Maria Elena Boschi: da ministro perdente a sottosegretario del governo Gentiloni

 

Maria Elena Boschi giura da sottosegretario del governo Gentiloni sulla Costituzione che voleva affossare. Aveva dichiarato come il suo capo Renzi, che qualora avesse vinto il NO al referendum, avrebbe abbandonato la politica. Nessuno ci ha fatto caso più di tanto alla fine, tanto siamo abituati a politici bugiardi. Una brillante carriera quella della fatina Boschi: da Madonna nel presepe di Laterina, a sottosegreterio del governo Gentiloni, passando per ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento. Non c’è limite all’indecenza.

La fine delle avventure di Renzocchio. Storia di un premierino

C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un presidente del consiglio.
O meglio, un presidente del consiglio dimissionario, di nome Renzocchio.

Sì, perché Renzocchio aveva solo da poche ore ricevuto la più grande batosta della vita sua. Una batosta sonorissima, enorme, semi-plebiscitaria e al momento giaceva sfranto e smarrito a culo molle sul sedile imbottito della poltroncina scarlatta collocata quasi al centro del suo gabinetto personale, però in procinto di essere a breve predisposto per qualchedun altro, per il suo successore, ancora ignoto. Subito dopo la consegna di quella cazzo di campanellina, il cui debole trillo sarebbe suonato alle sue orecchie come uno stuolo di campane a morto. E dire che era trascorso così poco tempo – appena un soffio! – da quando l’aveva a sua volta strappata di mano a un recalcitrante Enrico Letta, cui era subentrato con la gioia infame di un pargolo dispettoso, felice delle ulcere e dei traumi psico-somatici che quel colpo di mano avrebbe provocato nell’antipatico compagno di partito.

Era solo, Renzocchio, in penombra, camicia bianca, senza pantaloni, le scarpe nere tirate a lucido ancora addosso, le calze tenute su dai reggicalze elastici che col loro morso gli segnavano i polpacci. Lo sguardo perso nel vuoto, una mano penzoloni giù dal bracciolo, l’altra a reggere svogliata un cocktail analcolico a base di Red Bull, che si andava sempre più annacquando, man mano che il ghiaccio si scioglieva. Mille giorni! O giù di lì. E poi… aveva voluto puntare tutto su quel dannato referendum, il cui esito ora lo risucchiava giù, allo sprofondo, come un gorgo oscuro. Les jeux sont faits. Rien ne va plus.
«Non credevo mi odiassero così tanto…» gli scappò detto, a filo di voce. Si guardò subito intorno, gli occhi spalancati dal timore che qualche orecchio estraneo avesse potuto cogliere quella esclamazione di momentanea amarezza. Ma no, non c’era nessuno. Ciaone-Carbone stava guardando le registrazioni di Uomini e Donne per trovare qualche altra espressione giovanilistica da esibire in tale drammatica circostanza e risultare simpatico, Genny Migliore pensava: “Ma chi me lo ha fatto fare ad andare via da SEL..”. Paolo Romano chiedeva consiglio a Scilipoti, Maria Elena non la si era più vista: in pieno exit-poll l’era scomparsa, come una fatina, e insieme a lei anche la paresi facciale che l’ha accompagnata durante questi mille giorni. I tanti tirapiedi eran stati tenuti fuor dell’uscio: il capo voleva star solo, ‘un gli garbava di averli tra i piedi in quel frangente, dedicato alla riflessione introspettiva. Come in un saggio di yoga per principianti: Oooom, oooom, oooom…

«Italiani, popolo viziato…» attaccò a pensare a voce alta Renzocchio, scrutando il bicchiere tubolare che impugnava, «Puoi concedergli la luna, ma prima o poi ti getteranno via come una buccia di limone strizzato, basta che appena appena abbiano l’impressione che da te non c’è più nulla da cavare…»
«Quello che hai avuto tra le mani era un potere enorme…»
La voce rimbombò all’improvviso all’interno dello studiolo, senza che se ne potesse individuare con esattezza la provenienza.

Il premier dimissionario guardò tutto in giro, ma… niente, nessuno.
«La gente credeva in te. Si fidava. Per qualche tempo ti volle anche bene. Ti offrirono le proprie vite. Ma sai come va a finire questo genere di cose: qualsiasi luna di miele volge tragicamente al termine, quando non viene consumata per bene e nei tempi giusti…»
«Chi parla? Deh, chi parla?» cominciò a sbraitare lui, levandosi dalla poltroncina di scatto, in mutande, e lasciando cascare a terra il cocktailino, che si frantumò in mille gocce variopinte e altrettanti pezzi di vetro scintillante.
Nessuna risposta.
«E che potevano pretendere più ancora?» rispose allora lui, fissando un punto imprecisato del soffitto.
«Loro chiedevano pane e tu che gli hai dato? Brioche scadute da tre anni…» continuava la vocina, impertinente.
«Gli ho dato gli 80 euri in più dall’Inps, diobòno, gli ho abbassato l’Imu, gli ho abolito Equitalia…» cercava di difendersi il premier uscente.
«La disoccupazione è all’11,6%. Quella giovanile è superiore al 36%.»
«E io gli ho levato l’art. 18, per facilitare le assunzioni da parte delle imprese. Ci avevano già provato parecchi prima di me, ma l’è il mio governo che l’ha spuntata!»
«E così facendo avete annientato le già scarse tutele per i lavoratori e agevolato licenziamenti e buone uscite…».

