La scrittrice napoletana Clotilde Marghieri(Napoli, 1897 – Roma, ottobre 1981), non si è mai definita una professionista della letteratura, eppure si è dedicata alla letteratura con estrema passione, coraggio ed ironia di chi ha voglia di ricercare sempre e comunque la verità.
L’opera con cui esordisce è Vita in villa del 1960, nella quale l’autrice dimostra di conoscere non soltanto le piante e le erbe del suo giardino, ma anche i vizi, le virtù, i sentimenti, i difetti delle persone che la circondano: Filomena e Timoteo, il poeta cinese Chem-Shi-Hsiang, la duchessa X e la duchessa Carafa, l’autista dell’ambasciatore. La Marghieri offre una variegata galleria di ritratti attraverso un gioco di stile che sfocia a volte nell’ironico (ma sempre con garbo), altre nel patetico (ma sorridendo). La scrittrice partenopea si avvale di un dialogare spigliato, arguto, fatto di ammiccamenti che rendono la lettura ancora più piacevole e nella quale si percepisce l’amore della Marghieri verso i suoi luoghi, le sue genti, le sue cose, come una madre. Questo è Vita in villa, un libro d’amore celato sotto la sottile pelle del risentimento e del dispetto come lo ha giustamente definito Angioletti.
Sembra proprio ben fondata la teoria che vuole le donne realizzarsi meglio nella dimensione autobiografica, un esempio su tutte è Virginia Woolfe Clotilde Marghieri non si sottrae di certo, della quale possiamo collocare accanto a Gli anni della Woolf, Le educande di Poggio Gherardo del 1963, oltre a Vita in villa, naturalmente.
In questa sua seconda opera, la scrittrice è sottilmente ironica e solitaria nell’indagare sull’anima femminile; la narrazione comincia con l’entrata in collegio della protagonista, figlia di genitori difficili, amata molto dal nonno e dalla nutrice. Nel collegio la bimba dimostra di aver recepito le idee laiche ottocentesche del nonno, probabilmente scientificiste, sicuramente religiose, con una vena volterriana, la quale rappresenta una delle trovate più felici del racconto insieme alla natura estrosa della protagonista.
Tuttavia la Marghieri non insiste troppo su questo aspetto, le pagine in cui la bambina, di fronte ai smboli religiosi, si sente diversa dalle sue compagne tanto da indurle nel dubbio; a a tal proposito è emblematico l’episodio della Comunione, descritto con un realismo audace che avvia il racconto verso un altro tono, più drammatico che strizza l’occhio al sottile psicologismo di Marivaux. Non manca una certa curiosità di vita che la Marghieri utilizza per riempire il vuoto e l’ozio di un collegio di ragazze con i loro segreti amorosi, la loro sensualità inconsapevole, la loro ritualità. Dentro quest’aria barocca un cui è avvolto il collegio si respira quindi qualcosa di inconsapevole e di irriverente, ovvero il volterrianesimo, lo scetticismo, l’agnosticismo di Voltaire, oltre alla conturbante sensualità che si scontra con il puritanesimo.
Lo stile della Marghieri è ardito, duttile, scandaglia le anime delle adolescenti che si affacciano alla vita, nemmeno qui mancano efficaci ritratti colti nel sentimento più impalpabile.
Clotilde Marghieri è cresciuta nell’alta borghesia napoletana, ma lascia senza scrupoli il bel mondo privilegiato dei salotti per trasferirsi a Torre del Greco e narrare di storie quotidiane, di piccole battaglie, vivendo totalmente la sua indipendenza, la sua passione e il suo sdegno, dando vita ad un linguaggio che oscilla tra il classico e il parlato, facendo riferimento alla letteratura settecentesca europea per raccontare la gente del Vesuvio, calda come il suo Vulcano.
La scrittrice ha collaborato anche con giornali e riviste pretigiose quali “Il Mondo”, “La Nazione”, “Il Corriere della Sera”,“Il Mattino”, “Il Gazzettino”. Vince nel 1975 il Premio Viareggio con il romanzo Amati Enigmi.
Nato il 10 Febbraio 1898 ad Augusta, in Germania, da una famiglia borghese, Eugen Berthold Friedrich Brecht, più semplicemente conosciuto come Bertold Brecht, è stato uno dei personaggi più influenti del Novecento: drammaturgo, poeta e regista teatrale tedesco.
Influenzato dalla fede protestante della madre che segna la sua educazione linguistica e culturale, vive un’infanzia poco felice per i frequenti problemi di salute e per il carattere schivo (anche al liceo Brecht mostra un comportamento indipendente, anticonformista, polemico e tendente a primeggiare sugli altri).
Nel 1913 inizia a scrivere poesie. Negli anni a seguire la produzione poetica aumenta e quasi tutti i componimenti sono imbevuti di patriottismo, esaltando non solo il lavoro dei militari tedeschi durante la Grande Guerra, ma tutto ciò che è tedesco.
Al redattore Wilhelm Brüstle di certo non sfugge il suo talento, e lo paragona, in un articolo che è stato poi pubblicato negli anni seguenti, per la sua ventata di novità, a quella apportata da Baudelaire nella poesia francese.
Con la morte della madre avvenuta nel 1920 (in suo onore le dedica la poesia Canzone di mia madre) lo scrittore lascia Augusta per trasferirsi a Monaco, città che offre numerose possibilità culturali, soprattutto nel mondo dello spettacolo. Ben presto infatti Brecht si ritrova nella Lachkeller, La cantina delle risate, un gruppo diretto dal cabarettista Karl Valentin, che si esibisce in spettacoli clowneschi e canori.
