Joris-Karl Huysmans: dall’abisso alla fede cattolica

Joris-Karl Huysmans nasce a Parigi nel 1848; di origine fiamminga, è funzionario presso il Ministero degli interni dal 1868, si dedica alla letteratura sotto l’influenza di Zola: al naturalismo infatti si possono ricondurre i suoi primi romanzi, Marta, storia di una fanciulla, La sorelle Vatard e il racconto Zaino in spalla, che Zola raccoglie nelle Serate di Médan, antologia di scrittori naturalisti da lui stesso curata.

Gli esordi di Huysmans

Già nel romanzo successivo, Alla deriva, si manifesta un primo distacco dai temi e dai toni naturalistici, che verrà definitivamente sancito da Controcorrente, libro simbolo del Decadentismo.

Dopo anni di inquietudini spirituali, Huysmans, isolatosi per qualche tempo in un monastero, si converte alla fede cattolica. Tale scelta di vita è accompagnata da nuove opere narrative: Laggiù, In cammino, La cattedrale, L’oblato. Lo scrittore muore a Parigi nel 1907.

Il romanzo-manifesto del decadentismo, Controcorrente ha per protagonista un giovane proveniente da una famiglia aristocratica decaduta per i numerosi matrimoni consanguinei e le tare tramandate con l’ereditarietà. Jean Des Essenties, “esile giovanotto di trent’anni, anemico e nervoso, dalle gote scavate, gli occhi di un azzurro freddo di acciaio”, ha passato la sua adolescenza leggendo e fantasticando.

Controcorrente: trama e contenuti

Perduti i genitori a soli diciassette anni, una volta uscito dal collegio cattolico dove è stato educato, incomincia a vivere esperienze diverse, tra ambienti di nobili, letterati, giovani gaudenti, senza mai trovare appagamento alla proprie inquietudini. Sempre più annoiato del mondo e della vita, il giovane decide di vendere il castello di famiglia, di lasciare Parigi senza dir nulla a nessuno e di ritirarsi in una casa isolata nella regione di Fonteney-aux-Roses.

Predisposta la nuova casa secondo i raffinati gusti che aveva in gioventù, Des Esseintes si circonda di fiori, essenze profumate, mobili pregiati, tappezzerie, quadri, piante inconsuete, per soddisfare in continuazione il piacere di godere delle sensazioni provocate dalla bellezza.

Le sue giornate sono riempite dalle letture degli autori cari: prima di tutto gli scrittori delle età di decadenza quali Petronio e Apuleio, poi molti scrittori di pagine religiose e mistiche, infine qualche contemporaneo come Flaubert, Zola e soprattutto i poeti nuovi quali Baudelaire e Verlaine.

Il fascino della decadenza

L’isolamento, il continuo riandare al passato, la sostituzione di condizioni artificiali a quelle naturali, provocano in lui una grave nevrosi, per curare la quale deve abbandonare il suo rifugio e ritornare a Parigi. All’atto della partenza invoca la fede religiosa per recuperare una speranza di vita ormai del tutto perduta.

Controcorrente riassume nei caratteri del protagonista i tratti di molti intellettuali che eleggono la bellezza a loro guida: una bellezza da ritrovare negli oggetti e da ricercare nei libri da leggere, in nome di una distinzione evidente da tutto ciò che appartiene al mondo della maggioranza. Il rifiuto della civiltà contemporanea in nome dell’amore per le epoche di decadenza non va tuttavia confuso con un ritorno ad un passato idealizzato.

Intellettuali e decadentismo

Nella cultura del decadentismo si rivela l’impossibilità di una “naturalezza” di comportamenti: con la scoperta che non esiste più una naturale armonia, nonché la possibilità di una letteratura capace di rispecchiare e conoscere la realtà, resta solo l’artificiosità, come quella delle macchine di Des Esseintes, che possono procurare le sensazioni naturali senza che la natura sia più necessaria e come quella in cui si rifugia Baudelaire.

L’intellettuale di fine Ottocento non riesce a far proprio il passaggio alla modernità per quanto riguarda le trasformazioni sociali e le prime manifestazioni di una società che oggi chiamiamo “società di massa”.

Le descrizioni di Huysmans

Huysmans prova un’amara voluttà nell’analizzare, descrivere e rappresentare tutto ciò che per lui è oggetto di disgusto o d’orrore: l’abbrutimento del popolo, la meschinità della vita piccolo-borghese, il regresso della vita spirituale combattuta da un piatto e arrogante illuminismo, la brutalità dell’industrialismo e della plutocrazia, la mancanza di senso estetico nelle classi dirigenti: è la reazione estetizzante al naturalismo resa attraverso l’ansia debordante del protagonista che cerca di oltrepassare, come il suo autore, la conoscenza comune.

La conversione

Dagli abissi dello spirito, Huysmans risale e vede la luce della fede cattolica e scrive La Cattedrale, romanzo denso di conati di conversione a un cattolicesimo ch’è stato giudicato ora mistico, ora estetizzante; non si tratta di un «libro condensato»; non è nemmeno una proposta antologica. È molto di più e di diverso. È un disvelamento.

In queste pagine di Joris-Karl Huysmans, c’è la “nostra” storia, la storia del nostro essere europei e occidentali, la storia delle nostre radici autentiche e di quelle immaginarie, che magari sono ancora più forti e profonde delle prime.

L’antieroe esteta abbraccia la croce e afferma: “L’arte è l’unica cosa pulita sulla terra, a parte la santità”.

‘Aspetta primavera Bandini’, il primo romanzo di John Fante sull’immigrazione negli States

John Fante è uno scrittore originale e di talento. Ciò nonostante per molto tempo è stato un autore di nicchia. Essendo italoamericano è stato considerato marginale sia dai critici letterari americani che da quelli italiani: troppo italiano per gli americani, troppo americano per gli italiani. Fu Vittorini che lo fece conoscere agli italiani negli anni’40, mentre in America solo negli anni’80 ci fu la sua riscoperta grazie a Bukowski, che lo considerò suo maestro per aver saputo conciliare nella sua prosa ironia e dolore. In Francia recentemente è divenuto un caso letterario.

Fante era figlio di un abruzzese di Torricella Peligna, emigrato in America ad inizio’900. Nacque in Colorado nel 1909. Lavorò per Hollywood e trascorse alcuni periodi della sua vita in Italia perché fece lo sceneggiatore per Dino De Laurentis. Il diabete gli procurò la cecità nella maturità e successivamente l’amputazione delle gambe. Morì nel 1983. Il libro che gli dette più soddisfazioni economiche fu Full of Life (“Una vita piena”), da cui fu tratto anche un film.