A forza di udirla, quella strana voce cominciava a sembrargli sempre più familiare, ma, incalzato dal botta e risposta, soprassedé per replicarle, ostentando una certa fierezza: «Durante questo governo abbiamo macinato 660 nuovi posti di lavoro al giorno, oh bellino!»
«Quelli mica contano… Si tratta perlopiù di lavoretti temporanei pagati col voucher… Come quando fai venire la colf in casa a lavorare in nero e se, sul più bello, rimane fulminata col filo dell’aspirapolvere scoperto, prepari in corsa il voucherino prima di chiamare l’autoambulanza, così sei sicuro di non andare nelle grane…»

Cominciò a cercare dappertutto: sotto i cuscini, nei cassetti della scrivania in mogano, dietro il ritratto del Presidente della Repubblica. Intanto la voce proseguiva: «Avete continuato con le solite malversazioni, le solite ‘ndrine, gli intrallazzi, gli inciuci…»
«Ma come!» sbottò lui, simulando un qualche disappunto, tanto che buttava tutto sottosopra nella vana ricerca, «Ho pure reintrodotto il falso in bilancio io! E la responsabilità civile dei magistrati…»
«Tutta fuffa! Tutto fumo negli occhi! Il grosso ti sei ben guardato dal farlo. Gli inquisiti, le bustarelle, gli sprechi. Dovevate tagliarvi lo stipendio, dovevate falciare le spese. Quei soldi sarebbero serviti per il microcredito, per il reddito di cittadinanza…»
Ora aveva capito di chi si trattasse, ne era certo: lo avrebbe stanato a ogni costo!
Si mise a guardare anche negli anfratti più riposti, mentre continuava nel frattempo a discolparsi: «Grazie al mio governo ora hanno il divorzio breve, le unioni civili… Ho pure fatto rimpatriare quei due bucaioli di Marò, tanto per dare un contentino un po’ a tutti…»

«Eh, ma come vedi, alla fine i tuoi calcoli erano sbagliati: il popolo l’ha capita. Non le ha volute più le tue polpette avvelenate. Ha morso la mano che lo nutriva di alimenti adulterati! Ha capito che tutte queste belle novità erano la foglia di fico per nascondere e proteggere i soliti, vecchi poteri…»
«Basta con codeste bischerate!» sbottò il premier, alzando di colpo la lampada, da sotto la quale gli sembrava giungere la vocina. E infatti eccolo, là sotto, scoperto, l’esserino! Quel portavoce della coscienza a sei zampette: il Gryllus Loquens, in termini linneiani.

«T’ho beccato, oh grullo!» esclamò trionfante, agitando un pugno per aria.
«No… Grillo!» rettificò quello, mentre già il pugno chiuso del presidente ancora in carica gli si andava abbattendo addosso, cercando di spiaccicarne con tutta la forza l’esoscheletro.
Ma il Grillo ebbe la prontezza di caricare il peso sulle lunghe zampe posteriori e improvvisare un salto a parabola che lo salvò dal brutto colpo, che intanto andava a martellare a vuoto il tavolino, scuotendolo orribilmente.
«A presto rivederci!» fece in tempo a profetizzare l’esserino, mentre spariva dalla stanza attraverso chissà quale pertugio, lasciando l’altro a bocca aperta e con un palmo di naso.

Epilogo

Un mattino, al risveglio da elezioni inquiete, il presidente del consiglio si trovò trasformato in un enorme insetto ortottero.
Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, gli bastava alzare un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruno, diviso da solchi arcuati. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
L’ultima copia di zampe in particolare era più lunga ancora delle altre. Queste ultime zampe erano stranamente seghettate nella parte interna. Il nuovo presidente del consiglio, del tutto spontaneamente, attaccò a sfregarle una contro l’altra: «Onestà! Onestà! Onestà!» prese così a frinire, in un crescendo che si fece ben presto assordante.

Londra, crogiolo di culture: tra finanza e l’ora del thè

Londra: chi non ha mai sognato di andare almeno una volta nella città dalle mille opportunità?!
Già, perché anche solo qualche giorno a Londra può essere un’opportunità. Londra è una città che cambia anche il nostro modo di rapportarci alla vita.

Crogiolo di culture, miscuglio di colori e odori: questo è Londra e si diventa quasi parte del suo “tran tran” senza sosta, ammirando il curioso stile di vita dei Londinesi. Lavoro, finanza, obiettivi e carriera, ma quando arriva l’ora del thè o il venerdì sera, tutto si ferma in favore di cibo, drink e vita sociale e i londinesi sanno godersi il momento come nessuno al mondo.