La produzione poetica di Brecht è molto vasta e allo stesso tempo disordinata, spesso non raccolta in volumi. Le sue prime opere sono sicuramente influenzate da alcune correnti di pensiero come il dadaismo, il futurismo e in particolare l’espressionismo. Egli rielabora tutti i pensieri, ma in realtà non vede un mondo migliore, né una neo-umanistica fiducia nell’uomo.
Secondo Brecht la poesia non deve essere intesa come il più alto momento dell’attività intellettuale, ma un “utensile”, cioè uno strumento di azione e insegnamento. Ovviamente il tutto si riflette nella scrittura, nei versi che si misurano con la realtà (ricordiamo che i temi brechtiani trattano la cronaca) e di conseguenza non è ricercata la raffinatezza retorico-formale. La lingua è intesa come conoscenza, asservita ad un fine pratico di persuasione e dunque mai intesa come oggetto di interesse in se stessa. Va inoltre sottolineato che nella poetica brechtiana manca la figura dell’io e quando è presente è oggetto di riflessione e di analisi.
Nel 1922 viene rappresentata la sua prima commedia, scritta nel 1920; e nel 1927 esce la sua prima raccolta di poesie Hauspostille (Libro di devozioni domestiche). Tra il 1929 e il 1932 Brecht scrive vari drammi didattici in cui si propone di “trasformare” anziché interpretare la realtà. Dunque una forma di teatro volta esclusivamente all’insegnamento della dottrina marxista.
L’idea di Brecht è quella di creare una sorta di “racconto filosofico” impegnando dunque lo spettatore in un dibattito di idee, uno scontro tra tesi opposte. È di sicuro una delle novità nella storia del teatro, per poi arrivare successivamente all’idea di eliminare tutto l’impegno politico e partitico che non fa altro che soffocare il teatro; questo si rifletterà soprattutto nelle opere seguenti in cui Brecht si abbandona totalmente alla componente pedagogica, ricercando solo il divertimento che ormai concepisce come essenziale nel teatro.
Dal 1933 al 1947 risiede in esilio in Danimarca, Svezia, Finlandia, Unione Sovietica e Stati Uniti. Sono anni duri, ma anche quelli della sua produzione più nota; di quegli anni infatti ricordiamo Terrore e miseria del terzo Reich e La resistibile ascesa di Arturo Ui.
Accusato di avere idee comuniste, nel 1947, dopo essere stato interrogato dalla Commissione per le attività antiamericane, fugge a Zurigo rimanendovi un anno e ottenendo la cittadinanza austriaca. Qui mette in scena Antigone di Sofocle, tragedia scritta da lui e ispiratosi a quella sofoclea.
Negli anni seguenti si occupa quasi interamente di teatro, nonostante alcune rappresentazioni nelle città europee gli creano problemi con i vertici del partito SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands).
Muore nel 1956 a Berlino, seppellito secondo la sua volontà senza cerimonie, di fronte alle tombe di Hegel e Fichte e sotto una lapide dai contorni irregolari con incise solo le lettere del suo nome.
Brecht è curioso nei confronti del mondo e lo racconta con disincanto ed con un’ironia corrosiva che si diverte a demolire i valori tradizionali della borghesia guglielmina, attraverso la ricerca delle ragioni materiali che influenzano azioni e comportamenti degli individui. Sbocco naturale di tale posizione critica non può non essere una prospettiva sociologica, che da un lato mette a fuoco il tema della massificazione nella società moderna, dall’altro illustra la tesi anarchica e antiborghese proudhoniana della proprietà privata come furto ed ostacolo all’uguaglianza e il processo capitalistico di feticizzazione del denaro sorte dal felice incontro con l’estro musicale di Kurt Weill.
Non c’è spazio quindi per divagazioni psicologiche, le opere di Brecht spesso hanno come sfondo la fame, la miseria, il degrado, ma proprio in mezzo alla povertà, l’autore tedesco manifesta una sincera pietà per le vittime, per i poveri e gli emarginati. Si muove tra espressionismo e realismo lasciandosi influenzare dalle idee di Marx, fa resuscitare la ballata tradizionale con uno stile più semplice. Brecht non ha mai avuto paura di opporsi alle “verità assodate”, come quella oraziana che tiene onorevole morire per la patria, ebbene Brecht si è espresso in questi termini« Il detto che dolce e onorevole è morire per la patria può essere considerato solo come propaganda con determinati fini […] solo degli stupidi possono essere così vanitosi da desiderare la morte, tanto più che pronunciano simili affermazioni quando si ritengono ancora ben lontani dall’ultima ora. Ma quando la comare morte si avvicina, ecco che se la squagliano con lo scudo in spalla come fece nella battaglia di Filippi l’inventore di questa massima, il grasso giullare dell’imperatore».
Lo studio del marxismo, e l’ espansione dei suoi interessi ideologici, sono documentati dai cosiddetti “drammi didattici” (Das Badener Lehrstück vom Einverständnis, 1929; Der Jasager e Der Neinsager, 1929-30; Die Massnahme, 1930; Die Ausnahme und die Regel, 1930; Die Horatier und die Kuriatier, 1933-34
Le vicende politiche europee dall’avvento del nazismo allo scoppio della seconda guerra mondiale gli ispirano opere di appassionata denuncia (Die Rundköpfe und die Spitzköpfe, 1932-34; Die Gewehre der Frau Carrar, 1937; Die Gesichte der Simone Machard 1941-43).
Senza dubbio una delle sue opere più conosciute e di maggior successo è L’opera da tre soldi, sempre attuale, di graffiante ironia attraverso la quale l’autore narra la vita quotidiana anche sul piano musicale (senza enfasi e retorica), sebbene la trama manchi di una maggiore consistenza.