Tempi difficili per gli immigrati durante l’infanzia e l’adolescenza di Fante. Gli Stati Uniti non ebbero una legge sull’immigrazione fino al 1875. La legge del 1875 e le successive fino al 1921 non misero limiti all’ingresso di immigrati. L’opinione pubblica però esigeva una migliore “qualità” per quel che riguardava l’immigrazione.

Gli Stati Uniti così decisero di sottoporre ai test d’intelligenza gli immigrati, perché l’opinione pubblica ravvisava la minaccia di un “imbastardimento della razza americana”. I risultati dei test d’intelligenza decretarono la superiorità intellettuale del gruppo nordico. La legge del 1924 concedeva a tutti i nordici di entrare in America, ma stabiliva una quota del 2% per coloro che erano alpini e mediterranei (per cui anche gli italiani).

Chiaramente oggi sappiamo che esistono le differenze di intelligenza, ma anche che non sono così quantificabili come alcuni psicologi avevano voluto far credere con i test. Il Q.I serve soprattutto come strumento diagnostico per vedere se un bambino soffre di ritardo mentale o per constatare se una persona che ha avuto un trauma cranico ha perso delle facoltà intellettive.

Inoltre come ha dimostrato Kamin nel libro “Scienza e politica del Q.I” i dati furono falsificati. Ma quello che ci interessa è l’atteggiamento xenofobo dell’opinione pubblica americana in quel determinato periodo. Tempi difficili per gli immigrati italiani quindi e Fante ce lo racconta approfonditamente nei suoi libri.

Spesso infatti troviamo riportati nelle sue opere i pregiudizi dei nativi americani sugli italiani. Nei romanzi di Fante c’è la netta contrapposizione tra emarginati ed integrati: tra gli immigrati italiani (che sognano il benessere economico e vivono in povertà) e gli americani, che vivono dignitosamente.

“Aspetta primavera Bandini” è il suo primo romanzo. Con esso inizia la saga della famiglia Bandini, una famiglia di poveri immigrati italiani. L’eteronimo di Fante è Arturo Bandini, un adolescente di quattordici anni. I suoi fratelli August e Federico hanno rispettivamente undici ed otto anni. Svevo, il padre, è un muratore ed un dongiovanni, che se la fa con una ricca vedova, che gli ha dato da rifare un caminetto della sua villa; è un uomo molto orgoglioso, che accetta malamente le incombenze della sua vita grama: il mutuo della casa, periodi di disoccupazione, i debiti da saldare.

Bandini è molto legato al suo amico Rocco, che è stato in gioventù suo compagno di avventure. La madre Maria invece è una donna molto devota: sgrana il rosario e prega per la sua famiglia continuamente. Perdona sempre tutto al marito, accetta anche i suoi adulteri e le sue frequenti fughe da casa con rassegnazione.

Il marito Svevo se ne va da casa per alcuni giorni, anche quando arriva la lettera di Donna Toscana, sua suocera, che lo considera un fallito e compatisce la figlia per la vita di miserie che è costretta a fare. Nonostante la famiglia Bandini spenda più di quello che guadagna, il figlio Arturo con l’incoscienza dell’adolescente trova il modo di rubare alla madre i soldi per andare al cinema. Arturo è innamorato di Rosa Pinelli, una sua compagna di classe, che però muore di polmonite.

Il momento più poetico del libro è proprio quando Arturo viene a conoscenza della scomparsa della ragazza. Questo romanzo si legge tutto d’un fiato. E’ adatto a persone di tutte le età. La prosa è scorrevole. Non si rintracciano mai durante tutta l’opera intellettualismi e filosofemi. Leggere Fante dunque. Leggere Fante è interessante perché ci riporta indietro nel tempo: ci fa ricordare come eravamo. Ci fa comprendere le grandi difficoltà a cui andarono incontro coloro che emigrarono in America. E tutto questo ci viene raccontato con umorismo e acume.

 

Di Davide Morelli

 

Franco Fortini e gli anticorpi per trasformare lo schifo e la menzogna della cultura di massa in altro

“Se si crede in una frase di Brecht che dice: ”La tentazione del bene è irresistibile”, allora, si crede, anche, che si possano formare degli anticorpi capaci di trasformare lo schifo, la menzogna, le feci coltivate dalla cultura di massa in altro. E’ possibile, perciò, è doveroso mutare”.  Sono le parole di Franco Fortini, poeta, saggista, critico letterario, traduttore,  in un filmato d’epoca del 1990, in un’aula occupata della Facoltà di Lettere e Filosofia di Urbino, gremita di studenti. E’ un invito al cambiamento, a una metamorfosi della coscienza collettiva contro la mercificazione di una società capitalistica.

Franco Fortini, nato a Firenze nel 1917, è stato una delle più grandi voci del Novecento. Intellettuale spigoloso, marxista fedele, con la testa rivolta ai temi del Capitalismo, Rivoluzione, Comunismo, Alienazione, Falsa libertà. Tra le sue opere più importanti troviamo Foglio di via, Composita solvantur, Asia Maggiore e Verifica dei poteri. Ha lavorato alla Olivetti, agli inizi degli anni ’50, ed è stato collaboratore di riviste come “Comunità”, “Il menabò”, “Quaderni rossi” e “Quaderni piacentini”, oltre ad aver scritto sui più importanti quotidiani nazionali. Dopo aver insegnato in alcuni istituti tecnici di Milano, nel 1971, è diventato titolare della cattedra di Storia della critica alla Facoltà di Lettere di Siena.

Fortini diede voce a diversi scrittori e poeti, traducendo Brecht, Flaubert, Proust, Goethe, Einstein. Ad aiutarlo, la moglie, Ruth Leiser. “Volevo a tutti i costi che Ruth ci fosse, nel racconto. Non in quanto figura “accessoria” all’ingombrante marito, né come “aiutante” nei lavori di traduzione dal tedesco, né tantomeno come moglie devota e riservata. Ma come “compagna” di vita, nel senso più elevato che si possa dare a questo termine e che nel loro caso comprende egualmente amore, passione politica, cultura, scrittura, sguardo sul mondo, sofferenza e indignazione, resistenza, tenerezza e rispetto delle reciproche identità e divergenze”.

Fortini aveva un’ironia che poco ha a che fare con lo sberleffo e con il carnevale della vita e si accosta, invece, alla lotta e alla Storia. È l’ironia come capacità di avvertimento del paradosso, e del paradosso come opportunità dialettica. Questa sensibilità paradossale è chiaramente, prima di tutto, eredità del marxismo, ma non solo; in essa convivono, e si intrecciano, anche una propensione per il romantico, tracce profonde della formazione ebraica e soprattutto un amore, tutto cristiano, per lo
scandalo, la pietra d’inciampo che erode le certezze più salde e apre il cammino al vero sapere: «il cristianesimo umilia i filosofi» scrisse Fortini ne Gli ultimi tempi.
Il paradosso è in Fortini uno strumento di conoscenza e insieme un modo di vivere della Storia e degli uomini, uno straniamento del presente attraverso un pensiero e una vita che sono ancora alieni ai nostri, ma che sono figura di qualcos’altro contenuto in noi e nel nostro passato eppure ancora non pienamente intellegibile. L’ironia è come una maschera dialettica che contesta ogni certezza, mostrandone in controluce il contrario possibile e fecondo, in un costante implacabile conflitto che spinge a non risparmiare nulla, neanche sé stessi:«derisa impresa, ironiache resiste / contesa che dura».