Per quanto riguarda la logistica, Stansted è l’aeroporto ben collegato al centro città, anche se bisogna diffidare della compagnia di bus Terravision, azienda ormai in fallimento ma che continua a vendere biglietti online. Attraversare la città per raggiungere il centro, poi, ti fa assaggiare già un po’ della magia di Londra. Alloggiare nel quartiere Victoria significa esser a pochi passi dai maggiori punti d’interesse.
Proprio lì, a poche centinaia di metri da Victoria Station, infatti, sorge imponente e austera l’Abbazia di Westminster, luogo in cui si concentra la storia dell’intero paese, tra intrighi, curiosità, anneddoti, e tra sacro e profano. Visitarla è doveroso, quasi quanto la foto ricordo col Big Ben sullo sfondo.

Nelle vicinanze nell’Abbazia, campeggia il London Eye, la magnifica ruota panoramica con una vista mozzafiato sulla skyline (e oltre nrd) della città, alla quale si può accedere, benchè si dica che Londra sia cara, con l’offerta 2×1 promossa dalla National Rail. Altre attrazioni sono parte di questo programma di offerte, come ad esempio il famosissimo museo delle cere di Madame Tussaud e la stessa Abbazia di Westmister, insieme a tante altre. Passeggiare sulla riva del Tamigi al tramonto è qualcosa di straordinario, come straordinario è godersi la vista del Tower Bridge da una pachina vicino al fiume, o il mondo attorno a Piccadilly Circus.

Come non menzionare Oxford Street poi, “l’arteria” della metropoli, e il cuore pulsante della città, meta di giovani e modaioli, il quartiere di Camden Town, con i suoi negozi e il suo caratteristico mercato di cibo proveniente da ogni parte del mondo. E proprio a proposito di cibo, non si può non accennare al Five Guys, che sebbene non sia proprio caratteristico come il rinomato fish and chips, è la catena di fast food più di qualità che si possa desiderare, se poi ci si aggiunge l’opportunità di poter riempire il bicchiere di cola ogni volta che si vuole; una capatina è d’obbligo.

Come obbligo è assistere al maestoso cambio della guardia a Buckingham Palace, momento solenne e “affollato”. Arrivarci attraversando uno dei vialoni che dal parco arrivano al palazzo reale, tra scoiattoli, tanto verde e migliaia di persone, è quasi un rito.

Un viaggio a Londra lo si potrebbe dedicare soltanto ed interamente alla metro che ha 150 anni di storia e si configura come un mondo parallelo caratterizzano da stazioni-opere d’arte, basti pensare alla King’s Cross con il binario 9 e 3/4, tributo alla saga di Harry Potter, il quale richiama milioni di fans accaniti da tutto il mondo, complice la presenza del negozio di souvenir accanto alla stazione.

Confessione di un sovrintendente alle zone sismiche

C’è un mito induista che si incarica di spiegarci la ragione per cui avvengono i terremoti: la terra poggia sulla groppa di colossali elefanti, le cui zampe a loro volta sono posate sui carapaci di una fila di immense testuggini. Le testuggini infine si reggono sul dorso squamoso di un cobra ancor più gigantesco. Quando una di queste bestie cosmiche si smuove appena, ecco che allora la terra smotta e trema, con crescente intensità a seconda di quante di esse siano occupate nel sommovimento in zone sismiche.

Qui da noi, a ben guardare, non ce la passiamo poi diversamente, sempre che si abbia voglia di calare la sopracitata favoletta indù nel contesto socio-politico nostrano, dove i pachidermi rappresentano la bulimica pesantezza della burocrazia, le tartarughe stanno per la lentezza reattiva dello Stato e il crotalo interpreta la corruzione serpeggiante, sulle cui soffocanti spire l’intera baracca si fonda.
Il giochino può anche apparire divertente, almeno sino a quando non realizzi che le cose davvero stanno così e che non è tanto la tettonica a placche a far crollare ponti, tetti e chiese, spesso sopra le teste di innocenti sottostanti. E neanche sono imputabili a un’ira superna, divina o diabolica che sia, i danni e le vittime del sisma. Più che altro la colpa è umana, parliamoci chiaro. La colpa è nostra. È mia.
E dire che lo sappiamo tutti che queste sono zone terremotate almeno da quando Dominiddio separò acqua e terre emerse e che prima o poi ci doveva ben ricapitare che il terreno ci sgroppasse sotto ai piedi come la schiena di un mulo imbizzarrito.

Eppure quando mi chiamarono quella famosa mattina dall’ufficio esponendomi testuali parole: «Ingegnere, c’è da dare il nulla osta per l’agibilità delle case giù al borgo, ora che hanno concluso i lavori di risistemazione» non è che mi fossi messo più di tanto una mano sulla coscienza, a voi posso dirlo. E se qualcuno avesse equivocato quel mio gesto frettoloso di tastarmi dalle parti del cuore, beh, in realtà era giusto per palpare la bustarella che mi ero infilato nella tasca interna della giacca, dopo che mi era stata allungata (con largo anticipo sull’assegnazione ufficiale della perizia) dall’imprenditore edile che, guarda caso, era lo stesso al quale era stata appaltata la messa in sicurezza del borgo in oggetto.
Andai, feci il sopralluogo, constatai che le varie strutture antisismiche erano state tirate su alla bell’e meglio e appiccicate insieme con lo sputo. Altroché scosse telluriche, quelle non avrebbero retto manco a una bomba d’acqua troppo intensa, ma… importava poco. Ripalpai la soffice imbottitura della bustarella che portavo vicina vicina al cuore. Senza più alcuna esitazione firmai in calce ai documenti, approvando in tal modo che il restauro era stato compiuto… a regola d’arte!

