riceve il ridicolo sussidio di 450 euro mensili per una borsa di studio.

Per Anas non erano abbastanza per vivere e garantirsi un futuro. E come dargli torto. I tagli all’istruzione pubblica e il rovesciamento delle risorse su quella privata stanno, riforma dopo riforma, corrodendo le speranze degli studenti ed il loro diritto allo studio. Il costo della vita, dalla criminale introduzione della moneta unica, si è impennato vertiginosamente tanto da costringere gli studenti a divenire lavoratori prima del tempo, allontanandoli giocoforza dall’impegno formativo, nonché da quello politico e sociale, autentico spauracchio per le classi dominanti e i loro valvassori all’Eliseo.

Non lascia sorpresi, difatti, la pronta reazione dei portavoce governativi d’oltralpe che hanno minimizzato la portata politica del martirio del ragazzo, invitando a ricercare le ragioni nel suo profilo psicologico. Nonostante i goffi tentativi di mascherare la realtà, fatta di precariato e classismo, di servizi accademici scadenti e studentati pieni di scarafaggi, la protesta suicida di Anas K. è un tragico bagliore di speranza affinché la generazione studentesca possa far luce sul proprio futuro, che non può e non deve passare solo attraverso gli scioperi e le parate ambientaliste del Venerdì.

Cinquant’anni prima di lui Jan Palach e Jan Zajíc si arsero a Praga in difesa della loro gente, per difendere la loro dignità di studenti oscurata dai mezzi di informazione e collocata nello scacchiere di un mondo che non gli apparteneva. Se dovessimo traslare da ieri ad oggi gli obiettivi politici di questi giovani martiri potremmo facilmente osservare che, pur cambiando il nome e l’ordine dei fattori coinvolti, il risultato non cambia. L’Unione Sovietica nella fase sua fase di decadenza, nelle sue politiche centripete, nei suoi picchi di ingerenze ed interessi sovranazionali, era così diversa da ciò che è “nato” dal Trattato di Maastricht? Brežnev era davvero più spietato di Macron?

La risposta è adagiata ben visibile sul pavimento di quel laboratorio di censura e repressione che è divenuta la Francia odierna, laddove i Gilets Jaunes sono stati lentamente infiacchiti e stroncati attraverso un lavoro certosino di sovraesposizione e distorsione mediatica, dopo essersi duramente insanguinati sul campo con le forze dell’Armata Bleus.

Se i media globalisti hanno avuto gioco facile nel diffamare un movimento così composito e numeroso, con il gesto di un singolo come lo studente dell’Università di Lione questa via non era percorribile. Meglio virare sulla rotta della censura preventiva, in stile totalitarismo, o sulla via dell’eresia del soggetto, stile Inquisizione, materia cara a chi considera insani tutti coloro che non si piegano all’ideologia dominante. All’epoca quello di Jan Palach fu probamente considerato un atto politico, un desiderio di morire libero in un mondo di oppressi, un tentativo disperato di scuotere le coscienze del proprio popolo.

Oggi invece la fiamma di Anas vuole essere dolosamente spenta, sommersa da altre notizie spazzatura nella discarica mainstream. Nel frattempo la mobilitazione dei suoi compagni universitari a Lione continua, poiché anche se sono trascorsi cinquant’anni da Palach, “i nostri popoli sono – ancora e di più – sull’orlo della disperazione e della rassegnazione”.

 

Andrea Angelini

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