La maggior parte delle liriche di Brecht, come si è potuto notare, è quella di essere destinata al canto, allontanandosi in questo modo dalle suggestioni della poesia pura e del simbolismo, preferendo orientarsi verso forme narrative e drammatiche affrontando quasi sempre tematiche politiche e sociali. Brecht è un autore “impegnato” attraverso la poesia, non vuole allontanarsi dal mondo, ma avvicinarsi ad esso per modificarlo, avvalendosi di un linguaggio diretto e di facile comprensione.
Bertold Brecht, che si potrebbe identificare non come un artista ma come un filosofo della teatralità realista, ossessionato dal desiderio di dover raccontare la verità (aspirazione troppo ambiziosa), è andato oltre la contemporaneità, ha reso le poesie opere drammaturgiche, i testi teatrali spettacoli sportivi per avvicinare ancora di più il pubblico, invogliandolo a fare il “tifo” per quello che avviene sul palcoscenico (sostituendo la tecnica di immedesimazione aristotelica con lo straniamento brechtiano, ovvero fingere di non stare recitando). Il teatro deve stimolare lo spettatore all’azione secondo Brecht, il quale negli anni Cinquanta giunge alla formulazione di “teatro dialettico”, un modo di fare teatro certamente non accessibile a tutti. L’idea di base è quella di rappresentare solo gruppi di persone nei conflitti che esistevano in loro o tra di loro, ponendo la sua attenzione sui processi sociali a scapito (e forse questo potrebbe rappresentare il suo limite) di quelli individuali.
La scrittrice toscana Gianna Manzini (Pistoia, 24 marzo 1896 – Roma, 31 agosto 1974), intellettuale raffinata e sensibilissima, è tra le figure più interessanti nel panorama letterario italiano novecentesco. Autrice di frammenti lirici e sperimentatrice di forme aperte del testo, il suo percorso è caratterizzato da soluzioni originali ed innovative che la pongono al di là delle tendenze letterarie.
L’opera di GiannaManzini è stata immediatamente apprezzata dalla critica e da grandi intellettuali, in particolare da Giacomo Debenedetti e da Emilio Cecchi, sebbene sia rimasta per troppo tempo confinata all’interno di un pubblico ristretto. Oggi pare che possa finalmente essere riscoperta da una nuova rilettura delle sue opere anche grazie allo straordinario aiuto del suo archivio personale, che dipana nuove prospettive di ricerca e significati sui suoi testi.
Nata a Pistoia il 24 marzo 1896, da una altolocata famiglia della borghesia locale, i genitori di Gianna dopo diversi anni decidono di separarsi a causa di contrasti tra le idee anarchiche del padre e quelle di stampo conservatore della madre. La separazione dei genitori lascia una cicatrice indelebile nell’animo della bambina che con il passare degli anni si acuisce, soprattutto nei riguardi del padre, per il quale nutre del rimorso per non essergli stata vicino quando, per avere partecipato ad alcune cospirazioni al regime fascista, si ritira in un esilio volontario in un piccolo paese di montagna dove muore nel 1925 in seguito ad una premeditata aggressione fascista.
Nel 1914 si trasferisce con sua madre a Firenze, per completare gli studi, città che farà breccia nel cuore della scrittrice. Si iscrive e frequenta brillantemente i corsi di Letteratura presso l’Università di Firenze, senza sottrarsi al al vivace dibattito culturale nato tra la fine della Prima guerra mondiale e l’insorgere del Fascismo. Qui conosce Bruno Fallaci, responsabile della terza pagina del quotidiano la Nazione: i due si innamorano e presto convolano a nozze. Il quotidiano nella edizione serale pubblicherà di li a poco il primo racconto della scrittrice nel quale già è possibile notare la qualità e le ragioni della sua prosa.
Nel 1928 la Manzini esordisce con Tempo innamorato, accolto positivamente, come una ventata di novità dalla critica, e anche da scrittori europei, primo fra tutti, Gide. Incomincia a collaborare alla rivista Solaria, e in questo ambiente colto e sempre attento ai nuovi talenti conosce Prezzolini, De Robertis e il giovane Montale che a proposito del primo libro della Manzini scrive “ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano”. Con qiesto romanzo la scrittrice dimostra di avere quel difficile gusto che era connaturato già ad un suo modo scintillante ed intenso di interpretare la realtà: invece di una rappresentazione oggettiva, di una fedele riproduzione ed imitazione di essa, la Manzini ne dà i suoi sottili riflessi, intercettati da una sensibilità inquieta e a tratti perfino morbosa. Non è un caso che l’autrice toscana sia stata definita da Cecchi“complicata e un pò abbagliante”.
Sul suo gusto, senza dubbio, hanno influito le sollecitazioni della narrativa europea rappresentate soprattutto da Virginia Woolf. Qualche critico si è ricordato anche di Federigo Tozzi; ma tutto quello che in Tozzi era chiuso e odorava amaramente di terra, nella Manzini si schiarisce, si illumina sotto il segno di un asciutto grafismo stilistico.
La carriera di Gianna Manzini prosegue a gonfie vele: nel 1930 è l’unica donna scelta da Enrico Falqui e da Elio Vittorini per l’antologia Scrittori Nuovi, lascia il marito per trasferirsi a Roma con Falqui, con il quale fonda la rivista Prosa che ospita gli scritti di Virginia Woolf, Thomas Mann, Jean-Paul Sartre e Paul Valéry.
Incomincia per la Manzini a Roma anche una frivola attività di cronista di moda, prima sul Giornale d’Italia, poi su il settimanale Oggi. Nel 1945 scrive una lettera all’Editore, lettera che segna il punto più alto dei suo lirismo estetico, nel 1953 conosce Pasolini e prepara un nuovo romanzo, La Sparviera che nel 1956 si aggiudica il Premio Viareggio. Il romanzo le cui pagine iniziali sono tra le più belle della letteratura del ‘900, narra della malattia polmonare che la Manzini aveva contratto da bambina e che l’accompagnerà fino alla morte. I fantasmi dell’infanzia sono presenti anche nel suo ultimo romanzo, Ritratto in piedi (1971), con il quale vince il Premio Campiello.