Per chi non lo sapesse, la filiera funziona così: il palazzinaro “vince” l’appalto grazie al generoso emolumento passato sottobanco al politico di turno (compreso il codazzo dei fidi scrutinatori), poi, tenendo conto di un esborso tanto salato, tenderà a portare avanti i lavori con materiali di risparmio, che incidano il meno possibile sul guadagno finale. Infine, affinché una tale porcheria passi il vaglio della pubblica sovrintendenza si vedrà costretto a prevedere un contentino anche per il funzionario preposto, che zitto e consenziente, prende e porta a casa. E così si va avanti. Del resto tutti quanti teniamo famiglia, un mutuo da pagare, il corso di tennis per il figlio maggiore, l’utilitaria nuova per la consorte, un collier di tanto in tanto per l’amichetta. Voi mi capite, no? Sarete uomini di mondo come me, spero non vi scandalizziate per così poco. Se te ne danno l’occasione, beh, è umano approfittarne, dico bene? Del resto è quella che fa l’uomo ladro, o almeno così si dice.

Quis custodiet custodes? Si domandava quell’antico filosofo: chi controlla i controllori?
La risposta è semplice: un cazzo di nessuno! Vi ricordate il cobra degli Indù di poco fa? Qua, più propriamente, si tratta invece dell’Uroboro, il serpente che si morde la coda. È un diallele, un circolo vizioso da cui la vedo dura venire fuori. I funzionari e l’intero apparato di controllo vengono selezionati mica perché bravi, preparati, acuti e integerrimi: tutto il contrario, belli miei! O almeno, la conditio sine qua non è che si prestino a far parte di questo dannato carosello senza fare troppe storie. È una selezione che viene naturale, è una selezione mendeliana, per così dire.

E allora? Come mettere in sicurezza le nostre zone sismiche? E per il futuro e la salvaguardia dei nostri figli?  Zero speranze? Se ancora attendete l’avvento messianico di un qualche spirito morale che, prima o poi, sovverta il sistema di sana pianta, riportando in auge professionalità e serietà, beh, state freschi.
Per come la vedo io, l’unica è che, col costante aumento delle tangenti richieste e i consequenziali tagli sempre più pesanti sui materiali impiegati, un giorno, neppure troppo lontano, si arrivi a ricostruire le case con cartone e colla vinilica, cosicché non siano neanche più un pericolo qualora cascassero in testa a chi ci abita dentro…

Quando a Roma arrivarono le Olimpiadi

DCLXXXVIII ab Urbe condita (688 anni dalla fondazione di Roma).
Si era al crepuscolo. La grande palla infuocata condotta dal carro apollineo si andava ormai spegnendo nel limpido fiume intorno al quale la città si era insediata e si era espansa, incendiando di giallo croco e di rosso porpora il travertino dei palazzi pubblici.

Entro uno di essi, il più sontuoso, protetto da una stanza un po’ fuori mano, in un’ala esterna, congegnata apposta per dare luogo agli incontri meno ufficiali lontano da occhi e orecchi indiscreti, l’imperatore attualmente in carica andava esaminando alcuni documenti. Conclusane via via la lettura, che sembrava trasmettergli una particolare soddisfazione, si sbrigava a bruciarli sospendendone un angolo proprio sopra la fiammella della candela di sego che aveva davanti a sé, ben attento che il fuoco appiccasse.
Lucio Domizio Enobarbo, in arte Nerone, era stato il primo a intravvedere la cornucopia di entrate che si doveva nascondere dietro i giochi olimpici, e ora, per il secondo anno, ne stava segretamente prelibando gli attesi frutti.

Le prime Olimpiadi di Roma: le Neroniane

Quando i capostipiti Romolo e Remo erano ancora intenti a sminuzzare una pelle vaccina e stendere torno torno le striscioline che ne erano venute fuori in modo tale da segnare i confini perimetrali della nuova città, la civiltà greca era già così avanti che da più di vent’anni ormai i suoi campioni gareggiavano ignudi nei giochi che si disputavano a Olimpia, lottavano, s’accapigliavano, tiravano giavellotti e dischi, si rincorrevano e si sbracciavano dentro le piscine col solo intento di primeggiare e raccattare onori e plausi.
Ma ci voleva un italiano per pensare di lucrarci sopra, anziché attenersi unicamente all’originale spirito agonistico. E siccome, anche se era l’imperatore, a Nerone non volevano concedere di spostare i giochi olimpici in altra sede, lui, glieli aveva copiati pari pari, organizzandoli però a Roma e zone circonvicine, e rinominandoli autopromozionalmente le “Neroniane”.