Volli eguagliare entro di me le pietre, essere asciutto scintillìo di sale, pensiero e forma limpida di fiore senza peso né ombra sulla terra senza perire più come fa l’erba.

‘Il giovane europeo’: l’altra Europa di Pierre Drieu La Rochelle, dove l’uomo non sa più esprimere nulla

Nato a Parigi nel 1893 da una famiglia borghese di origini normanne, Pierre Drieu La Rochelle condivise le inquietudini e le delusioni di una generazione sconvolta dalla Grande Guerra e dalle macerie spirituali di un vecchio mondo in rovina. Alto, snello, elegante – terribilmente attraente – con un sorriso breve e raffinato, aveva un aspetto penetrante e diretto. Si contraddistinse come il tipo del “martire rivoluzionario”, sfidando le convenzioni “di destra e di sinistra” per il bene dell’Europa, e senza dubbio ci parla ancora attraverso i suoi libri.

L’attualità della sua figura riguarda, in particolare, un “sovranismo europeo” (diremmo oggi), la cui preoccupazione fondamentale è che la rinascita dell’Europa non agisca per distruggere le nazioni a mezzo di una economia iper-liberista, ma per integrarle in un orizzonte più vasto. A proposito di prospettive spirituali e critiche del nostro autore in tema di Europa: è stato pubblicato quest’anno da Aspis in prima edizione italiana, curato e tradotto da Marco Settimini, “Il giovane Europeo”, uscito in Francia nel 1927. I testi che vi sono raccolti incarnano, con vigore sincero, un originale spirito di combinazione tra eccentricità dadaista, entusiasmo futuristico per l’innovazione tecnica e rivolta surrealista, pur mantenendo il ricordo della tradizione classica.

l libro si compone di tre saggi. I primi due, sotto forma di ritmi narrativi di un diario, descrivono le esperienze di un giovane europeo del XX secolo – dallo sport alla politica, dalla religione alla tecnica, dalle sperimentazioni artistiche e culturali alla rivoluzione e alla guerra – un uomo che matura lentamente un senso di inevitabile decadenza e si vede smarrito in una terra che non sente più come patria.

L’altro saggio, partendo dalla descrizione di una music hall, allegoria dello “spettacolo” della vita moderna, sviluppa una riflessione atroce sulla “strana” bellezza e sul fascino di una civiltà in decomposizione. Seguendone le bizzarrie, si capirà presto che l’autore cerca piuttosto di liberare la propria anima dal complesso dramma del tempo, per offrire soluzioni ai tempi che verranno. Con uno stile visionario e surrealista, le feroci critiche alla modernità richiamano politicamente le parole dell’illustre predecessore Alexis de Tocqueville, senza dimenticare i contemporanei Bernanos e Céline.

Sogna di trasferirsi in America, di dedicarsi agli affari, sposarsi e avere un figlio, ma “Passando dai grandi eserciti d’Europa alla guerra brutale che l’americano incessantemente conduce contro la Natura, mi resi presto conto di non aver mutato di clima”.

Troviamo, inizialmente, gli elementi di una mitologia bellicosa che diventano la matrice della sua concezione dell’azione e della sua visione del mondo. Il divario tra questa mitologia eroica e l’esperienza della prima guerra industriale anonima, tuttavia, rivela una realtà in cui i soldati sono antieroi passivi, schiavi delle macchine, che si comportano come un gregge – come le masse nei regimi democratici. Sopraffatti dall’atroce esperienza della Grande Guerra, delusi dal lugubre immobilismo del vecchio mondo, che vedono ricadere nella routine delle abitudini borghesi, gli scrittori di quella generazione, cui Drieu La Rochelle non fa eccezione, sperano ancora di dare un senso a una modernità che fugge via in un perpetuo movimento di accelerazione verso il vuoto. La crisi spirituale scatenata dalla guerra lanciò il suo incantesimo sull’intera epoca che precedette lo scoppio dell’altro conflitto mondiale.

Nel mettere in discussione le fondamenta di tutto un mondo, il nostro autore coglie queste impressioni:

Mi sforzo di avvicinare, fino a toccarli con le dita, i caratteri della mia epoca. Li trovo abominevoli, e così dominanti che l’uomo infiacchito non potrà più sottrarsi alla fatalità che enunciano, e ben presto ne morirà.
Meccanizzazione, egualitarismo, sono i ragni che tessono la tela dei loro crudeli nomi tra le mie palpebre. Vedo un orizzonte fatto di sbarre di prigione. Il soffocamento dei desideri tramite la soddisfazione dei bisogni, questa è la polizia parsimoniosa, l’economia sordida che deriva dalle facilitazioni con cui ci opprimono le macchine e che l’avrà vinta sulle nostre razze. L’uomo ha del genio soltanto se ha vent’anni e se ha fame. Ma l’abbondanza delle drogherie uccide le passioni. Rimpinzata di conserve, nella bocca dell’uomo si crea una pessima chimica che corrompe i vocaboli. Niente più religioni, niente più arti, niente più linguaggi. Sconvolto, l’uomo non esprime più nulla.

Il XX secolo aveva reso obsolete non solo le vecchie forme di civiltà, ma l’ordine stesso uscito dai Trattati di Westfalia (1648), inaugurando un’era di imperi continentali che aveva diminuito il significato e la “sovranità” dello stato-nazione. Finché l’Europa fosse rimasta politicamente fratturata, avrebbe rischiato, quindi, non solo un’altra lotta fratricida, come nei fatti avvenne, ma il dominio delle potenze continentali del capitalismo americano e del comunismo sovietico, per non parlare di quelle degli imperi cinese e indiano, che irrompono all’inizio del XXI secolo.