Gianna Manzini frequenta assiduamente il salotto letterario della sua amica pittrice Alis Levi, uno dei salotti letterari più importanti della seconda metà del secolo. In Album di ritratti Mondadori, 1964 la scrittrice dedica all’amica una delle sue pagine migliori.
La personalità della Manzini si è formata in una linea di interiore coerenza espressiva, su una tematica che esplora una zona segreta della nostra anima, in questo senso si può dire che ogni opera della scrittrice toscana sottointenda una sorta di diario intimo che scandaglia la solitudine morale. Fantasia fanciullesca, maturità, sapienti incastri narrativi, folgorazioni impressionistiche consentono al lettore di entrare di sfuggita, quasi come fosse un intruso nel mondo borghese della sua infanzia. Gianna Manzini è “un’artista” intuitiva, non persuasiva; gioca con notazioni di psicologia e biografia, dando vita ad una tecnica sostanzialmente “non narrativa” o meglio una narratività tutta scoperta e spiegata.
Il nome di Paolo Buzzi (Milano, 15 febbraio 1874 – Milano, 18 febbraio 1956), figura tra i primi “manifesti” di Marinetti e potremmo tranquillamente inserirlo nella tradizione del filone lombardo che ha iniziato con la Scapigliatura e termina con il Futurismo, assumendo una fisionomia nuova: ottimista e fiduciosa nel progresso.
Nato in una famiglia borghese ma con origini legate alle antiche corporazioni familiari, Buzzi si inserisce in una temperie culturale che vede da una parte, gli scapigliati contro quell’etica tipicamente borghese, dall’altra l’ azione del primo socialismo e l’energetismo marinettiamo che vuole dare una voce politica alla civiltà moderna delle macchine.
Paolo Buzzi è un uomo serio, ottimista e con tendenze celebratorie che si ritrovano in tutta la sua opera, dalle “Rapsodie leopardiane” di stampo classicista alle liriche di “Aeroplani” di tendenza futurista, opere caratterizzate da immagini barocche , simboliste, decadenti e dannunziane. I versi di Buzzi sono evocativi, descrittivi o narrativi, liberi o chiusi; i suoi discorsi, come ricorda Giovanni Titta Rosa in Vita letteraria del Novecento, <<più che su argomenti d’arte o di poesia, volgevano di preferenza sulle questioni pratiche, sociali, assistenziali, umanitarie o benefiche della sua carica; una preferenza che pareva ostentata, ma era invece naturale, perchè attingeva aquella serietà di fondo, comune alle sue funzioni di amministratore e alla sua “professione” di poeta>>.
Il poeta lombardo si è imposto nel panorama letterario italiano con lo scandalo provocato negli ambienti ufficiali dalla sua Ode ad Asinari di Bernezzo, il generale colpito da severi provvedimenti per aver tenuto un discorso interventista ai suoi soldati. L’ode portò all’ arresto di Marinetti e dei suoi seguaci. Tra le liriche più orignali ed interessanti di Buzzi figurano: Versi liberi (1913), che al programma dell’anarchico ed egotista Lucini del verso libero andava sostituendo la marinettiana parola in libertà, e L’elisse e la spirale (1915).
Nella prosa il romanzo L’esilio (1905) narra la storia della crisi spirituale della borghesia milanese, crisi che si sviluppa in direzione futurista con La danza della iena (1920) e La luminaria azzurra (1917) in bilico tra i mitologia futurista della città e della velocità e ansia di un racconto che vuole essere contemporaneamente epico, eroico e storico.
Con Bel canto (1916), PaoloBuzzi intende celebrare le virtù tradizionali accostandosi ad un tipo di poesia civile e oratoria, proseguita nei Carmi degli augusti e dei consolari (1920), dove il poeta esalta le grandi figure del Risorgimento, una su tutte quella di Garibaldi.
Buzzi non si fa mancare nulla collabora anche alla fondazione di Roma futurista, alla formazione dei Fasci politici futuristi e fonda nel 1920 il giornale Testa di ferro, il quale, naturalmente, si propone di integrare temi futuristi con quelli eroici e lirici fondendole col mito dell’eroismo guerriero. La sua attività letteraria è prolifica e prosegue con molte opere in versi e in prosa, tra le quali i Canti per le chiese vuote (1930), Echi del labirinto (1931), Canto quotidiano (1933) .
Il poeta svolge anche un’intensa attività teatrale: dalle Sei sintesi sceniche (1917), a Stornellata del 1932, versi liberi, da Il volto della vergine (1936), a La principessa lontana (1938) e a La caccia al lupo dello stesso anno, musicati da Camussi.
Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871 – Parigi, 18 novembre 1922) è un nome che evoca un concetto tanto caro a noi esseri umani, il tempo. Tempo che è stato cercato, rincorso, cristallizzato da Proust, uno dei più grandi scrittori che la letteratura abbia mai partorito, che ha vissuto per la letteratura, che l’ha definita la forma più vera di vita. Nessuno come Proust ha approfondito con tale finezza la psicologia con un grande senso della relatività, una sorta di meccanica quantistica che gli consente di rappresentare a più livelli lo stesso personaggio facendo vivere al lettore un’intensa esperienza conoscitiva, come dimostra il suo capolavoro Alla ricerca del tempo perduto.
Proust nasce ad Auteil, elegante sobborgo di Parigi in una famiglia dell’alta borghesia (il padre, Adrien, noto medico, la madre Jeanne Weil, figlia di un agente di cambio israelita), cresce in un quasi morboso attaccamento verso la madre (descritto anche nella sua opera) in un ambiente ovattato dalle più tenere cure da parte della famiglia. Egli è molto legato anche alla nonna materna, Adèle Weil, ed è stata proprio la sua morte, nel 1890, a spingere il romanziere a scrivere la celebre pagina sulle “intermittenze del cuore”, quegli inviti della memorie, quel risorgere di un tempo perduto che ci rende felici in quell’attimo.