Con la scusa della novità, Nerone fece costruire a Roma ponti, strade, strutture, circhi, piste e stadi per ogni disciplina, commissionandoli ad amici fidati, ai quali già allora aveva assegnato i lavori presumibilmente convinto da qualche pesante regalia, insieme a promesse di spartizione dei profitti che ora gli si stavano concretizzando davanti agli occhi. L‘urbe era condita, appunto: quel tanto che bastava per mangiarsela a quattro palmenti già ai tempi. E il buon Nerone conosceva il giusto giro di commensali che sapessero quanta parte di banchetto… lasciare all’ospite.

Il trogolo era stato allargato per farvi accedere quanti più amici si potesse: mercanti e commercianti di pelli, tessuti e vestiti, privati addetti alla pulizia delle pubbliche strade, osti, grandi finanziatori (che davano prestiti con interessi da usura), ministri di culto, fornitori delle grandi derrate alimentari, imprese edili, avvocati e giudici, senza scordarsi senatori e rappresentanti del popolo. Così facendo Nerone si era astutamente assicurato un appoggio vastissimo. Anzi, tutti costoro, in alleanza coi molti tifosi che rappresentavano la gran parte della cittadinanza di Roma, non facevano che supportare e incalzare l’imperatore affinché nuove Neroniane si tenessero ancor prima della prevista scadenza quinquennale.
Nerone stava fregando tra loro le mani ben curate quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi di schianto, lasciando entrare uno spiffero freddo che corse a giocare coi riccioli che ancora gli rimanevano, a comporgli una coroncina intorno alla testa calva. Neppure si voltò, sapeva già chi fosse senza dover guardare.
«Ave Cesare!» sentì riecheggiare contro le pareti marmoree del piccolo andito, «Che vai facendo?» aggiunse la vecchia voce. «Guadagno», rispose evasivo Nerone, che già era passato a contare le monete, molte di esse con sopra la sua effigie in rilievo, che tracimavano da un grosso baule, poco prima depositato là dentro da due energumeni inviati in gran segreto da alcuni dei suoi “amici”, coinvolti negli affari olimpici, godendo del loro tintinnio ancor più che del suono che usciva dalla sua lira, quando ci si accompagnava durante i certami poetici. Neppure stavolta si voltò, ben presagendo l’espressione di biasimo che avrebbe riscontrato sul volto rugoso di quel vecchio stoico di Seneca. «Il bene comune dovrebbe essere l’unica tua cura!» lo rimbrottò Seneca, aggiustandosi indispettito la manica del pallium sopra l’avambraccio. «Non mi occorrono stupide prediche. Io sono il dio che governa le genti e le robe di Roma. Sono il caput del Caput Mundi. Come insegnano i tuoi vuoti sillogismi, sono perciò l’essere più importante al mondo. Che me ne fa quindi dei tuoi rimproveri? Saprò bene io quel che è giusto e quel che non lo è…», gridò, tacitando il filosofo, ma stavolta dopo avergli fatto l’onore di rivolgersi al suo indirizzo, «Piuttosto, non ho tempo da perdere, per quale ragione sei venuto a importunarmi?»

«La mia accademia,» spiegò Seneca, a mezza bocca, con l’occhio ancora accigliato, «Quelle elargizioni che erano state a suo tempo promesse per il suo mantenimento…»
Nerone non fece una piega. Afferrò un sacchetto, lo affondò nel forziere come si intinge il mestolo in un liquido. Lo risollevò che era pieno di monete. Ne strinse il laccio.
«Vedi? Guadagno anche per te» fece verso Seneca, con voce da gradasso, mentre gli tirava il bottino, che l’altro raccolse al volo, come un cane fa con l’osso.
«Per essere la voce della mia coscienza mi pare che tu scenda a compromessi un po’ troppo alla svelta…» lo congedò poi.

Seneca uscì nella fresca brezza della prima sera, mentre ancora finiva di assicurare il sacchetto alla cintola. Rimirò una volta ancora la bellezza di Roma, nel suo tripudio di colori caldi, la temperatura mite, il profumo di piante aromatiche nell’aria. Quella bellezza che sempre riusciva a rapire i suoi occhi, tuttora abituati alla bianca piattezza delle strade di Cordova, di cui era originario.
La città eterna, così bella e così corrotta! Come una vecchia puttana che celasse i molti morbi dovuti al mestiere dietro l’attraente maschera di una giovinetta innocente. Eppure, non c’era via di scampo per tentare di salvarla da quel destino immorale. Sarebbe valso le fatiche di uno stolido moralista che voglia recuperare un’etera all’onorabilità, rimanendo però lui invischiato dalla guasta vita della donnaccia.
Roma era questo: potere, corruzione, depravazioni, ignavia e puro degrado nascosti dietro una facciata fastosa.