La Francia, la Germania e le altre nazioni europee, in altre parole, avrebbero potuto sopravvivere all’era degli imperi continentali – con le loro economie di scala e la tirannia dei numeri – solo attraverso la federazione, che non significava tuttavia liquidazione nazionale. A differenza dell’attuale Unione, la federazione di Drieu La Rochelle non consisteva nel subordinare i popoli del continente al primato del libero mercato divinizzato. Influenzato nella sua giovinezza da nazionalisti come Charles Maurras e Jacques Bainville – che lo iniziarono al culto della Francia, che egli amava “come una bella donna che potrebbe incontrarsi per strada di notte” – allo stesso tempo vide che il nazionalismo aveva raggiunto un punto morto, sia in termini di rivalità autodistruttive che di limitazioni imposte allo spirito europeo. Tutti i nazionalismi che rendono la patria una fine piuttosto che un inizio stavano respingendo le stesse energie e creatività nate dalla patria stessa.

Dopo i contatti con il movimento surrealista, iniziò un forte avvicinamento ai socialisti, non vedendo altri mezzi per raggiungere i suoi desideri per la federazione europea. Tuttavia, il socialismo di Drieu La Rochelle aveva poco in comune con il marxismo – con il suo universalismo, il collettivismo e il materialismo paralizzante. Piuttosto, il suo era il socialismo che Spengler attribuiva ai prussiani: il socialismo organico e autoritario che subordinava l’economia alla nazione e perseguiva i fini sociali privilegiando lo sviluppo dello spirito e della vitalità.

Anche il fascismo, che abbracciò successivamente, non era in lui del tutto ortodosso. L’interesse era più esistenziale che politico. Piuttosto che il nazionalismo piccolo-borghese, anticomunista, fissato nello stato, lo attrasse l’istintiva opposizione all’ordine liberal-capitalista, l’enfasi su gioventù, salute, ribellione, azioni virili, e in particolare la volontà nietzschiana di vivere pericolosamente. Il “fascismo” in Drieu derivava, in definitiva, dall’identificazione con la volontà di superare la decadenza nata dall’età moderna e, nel farlo, di realizzare una comunità spirituale superiore.

A seguito della battaglia di Francia (maggio-giugno 1940), che confermò la sua scarsa opinione del regime parlamentare francese e la convinzione che l’esercito, nel subire la più grande débacle nella storia nazionale, riflettesse la natura sclerotica dell’ordine sociale borghese, La Rochelle tentò di sfruttare al meglio una situazione ostile, collaborando con l’occupante tedesco, nella speranza di creare in Francia un certo rispetto per la Germania nazional-socialista e, nel frattempo, di rendere il fascismo meno nazionalista e più europeo e socialista. Rassegnandosi al fatto che i francesi non erano riusciti a realizzare la propria rivoluzione, era propenso a pensare che questa dovesse essere imposta dall’esterno. Con questo spirito assunse la direzione della più prestigiosa rivista francese, la Nouvelle Revue française e si impegnò in varie attività per dare sostanza agli ideali collaborazionisti, per unificare l’Europa realizzando il tipo di rivoluzione che aveva rianimato la Germania dopo il 1933.

Ancora una volta sarebbe rimasto deluso. Sempre più alienato dagli occupanti e ossessionato dall’imminente destino dell’Europa, si rifiutò di rifugiarsi in Svizzera o altrove, una volta che la possibilità si presentò dopo il 1943. Sentiva che era una questione d’onore. La notte del 15 marzo 1945, mentre si nascondeva dal nuovo regime instaurato a Parigi, deglutì una fatale dose di veleno.

Drieu La Rochelle riconobbe che l’Europa era una specie di mito, la cui risonanza aveva ancora il potere di evocare quelle forze che avrebbero potuto sfidare la decadenza regnante. La sua visione della federazione, questa Europa dei patrioti, cercava di ravvivare lo spirito specifico di forme di vita uniche e incomparabili, non di dissolverlo in un mercato unico mondiale. Tuttavia, le sue parole non lasciano molte speranze:

Di tutte le civilizzazioni sotto i nostri occhi, non ci rimane oggi nient’altro che un’unica civilizzazione planetaria, tutta logora.

 

Gabriele Sabetta

‘Il pittore volante’: l’amore per l’Arte di Anselmo Bucci

Anselmo Bucci è stato tra gli artisti di guerra, una delle figure più importanti nel panorama culturale italiano, soprattutto per quanto riguarda la tecnica dell’incisione. Non tutti però sanno che Bucci è stato anche un valido scrittore, nella fattispecie, autore del catalogo Il pittore volante, vincitore del Premio Viareggio nel 1930.

Il pittore volante è un libro che si gusta, si centellina ma non solo perché è costituito in gran parte da aforismi, piuttosto in virtù dei paradossi estrosi ricchi di concentrata verità. Leggendo l’incrocio di sentenze, il contrasto dei punti di vista e delle verità affermate, si ha l’impressione di far resuscitare la figura di Bucci, un moralista, un uomo di mondo, un artista, uno schermidore di classe al contempo parigino e italiano. Solo in apparenza di può pensare di trovarsi di fronte ad una figura piacevole: in realtà questa è la scorza di Bucci, la sua vernice.

In profondità c’è una realtà nient’affatto jolie, una realtà seria, dolorosa, triste, come emerge dalle pagine del Pittore volante, dove si canta l’amore dell’autore per Rembrandt. Infatti dopo aver descritto con un’aderenza rapida e scolpita le figure e l’effetto della “Ronda di notte”, il dipinto del celebre artista olandese, Bucci esclama: “Gran bell’arte la pittura. La pittura è l’immediata fra le arti; è magica perché crea le luci, è umile perché popola la memoria più rude, è generosa perché col fango della strada crea le gemme e le dà. La pittura è bella”. E poi, come in una contrazione di tristezza, celata da un tono di spavalderia, alla quale sembra non credere neppure lui sospira: “Peccato, è un’arte perduta da due secoli”.

Di grande interesse risulta anche il capitolo “Angoscia” dove viene descritto l’inferno dell’artista moderno e una brutta giornata che arriva solo a quelli che si buttano sul lavoro con perduta passione, per poi risalirne nauseati, spossati nell’intimo.

Il pittore volante ci consegna anche un Bucci epigrammista e butadista sulle donne, sull’amore, sulle mostre d’arte, sui visitatori borghesi, il quale non perde mai occasione per confessare il suo sconfinato amore per l’Arte. Dell’animo delle donne Bucci ha un fiuto istintivo, dei costumi cogli con un tratto, con una sola immagine, la vibrazione, la linea, l’intima sostanza.

Bucci maneggia la penna come se avesse in mano il pennello. Adoperando con estrema efficacia e chiarezza le parole, sebbene non abbia un ricco vocabolario: la sua frase è nuda, semplice; aggredisce l’oggetto, incapsula l’immagine con precisione e sobrietà senza perdersi in giri eleganti di parole.