Trascorre spesso le estati a Illiers, luogo d’origine della famiglia paterna (la celebre Combray del romanzo). Nel 1882 comincia a frequentare il liceo Condorcet, dove fa buoni studi e stabilisce solide amicizie con giovani che poi lasceranno un nome nel panorama letterario del loro tempo: Fernand Gregh, Daniel Halévy, Daniel de Flers. Nel 1889 – 90 è ad Orléans per il servizio militare: sono gli anni della sua amicizia affettuosa con Gaston de Caillavet. Tornato a Parigi, frequenta i corsi di Albert Sorel all’Ecole des sciences politiques e quelli di Henri Bergson, che da poco ha pubblicato la sua tesi sui Dati immediati della coscienza, alla Sorbona. Laureato in lettere nel 1892, si reca spesso, d’estate, sulle spiagge normanne, Trouville e soprattutto Cabourg, che diventerà nel romanzo Balbec.
Inizia negli eleganti e raffinati salotti parigini, la sua attività di scrittore; collabora con giornali come “Le Gaulois” e con riviste come “Le Blanquet” e “La Revue Blanche”, sempre assente dalla Biblioteca Mazarine dove è stato assunto nel 1895 come addetto non retribuito. Proust vive ora la sua scintillante stagione mondana, conosce scrittori dandy, artisti e grandi dame, nobili come Robert de Montesquiou, musicisti come Reynaldo Hahn che metterà in musica alcune sue poesie e diverrà, nel romanzo, l’ispiratore di Vinteuil, il pittore Blanche e l’acquarellista Madeleine Lemaire che illustra il suo primo volume, I piaceri e i giorni, uscito nel 1896.
Avvicina anche Oscar Wilde, di passaggio a Parigi. Di questi anni è anche l’inizio del primo romanzo autobiografico, Jean Santeuil, che uscirà postumo nel 1952. Tra il 1896 e il 1897 uno scrittore decadente ed anch’egli omosessuale come Proust, Jean Lorrain, lo attacca con critiche volgari e allusioni in un paio di articoli e considera I piaceri e i giorni“eleganti e squisiti piccoli nulla, vanità, flirts per procura”. Ne viene fuori un duello alla pistola, per fortuna senza danni. Importanti eventi spingono intanto lo scrittore a una riflessione più approfondita sui grandi temi che già occupano la sua mente. Nel 1894 scoppia il caso Dreyfus e Proust, diventato sostenitore dell’ufficiale ebreo accusato di tradimento, vive questi eventi con assoluta partecipazione e ne trae nuovi spunti di riflessione etica e socio-politica.
Nel 1900 si reca a Venezia e a Padova dove rimane profondamente colpito dagli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Traduce, intanto, alcune opere dell’inglese Ruskin (La Bibbia d’Amiens, Sesamo e i Gigli che usciranno tra il 1904 e il 1906) ed affina il suo gusto estetico. Tra il 1903 e il 1905 muoiono il padre e la madre. Proust vive i due eventi con profonda angoscia, ma trova in essi l’occasione per lasciare spazio ad una più libera manifestazione di sé, il modo di far cadere fra l’altro le ultime remore che finora lo hanno spinto a tener nascosti i suoi costumi omosessuali.
Lottando contro la sua fragile salute, contro gli attacchi d’asma, lo scrittore francese procede all’ elaborazione della sua opera centellinando le sua forze per portarla a buon fine, rinunciando al ‘mondo’ che amava per non sprecare nemmeno un po’ della sua vitalità, avvalendosi delle sue inquietudini per affinare la conoscenza di se stesso e degli altri. Fino alla morte Proust non vive che per la sua opera, in una triste relegazione. Il racconto è interamente soggettivo e mescola l’autobiografia ai ricordi di un osservatore.
Proust ha dato vita ad un nuovo flusso narrativo rifondando il romanzo su basi diverse rispetto a quelle della tradizione ottocentesca-naturalista. Il romanzo novecentesco disocculta la realtà, mettendo in rilievo la visione onoica e deformata della realtà dei suoi protagonisti. La crisi del Positivismo, la “rivoluzione epistemologica” provocata dal pensiero di Bergson, Nietzsche e Freud, la diffusione di teorie fisiche, come la relatività di Einstein, l’irrompere della concezione dell’inconscio, il crescente senso di disadattamento e di alienazione dell’intellettuale negli anni dell’Imperialismo, della guerra e del dopoguerra, con la sua crisi di identità hanno introdotto nuove tematiche nell’immaginario degli scrittori: la nevrosi in Svevo, la memoria, appunto, in Proust, la malattia in Thomas Mann, la dimensione onirica in Kafka, “l’uomo senza qualità” in Musil, l’inettitudine in Svevo, Tozzi e Pirandello.
Proust è senza dubbio uno dei maggiori rappresentanti del romanzo moderno, in quanto oltre che un autore di crisi è anche un autore in crisi. Irrequieto ed emotivo, Proust, amante del mondo aristocratico, uno snob vittima del suo snobimo e dandismo, affronta temi drammatici in maniera cerimoniosa; come ha giustamente notato Anatole France, Proust<<si diverte a descrivere allo stesso modo lo splendore desolato del sole morente e le vanità irrequiete della sua anima snob>>.