Ci sarebbe voluto un movimento di cittadini onesti, sobri, integerrimi, capaci di preferire la felicità arrecata dal compimento della giustizia al triviale appagamento dei sensi, meditava appoggiando la spalla scoperta contro il muro portante del palazzo imperiale.
Anche quel movimento sarebbe stato facile preda delle temperie che da sempre e per sempre avrebbero afflitto la città, come una maledizione o una pestilenza inguaribile. L’unica maniera di scampare all’andazzo generale sarebbe stato rimanere sui propri convincimenti senza fuoriuscirne di un passo. Fermi. Fissi. Solidi. Inamovibili. Anche a costo della più assoluta immobilità, perché lì da quelle parti bastava anche solo una timida mossa per rischiare di mettere il piede in fallo e farsi travolgere.
La mancanza di ogni azione, paradossalmente, sarebbe stata la salvezza, risolse tra i fumi dei suoi pensieri.

Un movimento immobile, sorrise tra sé Seneca. Quel che in retorica si chiama un ossimoro: l’accostamento di due termini tra loro contrapposti. Mentre già il suo corpo scioglieva tutta la tensione muscolare nel fresco, piacevole venticello che spirava, come quasi ogni sera, giù dal Gianicolo, la sua mente fece ancora in tempo a celiare circa l’etimologia di quella parola d’origine greca, che quasi sembrava preannunciare il civis novus così concepito: ossimoro, da ὀξύς μωρός, come a dire… un acuto stupidone.

Tirana, un’aquila che si prepara a volare alto

Tirana: si apre il sipario, ed ecco una città appena nata. Del secondo dopoguerra restano in mostra il monumento ai caduti e una certa antichità del pensiero, di una mentalità divisa tra passato e presente, rinnovamento e conformismo. La capitale dell’Albania, con poco meno di un milione di abitanti, porta ancora lo strascico degli anni ’90, fatto di emigrazione, amara speranza e di quella strana rivincita sulla modernità dei paesi europei, con la fuga degli albanesi, i residui della dittatura comunista, e il mix (non sempre felice e gestibile) di religioni.

Tirana respira una frenesia da rilancio: sfrecciano macchine europee e non solo, brillano le vetrine delle boutique da sposa, e si alzano i profumi dei prodotti tipici del paese delle aquile. Come il Burek, dal sapore orientale, che gli esercenti vendono nei chioschetti ricordando la genuinità di un mercato urbano spezzato dai vertiginosi edifici di recente costruzione. Per non parlare del traffico: indomabile, è un’altra caratteristica della città, una piccola giungla da tenere sotto controllo, con l’aiuto dei vigili e una discreta dose di pazienza.

Tirana: la storia, il futuro

A Tirana il passato dittatoriale si è spento, e nella zona roccaforte del regime oggi si staglia –nel quartiere Block – il cuore della movida albanese, ricca di locali, pub e ristoranti che fanno invidia ai luoghi cult delle capitali europee. E alla forza austera senza grazia si contrappone l’armonia dei palazzi in costruzione, di hotel a quattro e più stelle e i parchi, come quello che sta sorgendo ancora attorno a Piazza Skanderberg: un monumentale progetto pedonale avviato a giugno 2016, tuttora in corso di svolgimento e voluto fortemente dai cittadini di Tirana. Il progetto porterà nella piazza tre elementi: la pietra sotto forma di lastre alte circa 10-12 cm, e provenienti dalle diverse regioni dell’Albania (da Tropoje e Kukës, Bilishti, Librazhdi, pietre calcaree di Tirana, Korca, Gjirokastër, Saranda, Berat, Valona, Kruja, Bulqiz, Prizren, Ersek, Skrapar), la ricca vegetazione con 900 alberi decorativi con fusto alto. Invece per le fontane e per l’irrigazione dei parchi verrà utilizzata acqua piovana. Il tutto accompagnato da un’illuminazione che bagnerà la piazza e gli edifici intorno, con l’utilizzo di pannelli solari e luce radiante.

Moschea di Tirana

Ma Tirana per chi vuole osservarla con attenzione, è molto più. Una cicatrice che orgogliosa non si vergogna di essere vivida su un’epidermide che resiste, come una rivincita sulla sconfitta, sul dolore di anni di sottomissione. Una promessa di novità e ottimismo. Ma è anche una grossa contraddizione. Accanto alla ricchezza di chi ce l’ha fatta, si accosta la povertà e la semplicità del vecchio, delle famiglie che vivono ancora in abitazioni in pietra, con bagno turco e poca luce. Basta camminare un po’ verso la periferia della capitale per vedere cani randagi che scorrazzano ovunque senza meta, strade sterrate, immagini e sensazioni che ci riportano ai film di Vittorio De Sica, Comencini ma anche a Mamma roma di Pier Paolo Pasolini.

Le contraddizioni

Tirana è la città delle contraddizioni: fresca e vivace, conformista nell’eternare le sue tradizioni come in una bolla di vetro, è la città del bazar dove tabacco e tè costano 10 euro al kilogrammo e gli odori intensi si mescolano alla frenesia dei pedoni. Tirana è anche folkloristica e ribelle: come i contadini ai margini delle vie che vendono ancora pannocchie arrostite e souvenir per turisti e le vetrine che mettono in mostra i negozi per cover di smartphone, molto amati dai visitatori. Le strade a volte, larghe e ampie, ricordano un po’ New York, così come i taxi gialli offrono lo spiraglio di una piccola metropoli divisa tra oriente ed Europa.