 

Fonte:

Anselmo Bucci – Il pittore volante: recensione del libro

Addio a Philip Roth, demolitore di stereotipi e autore rabbioso del capolavoro ‘Pastorale americana’, ossessionato dalla fuga e dalla solitudine

Nel 2012 Philip Roth aveva annunciato che non avrebbe più scritto. A modo suo, citando la frase del pugile Joe Louis: “I did the best I could with what I had” (“Ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo”). Philip Roth, il demolitore degli stereotipi americani, era stanco, soffriva da anni di un terribile mal di schiena e sosteneva – lui che era considerato se non il più grande, uno dei più grandi scrittori viventi – di non aver più niente da raccontare. In 30 romanzi, pubblicati durante la sua lunga carriera, aveva raccontato pregi e difetti dell’America, aveva scandagliato le inquietudini del nostro tempo, smascherato le nostre ipocrisie. Negli ultimi tempi diceva di non leggere più narrativa ma solo saggi. Ad annunciarne la morte è stato il New Yorker, poi il decesso è stato confermato dal suo agente letterario, il temibile Andrew Wylie, conosciuto come “lo sciacallo”, che di Roth aveva fatto il marchio della sua squadra vincente.

Roth è morto, “per insufficienza cardiaca”, all’età di 85 anni senza aver vinto il premio Nobel per la letteratura, che invece avrebbe meritato. Era nella lista dei candidati da anni ma all’Accademia svedese non piaceva: troppo scorretto, troppo irriverente per essere incoronato. Consola il fatto che non sarebbe stato l’anno di Roth neanche questo, visto che il Nobel è stato travolto dagli scandali e che il premio per la letteratura è stato cancellato e rimandato al 2019.

Philip Roth nasce a Newark, nel New Jersey, nel 1933. Viveva tra l’Upper West Side di New York e una casa nella campagna del Connecticut. I genitori appartengono alla piccola borghesia ebraica della città, ed è lì in quella piccola comunità di provincia che lo scrittore inizia ad osservare la sua gente e costruire – seppure ancora solo idealmente – le sue prima storie e i suoi primi personaggi. Raccoglie storie, osserva, cataloga tic che poi ingrandirà e trasformerà nel grande ritratto dell’America (i suoi romanzi in Italia sono pubblicati da Einaudi e sono stati poi raccolti in un volume Meridiani Mondadori, curato da Elena Mortara. Altri due Meridiani, curati da Paolo Simonetti, sono attesi per ottobre e per la primavera 2019).

Il primo libro è Goodbye, Columbus del 1959. C’è già tutto dentro: il sesso, la religione, la famiglia. Roth scrisse poi, ricordando quel tempo: “Con semplicità e inesperienza, e con parecchio entusiasmo lo scrittore in embrione che ero scrisse queste storie intorno ai suoi vent’anni, mentre si laureava all’università di Chicago, faceva il soldato nel New Jersey e a Washington e, dopo aver lasciato l’esercito, tornava a Chicago a insegnare inglese”. Aveva in realtà 26 anni e sapeva di aver avuto accesso ai riti e ai tabù del suo clan, la tribù degli ebrei americani di cui faceva parte.

Dieci anni dopo con Il lamento di Portnoy, Roth scandalizzerà tutti: “Il mondo della visione manichea che vige in casa Portnoy, si divide tra ebrei e goyim (non ebrei). Questi ultimi va da sé incarnano agli occhi dei genitori l’antimodello per eccellenza…”. Il libro narra la storia di un ragazzo ebreo, Alexander Portnoy, che confessa allo psicoanalista i suoi turbamenti. Lo psicoanalista rimane muto per tutto il tempo. La dissacrazione è compiuta. Altri dieci anni e debutta sulle pagine di Roth il suo alter ego: nel 1979 compare ne Lo scrittore fantasma il personaggio di Nathan Zuckerman, un giovane romanziere di belle speranze che lo accompagnerà per anni. Il romanzo diventerà il tassello di una serie di prove narrative, tra cui La macchia umana e Zuckerman scatenato.

Il capolavoro che consacra Roth nell’Olimpo della letteratura mondiale, Pastorale americana, è del 1997 e gli vale il premio Pulitzer. Si tratta di un romanzo/manifesto in cui passa la storia dell’America, con personaggi indimenticabili: da quello dello Svedese, Seymour Levov, alto, biondo, atletico, il prototipo dell’americano vincente, a quello della figlia Merry, la contestatrice che “decide di portare la guerra in casa”. Ne sarà tatto un film, American Pastoral, diretto da Ewan McGregor, con David Strathairn nei panni di Zuckerman. Roth racconta i miti, le nevrosi, e le contraddizioni dell’America, è un libro-manifesto che ci porta a conoscere questa nazione nel suo animo attraverso la vita di un uomo, colui che tutti hanno “mitizzato” visto le sue grandi doti sportive, perché proprio lui ha sposato Miss New Jersey. La pastorale idilliaca di un’America progressista e democratica svanisce nel contesto di una famiglia normale, come tante, in cui però irrompe la storia con la deflagrazione di una bomba.

«Credi di sapere cos’è un uomo? Tu non hai idea di cos’è un uomo. Credi di sapere cos’è una figlia? Tu non hai idea di cos’è una figlia. Credi di sapere cos’è questo paese? Tu non hai idea di che cos’è questo paese. Hai un’immagine falsa di ogni cosa.
Sai cos’è un guanto, cazzo. Ecco l’unica cosa che sai. (…) Una famiglia tiranneggiata dai guanti, bastonata dai guanti, l’unica cosa che conti nella vita, guanti da donna.»

Seguiranno Ho sposato un comunista e La macchia umana, dove Roth sferra un attacco al politicamente corretto americano che gli crea intorno più di un malumore. Protagonista il professor Coleman Silk al quale un giorno basta una frase sfuggitagli per sbaglio per essere crocifisso sull’altare della political correctness: aveva usato il termine “spettro” reputato “offensivo applicato ogni tanto ai neri”.

Nel 2010 arriva Nemesi, ultima tappa di una sterminata produzione narrativa. Ambientato nell’estate del 1944 in una New York contagiata da una spaventosa epidemia di polio. La domanda che ricorre è la stessa di tanti romanzi di Roth, da Everyman a Indignazione a L’umiliazione: quali sono le scelte che imprimono una svolta fatale a un’esistenza? Gli ultimi tempi da scrittore erano stati durissimi. Roth aveva raccontato di scrivere in piedi, usando un leggio, a causa dei terribili dolori alla schiena. Nel 2012 aveva annunciato al magazine Les Inrockuptibles di smettere di scrivere.

Dalla penna veloce, affilata e rabbiosa di questo grande scrittore ubriaco di disperazione, che ha iniziato a scrivere solo per vedere se ne era capace, scaturisce una fugace visione della realtà, proprio come i destino dei suoi personaggi e più in generale dell’uomo stesso, catalizzando l’attenzione su ogni singolo dettaglio che permea l’intera storia, dissacrando attraverso l’arma dell’ironia e del sesso, e facendo ragionare il lettore per assurdo.