La profonda emotività ed irrequietezza di Proust, non derivano solo dal carattere sensibile dello scrittore, ma hanno radici precise: è bene porre l’attenzione sull’importanza dell’ identità in Proust e più specificamente sul connotato ebraico il quale funge da rivelatore di quell’atteggiamento di sfiducia e di autocritica che spesso sfocia dell’autostroncatura. L’ebraismo, dunque, come ha constatato lo studioso Alessandro Piperno, appare nel mondo proustiano, come “sintomo e sinonimo d’una mancanza ancestrale”, come “mancanza d’abissalità”, di quella “assenza di profondità” di cui i razzisti ariani hanno spesso accusato gli ebrei.
L’ansia di piacere e di essere stimati in effetti costituiscono il marchio del vizio congenito degli ebrei, ma Proust (per metà ebreo e per l’altra cattolico) vuole allontanarsi da questo atteggiamento altrimenti non sarà possibile essere libero e sincero. L’ansia di cui soffre Proust semmai è quella dello scrivere e di voler cogliere ogni singola sfumatura delle cose, nel volter rappresentare la tragedia in luoghi suggestivi e bellissimi. Tuttavia lo scrittore francese ha sempre desiderato di sentirsi pienamente accettato da quella società nella quale invece non lo accolse mai se non in modo superficiale (come la sua famiglia del resto che gli era ostile anche in virtù della salute precaria dello scrittore, dato che soffriva di asma), facendo ostruzionismo al suo mestiere di scrittore.
Anche la scrittura di Proust risulta indefinibile, incompiuta, che ci svela un Proust fustigatore di atteggiamenti non autentici, che ci lascia scoprire la verità attraverso un’incessante ricerca.
La solitaria e “antipatica” (come si definiva lei stessa) Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998) è stata una scrittrice di rara sincerità, forse è proprio per questo suo modo di essere che, quando era in vita, era poco ascoltata, e oggi quasi per nulla ricordata. Il suo vivere deliberatamente in solitudine e il suo carattere riservato che non si sposava affatto con la mondanità sono da considerare soprattutto in riferimento all’insofferenza della Ortese per i circoli letterari, le apparizioni in pubblico, le promozioni editoriali e i salotti culturali.
Questi aspetti (spesso noiosi) che fanno parte della vita di uno scrittore in realtà contribuiscono in buona parte al successo di un’opera, intendendo però qualsiasi opera, anche non di qualità se pensiamo soprattutto ai successi improvvisi ed effimeri di alcuni “scrittori” che utilizzano selvaggiamente il web per promuoversi, nonché alla mediocrità di certi eventi letterari. Anna Maria Ortese avrebbe mal sopportato tutto questo ma bisogna anche ammettere che molte volte il carattere di uno scrittore ha determinato anche se poco la buona o cattiva riuscita di un libro da un punto di vista commerciale. Farsi conoscere quanto più è possibile se si ha talento non è certo un male e accusare sempre l’ambiente culturale, gli addetti ai lavori e gli accademici di fare ostruzionismo non del tutto realistico, sebbene nel caso della Ortese ciò abbia un fondo di verità.
La scrittrice romana è stata osteggiata inizialmente da una platea maschile di letterati criticata a sia volta dalla Ortese in Il silenzio della ragione,e poi costretta a chiedere di usufruire della Legge Bacchelli per sopravvivere alla miseria, condizione che oltre ad umiliare la persona umilia la letteratura stessa. Ma la Ortese ha saputo lottare con dignità, ma non facendo la rivoluzionaria, bensì rinnovandosi, nella forma e nella sostanza, lasciando parlare al suo posto i propri libri che mettono a nudo l’anima della scrittrice, nonostante ella non abbia mai voluto piacere per l’immagine che la rappresentava.
Ma come si “palesa” l’anima di Anna Maria Ortese?Cosa ci dicono le parole contenute nei suoi libri? Prima di tutto si percepisce uno stretto legame con realtà, quella realtà con la quale la scrittrice era sempre stata in polemica, ma anche un desiderio di giungere al bene, all’amore e alla giustizia. In bilico tra realismo e surrealismo che ricorda il realismo magico di Garcia Marquèz e di Bontempelli (che tenne a battesimo la scrittrice), la Ortese si contraddistingue per un potente autobiografismo lirico mai influenzato da canoni ideologici e poetici, partendo dalle esperienze dolorose.
Prendiamo in esame il libro Poveri e semplici del 1967, un meraviglioso racconto di atmosfera da bohème, che si muove tra l’esistenzialistica e comunistica, un racconto fatto di tanti nomi e luoghi che trovano riscontro nella realtà e precisamente nella città di Milano, dove si svolge la vicenda. Qui, persino le discussioni politiche appaiono incerte, scivolando in chiacchiere di svago, tale aspetto insieme a ai personaggi che appaiono scompaiono non sembrando affatto figure determinanti del racconto, rende Poveri e semplici un libro di incanto, di invenzione che però non sfocia nel sogno.
Anna Maria Ortese trasporta la realtà in una dimensione tutta sua come dimostra già uno dei suoi primissimi romanzi Angelici dolori, opera che trasuda patetismo sentimentale e istintivo realismo.
In Il mare non bagna Napoli la scrittrice trova un felice compromesso tra realtà e fantasia fotografando la meravigliosa confusione di una città particolare ed unica come Napoli cogliendone le più disparate e differenti voci affidandosi ad un’ agile scrittura “giornalistica”, in L’iguana l’autrice si lascia andare ad una fantasia carica di simbolismo. Ma l’opera più significativa della Ortese è senza dubbio Il porto di Toledo, romanzo che si aggroviglia giocosamente su molteplici dimensioni spazio-temporali.
Minor fortuna hanno i romanzi Il cappello piumato (1979), Il treno russo (1983) e In sonno e in veglia (1987). Ma gli ultimi anni riservano delle belle sorprese alla scrittrice: Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996), hanno un ottimo riscontro sia di pubblico che di critica. Successivamente pubblica testi poetici come La luna che trascorre. Tra le ultime pubblicazioni, appare la riedizione del secondo libro della scrittrice, L’infanta sepolta, e la ristampa di due racconti giovanili raccolti in Il monaciello di Napoli (2001). Nel 1997 finalmente la giuria del premio Campiello le assegna il meritato riconoscimento alla carriera.