La capitale dell’Albania esercita sui visitatori il grande fascino dell’incontro. Difficile trovarsi spaesati, persi o soli a Tirana se in compagnia di qualche autoctono. Perché se c’è una cosa da notare subito, oltre alla tolleranza religiosa ultima conquista degli albanesi, è proprio l’accoglienza spontanea e fiera dei cittadini. Attaccata alle radici ma aperta al nuovo, come una roccia sul mare, Tirana è un’isola urbana: tutt’attorno sorgono ancora campagne e le colline così rudimentali e sole come se fossero dimenticate dal presente, ma così nitide agli occhi.

Fontana illuminata, Centro di Tirana

Credere in Dio è una scelta, ma anche la trasmissione di un messaggio esistenziale. E a Tirana è diretto e chiaro: oltre le vertigini del nuovo, la religione fa soffermare gli ancora pochi turisti che visitano la città per la prima volta: la moschea e la basilica ortodossa sono quasi dirimpettaie, così vicine e così pacificamente, affiancate, amalgamate. Tirana dove un euro vale 140 Lek, e con un basso costo della vita, si riesce con poco e il più è apprezzato. Mentre il ritmo della quotidianità, lontano dalle sfere cittadine, nelle aree rurali ci riporta ai nostri anni ’60, facendo sentire non poco la nostalgia di un passato italiano.

 

Fonti: http://www.tirana.al/projekti-i-sheshit-te-ri-skenderbej/

Varanasi, roccaforte della spiritualità mondiale

Varanasi, municipal corporation, di 3.682.194 abitanti, tra le più antiche agglomerazioni urbane al mondo.

 

“Si arriva a un momento nella vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono più dei vivi. E la mente si rifiuta d’accettare altre fisionomie, altre espressioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s’adatta di più”. [Le città invisibili, Italo Calvino].

L’India è per estensione, popolazione, etnie, per divisioni federali, religiose, di casta, più vicina all’essere un continente che non un semplice stato. A questa repubblica federale viene associato invariabilmente il concetto di spiritualità. Come tutte le affermazioni categoriche, davanti alle opportune contestualizzazioni, non regge. L’India di oggi, infatti, complici povertà ed occidentalizzazione di sogni e stereotipi, è una “zona grigia spirituale”. Queste persone percepite dai più come colorate, buffe e con una spiccata spiritualità, lo sono poi davvero? Più probabilmente, come in ogni luogo, c’è gente di ogni sorta e valore. Talvolta, ad esempio, e non così di rado, capita di assistere in India a sceneggiate di stampo partenopeo.

Nello stato dell’Uttar Pradesh sorge una roccaforte della spiritualità mondiale: Varanasi (Benares per gli anglofili), la città santa. Una metropoli di più di tre milioni e mezzo di abitanti che vive una inscindibile simbiosi con la Ganga, il fiume Gange; tale sincronia porta città e corso d’acqua ad essere nei fatti un’unica entità. Madre Ganga culla, attira, ritiene, irradia qualunque essere. Quasi fosse una seconda luna. L’unico modo di orientarsi nella parte vecchia di Varanasi è “sentire” la Ganga, altrimenti il dedalo di vicoli che si dipana dai Ghat (questo il nome dei templi per abluzioni che si tuffano nel fiume sacro) risulterà indecifrabile. A complicare le cose, oltre a persone, motociclette e biciclette, in quegli stessi vicoli sono incontri all’ordine del giorno quelli con vacche sacre, capre, galli, scimmie, rane.

 

Varanasi-foto scattata da Daniele Tartarone

Imperdibile il Kashi Vishwanath Temple dove tutti gli hindu si recano almeno una volta nella vita a rendere omaggio a Shiva a cui il tempio è dedicato. Potrebbe essere arduo per gli occidentali esservi ammessi, in base al servizio di sicurezza del giorno, ma con un po’ di insistenza e reiterati tentativi le meraviglie del più importante tempio induista potrebbero aprirsi a voi. Risalendo in direzione nord dall’Assi Ghat, il più a meridione, incontriamo numerosi altri Ghat. Luoghi di preghiera e aggregazione ma anche di festa e convivialità. Tutti con ampie scalinate che, sommerse con l’alta marea, con la bassa ci conducono in acqua.

Ogni anno decine di milioni di fedeli compiono pellegrinaggi a Varanasi. Durante lo Shivaratri, tra le più importanti celebrazioni hindu, gruppi di dozzine di persone in abbigliamento interamente arancione, il colore simbolo di Lord Shiva, corrono come forsennati per stradine larghe, di regola, intorno al metro e mezzo, incuranti di qualunque cosa travolgano, sempre bonariamente, intonando mantra a squarciagola. Numerosi i Sadhu (in seno ai quali tanti ciarlatani) che popolano strade e piazze.