La fuga è sempre stata l’ossessione di Roth. Andarsene per capire, andarsene per trovare. Evadere. Così intorno agli anni Settanta se ne andò. La sua America gli stava stretta e rischiava di estinguere la magia narrativa dopo una serie di libri che hanno diviso la critica, riducendolo a simbolo dell’onanismo. Scelse la Cecoslovacchia, fervida terra di reclusione che lo faceva sentire a casa. E qui che incontrò Milan Kundera e Ivan Klima, la moglie di Kundera conosceva l’inglese e legò Roth al nugolo di intellettuali dissidenti sulle orme di Kafka.

Capitolo donne. Le ragazze per Philip Roth sono state una faccenda strana. Sono l’ossessione erotica, certamente, ma anche la lotta alla solitudine. «Nessuno guarda mai se i miei personaggi femminili escono dal letto dei loro amanti meno fragili». C’è consumo e c’è un’alleanza invisibile. L’autore di Pastorale americana ha sempre inseguito questo sodalizio, sentendo di averlo raggiunto un pomeriggio del 1975, passeggiando per New York. Everyman è il libro che sostiene Roth davanti alla fine. È un libro sulla morte e sulla grande fuga, intesa come commiato dall’irresistibilità della vita. Roth percepisce «quell’avversario che è la malattia, e la calamità che aspetta tra le quinte». Per lui è il mal di schiena e la perdita di desiderio. La schiena è il suo irrisolto, ne soffre da quando è giovane, a causa del dolore è stato ricoverato in clinica psichiatrica. Pensava al suicidio e si consolò con una depressione abissale. Si salvò per la scrittura e quando ne venne fuori la prima cosa che fece fu guardarsi intorno. Da animali morenti, cosa rimane? Gli amici e la memoria, ecco perché l’affronto di Updike è stata una ferita insanabile. I due non si parleranno più. Da quel giorno Roth comincia a fare ordine in ciò che è stato e a capire come «non si ricordano i fatti, ma il modo di ricordarli». Così torna a essere figlio. Figlio del fratello Sandy, di Mia Farrow, di amici stretti, di Beethoven («un Bach sotto l’effetto di droghe!») e della possibilità di una scelta: smettere di scrivere. Avrebbe potuto continuare, gli sarebbe servito un appiglio alla Cheever. Mettersi a bere. La Pierpont gli chiede con che cosa sia riuscito a sostituire la bottiglia. Roth risponde senza esitare: «La disperazione». 

“E’ la mancanza di rabbia che finisce per uccidere. Mentre l’aggressività depura o guarisce.”

 

Fonte: La Repubblica

In ricordo di Giovannino Guareschi, cantore dell’Italia contadina e profeta dell’estinzione dei piccoli centri rurali, a 50 anni dalla morte

50 anni fa, nel luglio del 1968 scompariva lo scrittore Guareschi che, con i suoi romanzi, ha provato a fermare l’inesorabile incedere del tempo, delineando in tal modo un vivido quadro dell’Italia post-bellica. La campagna, il mondo rurale, luogo della sua infanzia, dei suoi ricordi fa da sfondo alle vicende del sindaco Peppone e del parroco suo rivale Don Camillo. Come Pasolini in Scritti Corsari, denuncerà con profondo rammarico, la guerra silenziosa mossa ai piccoli centri rurali profetizzandone l’estinzione. L’Italia contadina trova in Guareschi la massima esaltazione; egli conscio del profondo mutamento in atto, non ha altro mezzo se non la scrittura per mostrare ed eternizzare un mondo che, pur subendo il fascino e la forza prepotente della città, trova la fora per mantenere intatta la sua identità.

Quando per la prima volta il mondo si accorse di Giovannino Guareschi, si apprestava all’orizzonte il tramonto di un’era segnata dal sangue e della violenza e l’alba di una nuova, dai tratti più miti per quanto incerta apparisse, carica di fragili promesse di speranza e di pace. Gli animi, sgravati dal peso sciabordante della guerra, della fame e della paura, erano pronti a riconciliarsi con la civiltà perduta, che nel tetro labirinto della storia appariva sempre più come una lontana e transeunte meteora. La mente del popolo italiano attanagliata da tristi ricordi, languiva tra la povertà e la miseria, tra sorrisi amari e certezze devastate, e fu chiamata nonostante tutto a fare l’ultimo passo per il benessere e la salvaguardia del proprio paese. Si facevano spazio nelle loro coscienze, tra le macerie spirituali e sociali che il grande conflitto aveva lasciato, ideali di rinnovamento e venti di cambiamento che stormivano fra le antiche fronde del loro tragico passato.
L’Italia del dopoguerra è una nazione d’immagini d’effetto, di tensioni politiche, di lotte intestine, di divisioni sociali e religiose. Si assiste al passaggio di fase involontario da una consapevolezza tirannica ad un’altra, più decisiva per certi versi, che intaccò con minor o maggior intensità tutti i campi della vita quotidiana. Guareschi incarna questa transizione culturale più di molti altri suoi contemporanei. Figlio della bassa emiliana, il giovane scrittore con molta probabilità ereditò il gusto delle belle lettere dalla madre, maestra elementare nel piccolo paesino di Fontanelle, dove vivevano lui insieme ai suoi numerosi fratelli, coltivando al tempo stesso un amore legittimo per la vita campestre e il mondo agricolo. Già da fanciullo manifesta la sua indole polemista e riottosa, in concomitanza con il desiderio di sapere e di raccontare la miseria e le storture del suo tempo:

Io da giovane facevo il cronista in un giornale e andavo in giro tutto il giorno in bicicletta per trovare dei fatti da raccontare.[…] Nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole e sono le stesse che usavo per raccontare l’avventura del vecchio travolto da un ciclista o di una massaia che, sbucciando le patate ci rimetteva il polpastrello.