Figlio di una agiata famiglia ebrea borghese, Giorgio Bassani nasce a Bologna nel 1916: negli anni della formazione si iscrive alla facoltà di Lettere di Bologna, dimostrando una mentalità aperta alle contaminazioni che fioriscono in quell’ambiente. Si dimostrerà infatti particolarmente vivace nei rapporti con altri esponenti non solo letterari di metà novecento, come Bacchelli, Longanesi e Morandi. Negli anni trenta Bassani si cimenta quindi con le prime prove di scritture: “Nuvole e mare” e “I mendicanti” vengono pubblicati nel 1936, suscitando l’apprezzamento di Roberto Longhi, suo grande maestro. Successivamente attiva una proficua collaborazione con la rivista “Il padano” : in questo periodo si accosta a quello che dichiarerà essere il suo principale ispiratore, ovvero Benedetto Croce.
Nel 1937, a causa delle leggi razziali, inizia a dedicarsi all’attività antifascista: tutti gli ebrei sono costretti ad emigrare e anche Bassani, diventato professore quello stesso anno, dovrà esercitare la sua professione nella scuola del ghetto ebraico di Ferrara.
Nel 1940, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, pubblica “Una città di pianura”: con uno stile lirico descrive la decadenza della borghesia e quest’opera sarà la definitiva prova giovanile prima di convicersi a calcare completamente la strada della scrittura.
Nel maggio del 1943 viene condotto in carcere, con l’accusa di antifascismo: vi resterà per poco meno di due mesi, visto che nel luglio di quello stesso anno il fascismo vedrà la sua fine. L’esperienza del carcere lo segna profondamente, infatti scrive lettere piene di malinconia e amarezza, che veranno pubblicate nel 1984 sotto il titolo di “Di là dal cuore”.
Segue il matrimonio, ostacolato però dalle pesanti ristrezze economiche e dall’ansia della liberazione anglo americana: nei periodi successivi si dedica alla poesia e a varia collaborazioni con riviste e biblioteche: nel 1948 gli viene affidata la redazione di “Botteghe oscure”, dove Bassani limerà il suo sprito critico.
Nel 1956 pubblica “Cinque storie ferraresi”, con cui vince il Premio Strega: storie che poi confluiranno nell’edizione definitiva de “Il romanzo di Ferrara” del 1980. Tutte le storie sono contrassegnate da un senso di esclusione e di amarezza, dettati dall’esperienza negativa che ha subito con il fascismo. Negli anni cinquanta diventa amico di Pasolini e si cimenta anche in rielaborazioni cinematografiche: scrive sceneggiature per Mario Soldati e collabora con Pasolini nella sua “Ricotta” del 1963.
Nel 1962 pubblica il suo romanzo più noto, “Il giardino dei Finzi Contini”, che lo consacrerà nel pantheon della letteratura italiana: romanzo da cui, diranno i critici, emerge tutto il vero Bassani, la sua testimonianza memoriale, la sua prosa equilibrata e tutta la sua esperienza politica e sociale. I rapporti con la neo nata “Officina 63” si fanno difficili: critica il libro “Fratelli d’Italia” di Arbinio e quindi risente di un allontamento da un certo ambiente letterario, ma non lo scoraggia nella produzione. Nel 1964, infatti, pubblica “Dietro la porta”, nel 1968 “L’airone”(che rappresenta un punto di svolta nel percorso letterario dello scrittore, data l’eliminazione della barriera spazio-temporale tra l’io personaggio e l’io narrante ) e numerosi saggi, con cui completa la sua produzione letteraria. In questi anni gli vengono assegnati numerosi premi e entra anche in politica, diventando presidente di “Italia Nostra”, allontanandosi dal PCI e avvicinandosi ai repubblicani.
Gli ultimi anni sono dedicati alla revisione delle sue precedenti opere: “L’odore del fieno” del 1972, è infatti una revisione di testi e poesie già pubblicati nei suoi numerosi saggi. Nel 1972, sempre nell’ambito delle revisioni, esce “Dentro le mura”, una edizione riveduta e corretta delle “Storie ferraresi”. Nel 1977 pubblica “Epitaffio”, ovvero un insieme di componimenti e versi che seguono il suo antico filone lirico, inaugurato in gioventù. Non apprezzerà, poi molte delle rielaborazioni cinematografiche dei suoi romanzi (come “Gli Occhiali d’oro” e “Il giardino dei Finzi-Contini”), perché non si rivela mai convinto della congiunzione tra soggetto romanzesco e soggetto cinematografico.
Muore a Roma nel 2000, dopo aver ricevuto molteplici onorificenze, tra cui una laurea honoris causa a Ferrara e 1993 viene organizzato un convegno in suo onore come risarcimento simbolico dell’allontanamento patito nel 1938.
Il merito letterario di Giorgio Bassani sta nell’essere riuscito ad esprimere un punto di vista totale sulle questioni storiche e sociali non affidandosi al realismo ma alle istanze novecentesche di Proust, Joyce, Kafka creando delle tensioni drammatiche estreme in maniera analitica, senza riscontrare identificazione tra vita e arte, ponendosi in questo modo, agli antipodi delle avanguardie. Inevitabili sono stati gli attacchi nella prima metà degli anni Sessanta da parte della critica marxista e della neoavanguardia nei confronti di Bassani; ma si è trattato di attacchi di natura prettamente ideologica, un pò come è avvenuto nei riguardi di Carlo Cassola.