Il luogo in cui l’energia della città raggiunge l’apice assoluto è il Manikarnika Ghat, quello adibito ai riti funebri. Una pedana lignea di una dozzina di metri quadrati, a pochi passi dal fiume, raccoglie anche cinque pire funerarie contemporaneamente. Non si usa più, per ragioni economiche, il sacro e profumato legno di sandalo, ma si cosparge legname a buon mercato con qualche pizzico di polvere di quel pregiato albero. Sulla pedana lavorano soltanto donne. A loro è affidato questo compito oltremodo delicato. A pira esaurita le ceneri vengono restituite a Madre Ganga. Nel culto induista si ritiene che morendo nella città santa si venga liberati dal ciclo delle reincarnazioni e si sia liberi di ricongiungersi con il Brahma. Ed ecco che poco distante dalla pedana crematoria si staglia a picco sul fiume un fatiscente edificio al cui interno chi volesse può recarsi ad aspettare la morte. E non pensiate di trovarvi tristezza, angoscia, malattia o miseria (se non economica). Per lo più anziani sorridenti pregano, chiacchierano e fissano la Ganga con benevola serenità.

Amsterdam, città dalle sfumature intermedie

Amsterdam: eccellente logistica e grandi parchi- La letteratura italiana, insieme a quella russa e francese, racchiude una galassia di materiale straordinario dove il lettore, in base alle proprie inclinazioni e necessità, può trovare, se sufficientemente dotato, qualunque risposta. Nel secolo scorso, una delle figure più splendenti del panorama letterario è stato Italo Calvino. Nella sua opera Le Città Invisibili, lo scrittore italiano ci trasporta letteralmente in dozzine di luoghi, di mondi. Vediamo rivivere Marco Polo, e raccontare; racconta al grande Kublai Khan, Marco. Ma ancor di più alla nostra anima. Calvino ci mostra come una città può essere immersa in un mondo surreale, dedicando implicitamente il suo libro ai frequentatori di luoghi onirici e caffè filosofici.

Inauguriamo questa rubrica dedicata alle città e ai viaggi con Amsterdam. Dice Calvino a proposito della capitale dei Paesi Bassi, nella sua Le Città invisibili:L’atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. C’è la città a forma di Amsterdam, semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell’Imperatore, dei Signori…”

Amsterdam riceve ogni anno più di venti milioni di stranieri. E’ quindi certo che buona parte dei lettori abbia visitato la città sull’Ij. Sono pochi, tuttavia, coloro i quali possono dire, in tutta coscienza, di conoscerla. Dal punto di vista logistico, gli olandesi sono tra i migliori al mondo a “vendere” le poche cose straordinarie che hanno. Questo nella città della tripla X si è tradotto in un vero e proprio “quadrilatero del turismo”. Un’area del centro cittadino, di estensione limitata, al cui interno c’è tutto quello che gli amsterdammer concedono di buon grado ai turisti (a prezzi non certo moderati). Tra Amsterdam Centraal, la stazione ferroviaria, e Museum Plein, rispettivamente a nord e sud; con Prinsengracht che scorrendo ne delimita i lati, c’è pane per ogni tipo di turista. Famiglie interessate alla casa di Anna Frank, diciottenni in cerca di facili emozioni, e tutte le sfumature intermedie. Ma questo è solo quello che Lady Amsterdam mostra ai più. Come tutte le donne di un certo spessore, questa città, indubbiamente femmina, cela le proprie doti migliori, rivelandole soltanto ai più meritevoli. Le meraviglie di Amsterdam sono nascoste dietro porte di palazzi del 1500, dentro sinagoghe e conventi, nella Concert Gebouw, nei parchi secolari. Sono nelle abitazioni degli amsterdammer, così diversi dal resto degli olandesi, ma pur sempre riservati e sospettosi, seppur esempio perfetto di tolleranza.

Nel già citato quadrilatero, il cui perimetro ha confini percettibili seppur non indicati, una sorta di circo iper efficiente si muove con goffa armonia, esaudendo desideri da poco in cambio di danaro, mostrando sempre una facciata pulita e sorridente, che si tratti di ristoranti, bar, discoteche, coffeeshop, smart shop, bordelli… Sul retro del circo succede di tutto, in un ambito che coinvolge strati sociali di diversi livelli, in quella che viene chiamata “The Big Hypocricy”.

Interfacciarsi con un luogo in cui le leggi non scritte sono di gran lunga più impattanti di quelle istituzionali può essere arduo. I pochi che abbiano provato, nella storia, a mettere catene e limitazioni a questa città sono stati sputati via. La politica coloniale, di estrema efficacia (tutto l’opposto di quella sciagurata messa in atto dall’Italia), ha portato un paese minuscolo (ad oggi meno di sette milioni di abitanti) ad avere avamposti in tre continenti: Sud America con il Suriname, Africa con il Sud Africa ed Asia con l’Indonesia. Insieme con l’influenza dei movimenti Hippie, e con l’architettura stessa (assolutamente unica) della città, funzionale agli scambi mercantili che per secoli l’hanno alimentata, hanno creato un humus al cui interno qualunque mescolanza è possibile: colori, razze, religioni, suoni, lingue, anime.

Exit mobile version