Secondo il critico Ferretti il tema dominante delle storie bassaniane è quello “dell’individuo solo, incomprensibile, isolato in una realtà non modificabile, in un mondo ostile e inesorabilmente uguale a sè stesso” (G. C. Ferretti, “Bassani e Cassola tra idillio e storia”). Ferretti prosegue la sua analisi bassaniana ponendo la sua attenzione sulla concezione delle storia che ha lo scrittore bolognese: “la mancanza di una matura coscienza storica spiega l’istanza genericamente moralistica di Bassani, che, se mostra acutezza nello scandagliare il suo cosmo ferrarese, lo fa sempre e solo fino ad un certo punto”.
Il critico non ha tutti i torti, Bassani sembra non essere molto toccato dagli eventi storici, non li rende influenti per i suoi personaggi enigmatici; ma probabilmente questi personaggi che vivono un profondo conflitto tra l’elemento tragico e quello epico, come ha giustamente notato Italo Calvino, non hanno dei giudizi critici sulla Storia perché non la comprendono fino in fondo.Cogliere una particolare dimensione interiore del personaggio e la sua incomunicabilità non può rappresentare un limite per uno scrittore nè una tendenza da essere oggetto di dileggio da parte dei detrattori di Bassani (il quale rifiuta eticamente il concetto stesso di avanguardia)che lo reputavano uno scrittore mediocre.
Nel 1973 Bassani risponde a Ferretti dalla pagine de “Il mestiere di scrittore” di F. Camon: “Invece di scendere sul mio terreno, e leggere i miei testi, Ferretti applica, a me, schemi che non sono i miei.”
Come dare torto a Bassani…Il difetto di molti critici sta proprio nel non cercare di entrare nel mondo di chi scrive una storia, lasciandosi imbrigliare dal gusto, dalle tendenze dell’epoca, dal clima culturale vigente. Semmai, il “limite” dello scrittore potrebbe essere quello di non aver aperto le porte della scrittura introspettiva al mistero.
(Vicenza, 27 luglio 1907 – Londra, 12 novembre 1974)
Scrittore e giornalista italiano, Guido Piovene nasce a Vicenza nel 1907 da una famiglia di nobili. Si avvia senza indugi alla carriera giornalistica, incominciando a collaborare con <<Il Convegno>> e <<Pegaso>>. Nel 1935 entra a far parte de <<Il Corriere della sera>> (per il quale lavora come corrispondente estero a Parigi e Londra) per poi passare a <<La Stampa>>, del quale è collaboratore fino alla fondazione, con Indro Montanelli e altri, del quotidiano milanese <<Il Giornale>> (1974). Collabora più avanti anche con <<Solaria>>, <<Pan>>, <<Il Tempo>>.
Nel 1931 pubblica i suoi primi racconti: “La vedova allegra” e dieci anni dopo “Lettere di una novizia”.L’opera di Piovene varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione (in un secondo momento della sua produzione infatti, la sua attenzione si rivolge ai reportage di viaggio; ricordiamo a tal proposito il “De America” del 1953 e “Viaggio in Italia” nel 1957, una delle sue opere più famose), al racconto, al romanzo, è quella di uno scrittore- saggista formatosi a metà strada tra un cattolicesimo sensuale, dal sapore fogazzariana, e un illuminismo che si ispira ai moralisti e ai romanzieri francesi del Sei-Settecento; e fondendo queste due peculiarità in un suggestivo freudismo esistenzialista (riferendosi specialmente a Nietzsche).
Nel 1968 è presidente della giuria della Mostra internazionale del cinema di Venezia, ma la massima riuscita della mai dimenticata introspezione psicologica dei personaggi la ottiene grazie al romanzo del 1970 “Le stelle fredde”, dove una trama asciutta, ridotta all’osso fa da cornice ad un’acutissima analisi della morale.“Le stelle fredde”è stato insignito del premio Strega nello stesso anno, ricevendo consensi positivi anche dal pubblico.
Al centro delle riflessioni di Piovene, come si è accennato, vi sono il declino morale e quindi anche umano, l’aspetto psicologico,i costumi della provincia, un’ ambigua e repressa sensualità che nasce dal sentimento religioso. Sono tutti elementi che danno consistenza alla complessità del personaggio-io proposto dallo scrittore vicentino.
Tuttavia “Le stelle fredde” che insieme a “Lettere di una novizia” costituisce l’opera più nota di Piovene, offre diverse chiavi di lettura da quella psicoanalitica (sebbene in questo romanzo Piovene cerca di “purificare” la narrazione da risvolti psicoanalitici) a quella semiologica ed intertestuale, entrando a pieno titolo nell’incandescente territorio della postmodernità. Piovene riflette anche sulla condizione della mitografia occidentale che ha eseguito ormai il suo ultimo canto: il grande mondo umano non c’è più, al suo posto c’è il mondo della finzione e dei simulacri. Questa è l’amara constatazione del conservatore Piovene che dimostra tutta la sua sensibilità nell’indagare intorno al declino della morale i cui protagonisti hanno paura di conoscersi fino in fondo, preferendo condurre una vita misera basta su rapporti di convenienza.
Sottrattosi alle istanze ottocentesche dove il realismo la faceva da padrone, Guido Piovene riserva un posto ristrettissimo al suo anti-personaggio (protagonista assoluto del romanzo novecentesco) che descrive con uno stile essenziale, scarnificato, quasi a voler fare terra bruciata di tutti i generi letterari, per poterne creare di nuovi, in fondo solo distruggendo si può creare nuove forme. Lo scrittore è dissacratorio, ironico, sottile, mimetico, quando entra nel cuore delle situazioni, dei personaggi, delle storie, consapevole di appartenere ad un mondo culturale ormai sull’orlo della fine e di essere vittima anch’egli di quel declino umano. Questa presa di coscienza è soprattutto supportata dalla sofferenza di Piovene dovuta alla sua malattia che ne avrebbe causato la morte.