Guareschi appartiene indubbiamente a quello che viene definito realismo fantastico, figlio del surrealismo e in stretta connessione con l’irrazionalismo novecentesco. Forse tale accezione indurrebbe a fraintendimenti se l’autore stesso non avesse escogitato un modo per eluderlo declinando la realtà fatalista di fondo che pervade i suoi scritti in una visione ironica e burlesca. L’autore della bassa, riversa i suoi giochi di parole, il suo disagio spirituale e il suo languore metafisico nell’arte del creare, dello stupire, nell’abbattere le sicurezze, le credenze e i luoghi comuni di Belpaese. Scrittore, giornalista, umorista, vignettista e caricaturista, abbracciò tutti i rami che l’arte del suo tempo potesse concedere. Dotato di una spiccata predilezione per lo scherzo e per la satira mordace, costituivano questi i dardi infuocati da scagliare contro a tutti coloro credeva meritevoli di tale trattamento. Il punto di svolta di Giovannino fu senza dubbio nel ’36, anno in cui riuscì a conquistarsi la grande Milano collaborando attivamene all’appena nato Bertoldo, giornale umoristico che Zavattini, conoscenza del periodo universitario a Parma, dirigeva e Angelo Rizzoli editò, dopo incertezze e litigi. Ma anche gli anni del Bertoldo passarono, la grande guerra infuriava e non risparmiò nulla, portando con sé morte e tribolazione inaudita. Dopo essersi arruolato, dopo lotte esangui e notti insonni, dopo il rifiuto di giuramento di fedeltà all’ex alleato tedesco, finisce in un campo di concentramento, prima in Polonia, poi in Germania dove resterà fino al 1945. Questa esperienza devastante sarà humus vitale per il Canto di Natale e il più intimista Diario Clandestino, allo stesso modo delle celebri Memorie di una Casa Morta di Dostoevskij, con l’unica variante che il primo fu scritto esattamente durante il periodo di prigionia nel lager.

A noi è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare solamente il sogno. Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà coi nostri sogni, per non dimenticarci d’esser vivi. Di queste inutili giornate fatte di grammi, di cicche o di miseria, la sola parte attiva, la sola parte vitale saranno i nostri sogni. Bisogna sognare: e, nel sogno, ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire. Sediamoci fuori della baracca: proiettiamo le visioni del nostro desiderio sullo schermo del cielo libero e sogniamo (gli occhi bene aperti e la mente vigile) costruendo noi stessi la trama della vicenda immaginaria, soggettisti, registi, attori, operatori e spettatori del nostro sogno.

L’ira attonita dell’uomo qualunque, che impotente è vessato e offeso, temprato dalla conoscenza diretta col dolore, troverà la realizzazione concreta nel giornale satirico da lui ideato e diretto Candido, , dove la satira espressa tramite vignette umoristiche, assume un aspetto più sagace.

Ma è con la sbalorditiva saga del Mondo Piccolo, che Guareschi afferma la sua magistrale caratura letteraria. Ritratto sbiadito di una vita campestre, di un futuro colmo di disincanto e amarezza. Protagonista della storia è la bassa padana. Uno stralcio di terra che corre da Pavia a Mantova, da Bologna a Ferrara, attraversata dal Po. Squarci di terreno inondato da acque fresche e rugiada vespertina, antichi pioppi che gettano un’ombra lungo il cortile di vecchi casotti abbandonati alla decadenza mordace del tempo, stradine non lastricate che solcano immensi campi di margherite, di grano e di campanule che si perdono all’orizzonte e riempiono il cuore di una pace e una grazia ineffabile, sono testimoni di piccole e insignificanti storie comuni. Storie di uomini e donne, santi e dannati, impavidi e pusillanimi. Gente comune, gente che vive, una vita semplice e placida. Le storie di Guareschi sono il riflesso di questo mondo. Piccolo, antico, puro, incontaminato. Al riparo dalla violenza distruttrice dell’uomo moderno e dalla perversa insaziabilità del suo estro e del suo capriccio. Questo è lo scenario del mondo di Don Camillo e Peppone, uno scenario semplice che tuttavia, per Guareschi rappresenta la parabola esistenziale della sua narrazione. Una narrazione sostanzialmente ancipite, che vede contrapporsi in antagonismo l’eterno binomio parroco-sindaco durante tutte le brevi storie che compongono il ciclo. Ma un altro personaggio, volto a formare una trinità pragmatica coi primi due, è il Cristo vivente dell’altar maggiore, a cui è affidato il compito di aiutante critico, in una dimensione di riflessione e testimonianza interiore.

La sfiducia nell’uomo si tramuta in una fede cieca in Dio, il suo Dio, che è un po’ la voce dell’umana coscienza. Se in una prima analisi la piccola comédie humaine messa in piedi dallo scrittore si risolve su un piano caricaturale e ironico, dall’altro quando in gioco entrano valori universalmente validi e interessi collettivi, ecco che le due fazioni diametralmente opposte, convergono subitaneamente senza esclusioni di sorta. Quando subentrano principi come la capacità d’amare, il bene per la collettività, il rispetto e la salvaguardia dei deboli, ecco che lotte cessano e si prosegue, seppure lungo strade diverse alla medesima destinazione. L’opera possiede un carattere se non apologetico, tutt’al più moralistico, ma di quel tipo di morale invisibile poiché mascherata da uno spesso strato di verecondia. Guareschi si serve del primo per mostrare le miserie di un nazionalismo in rovina e dell’altro per mostrare gli effetti dell’incipiente insediamento politico. Non salva l’uno condannando l’altro come la critica letteraria ha a volte affermato, né l’opposto, ma sferza entrambi con la frusta dell’ironia e lo sguardo vigile e accesso del sarcasmo. Eppure liquidare l’opera di Guareschi come lo scontro perenne fra il burbero Don Camillo e il prepotente Peppone, fra Destra e Sinistra, sarebbe irrispettoso e ingiusto per un’opera del genere. Il contributo di Guareschi alla narrativa italiana si estende in direzioni molto più ampie. L’autore sposa l’idea dei contrasti, dei chiaroscuri, da manifestare visibilmente in ogni riga, in ogni parola. Come detto in precedenza, sul piano iconico-visivo, tramite l’elaborazione certosina di una paesaggistica quasi vivente, gli abitanti e quel mondo artificiale di cui fanno parte, si compenetrano a vicenda in un gioco di forza che tiene in equilibrio la struttura narrativa.

La bassa padana, da sfondo decorativo diviene epicentro delle vicende umane, incarna ossia, quel mondo piccolo che Guareschi conosce assai bene, che sente fin dentro le ossa e che consapevolmente descrive: un mondo con le sue leggi, con un suo ordine naturale, con una sua gerarchia sociale. E adesso vede il sovvertimento di questi dettami, vede violata l’intimità pacifica di questo mondo gentile da ciò che viene definita come modernità. Nel noto romanzo di Kafka, Il Processo, assistiamo ad una situazione analoga. Nella scena iniziale, due tirapiedi mandati dal tribunale irrompono una mattina, senza preavviso, nella camera del signor K. dichiarandogli la propria colpevolezza, minacciandolo mentre è ancora allettato e divorando finanche la sua colazione. La stanza in questo caso è emblematica di una dimensione intimista e privata in cui un’altra, estranea, fa breccia con irruenza dispotica neutralizzando ogni possibile difesa. Come Kafka, anche lo scrittore della bassa, sacrifica l’introspezione psicologica, per un’assoluta centralità dei gesti e delle azioni come indicatori degli stati d’animo e delle qualità delle relazione individuali. Ciò che Guareschi contesta, su cui polemizza è l’intromissione violenta nel suo piccolo mondo di quella forza infausta e demonizzante, che esplicita nel socialismo in particolare, e in generale con tutto ciò che possa negare o minare le fondamenta culturali della sua terra nativa. Espressione massima anche nel rapporto conflittuale tra metropoli e campagna, tra un’apparente conciliazione del moderno vivere con la tradizione popolare. Un rinsaldamento declinato nell’accettazione aprioristica dello sviluppo come un bene imprescindibile. Guareschi non rinuncia alla modernità, tuttavia la guarda con occhio critico e severo, percependone le tristi derive verso cui può condurre. Le delusioni sono state troppe, troppi i danni subiti. Il celebre filosofo tedesco Georg Simmel una volta scrisse:

Nella metropoli da una parte la vita viene resa estremamente facile, poiché le si offrono da ogni parte stimoli, interessi, modi di riempire il tempo e la coscienza, che la prendono quasi in una corrente dove i movimenti autonomi del nuoto non sembrano neppure più necessari. Dall’altra, però, la vita è costituita sempre più di questi contenuti e rappresentazioni impersonali, che tendono a eliminare le colorazioni e le idiosincrasie più intimamente singolari; così l’elemento più personale, per salvarsi, deve dar prova di una singolarità e una particolarità estreme; deve esagerare per farsi sentire, anche da se stesso.

Sono queste rappresentazioni impersonali, come Simmel le definisce, a spaventare Guareschi e a farlo stare in uno stato di perenne apprensione sul progresso che incombe voracemente sul suo mondo. Questo suo disincanto, non solo politico, ma anche sociale, economico e religioso, questa sua ilarità, quasi tragica per certi aspetti, si traducono in una presa di coscienza di sé e del suo compito in qualità di uomo, prima che di scrittore. Il popolo del mondo piccolo, concepito in una sfera d’azione essenziale e minimalista, richiede un linguaggio adeguato. Ponendosi dei vincoli espressivi, elaborando una grammatica elementare, una sintassi scarna e un lessico ristretto raggiunge un traguardo in termini di diffusione e comunicazione. Una prosa povera, asciutta, ma dotata di una grande eleganza espressiva. La ricompensa per un registro stilistico popolare, è sicuramente la diretta compartecipazione e attenzione mondiale, e non deve stupire quindi la lunga pluriennale fedeltà di un pubblico che nelle sue storie ha trovato, e trova tuttora, sempre qualcosa o qualcuno in cui riconoscersi o ritrovarsi.

Guareschi con la sua semplicità conquista ogni nazione, perché arriva direttamente alla gente, senza tanti giri di parole o frasi artificiose, ma con la spontaneità colloquiale di un compagno di cella. La semplicità di fondo, di questo autore, così come quella di molti altri, come Calvino o Tabucchi per citarne alcuni, non è istintiva, ma nasconde in realtà una complessità ideologica, di cui si apprezza l’originalità solo dopo una seconda lettura ed una profonda analisi. Dietro un resoconto quasi da cronista, c’è una ricerca spasmodica della più ampia comunicabilità possibile. Fra i capisaldi della poetica guareschiana v’è senza dubbio un’aspirazione di rivincita sociale. L’autore si rende conto che le posizioni politiche stanno perdendo consistenza, che non ha alcuno senso stare da una parte piuttosto che da un’altra. La sua è una intuizione anticipatrice, sintomatica di una capacità di analisi della società fuori dall’ordinario. Eppure, guardando le distese sconfinate della bassa padana, è in quei luoghi che la sua voce riemerge con forza. Lì il tempo sembra essersi fermato, le leggi fisiche che regolano l’universo sono in quella porzione di spazio inerme senza alcun valore, né podestà. Le impressioni che posti e paesaggi del genere suscitano nell’ignaro spettatore difficilmente si conciliano con ciò che il pensiero della globalizzazione ci ha abituato a credere. I ritmi sono lenti, le parole sospirate, gli amori come le stagioni passano senza destare timori. E in quell’istante, la natura si rivela, si riversa nel suo tacito clamore. Qui il miracolo più sorprendente, qui il prodigio più estasiante. Come William Shakespeare scrisse molto tempo fa:

Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.

 

Angelo de Sio

Yasunari Kawabata, un delicato fiore di loto che galleggia apparentemente sull’acqua, cultore della bellezza

Primo premio Nobel giapponese, con la seguente motivazione: «Per la sua abilità narrativa, che esprime con grande sensibilità l’essenza del pensiero giapponese». Egli è colui che esporta l’idea del Giappone nel mondo. Se la penna dell’amico e allievo Mishima è una lama affilata, un fiore di ciliegio che fiorisce in modo breve ed intenso, quella di Kawabata è un loto, fiore delicato che galleggia apparentemente sull’acqua, ma si appoggia sul fondo melmoso. Tra gli ultimi anni del XIX secolo e i primi anni del XX il Giappone si sarebbe sbarazzato, progressivamente, di Cina, Russia e Corea sedendosi con prepotenza al tavolo delle potenze mondiali. Yasunari Kawabata nacque il 14 giugno 1899 ad Osaka, a 500 chilometri dalla capitale Tokyo, lontano dalla sanguinosa schiuma sovietica che l’ammiraglio Togo avrebbe sollevato, da lì a pochi  anni, sconquassando ulteriormente i fragili equilibri estremo orientali. Yasunari era lontano da tutto questo; nell’arco della sua vita non si interessò troppo alla guerra, lasciando quest’onere, e onore, all’amico e discepolo Yukio Mishima. Rimasto orfano a due anni, egli trascorse l’infanzia con un nonno semicieco e bizzarro, che lo educò in modo del tutto peculiare; il piccolo Kawabata si trovò immerso in un mondo dominato dall’arte, dall’erboristeria e dalla astrologia, sviluppando un eclettismo che si rivelò trasversale a tutti i campi della cultura. Nonostante ciò, la letteratura fu sempre il suo primo e grande amore. Lo stato di orfano lo condizionò per tutta la sua lunga esistenza, tanto da fargli confessare, ormai anziano:

“Mio padre morì che aveva un anno, mia madre quando ne avevo due. Il mio essere orfano è stato sempre sottolineato da tutti i critici che si sono occupati di me. E anche se, arrivato ormai a settant’anni, dubito che la definizione di orfano possa ancora adattarmisi, non mi sento di contraddirli. Credo, da bambino, di essermi lasciato viziare da questo sentimento di essere solo al mondo ma allo stesso tempo mi chiedo se i tanti incontri fortunati che ho avuto, nel corso della mia vita, non mi siano stati procurati proprio dal mio essere orfano”.

Partiamo dal primo incontro fortunato: verso la fine del 1918, dopo aver perso anche il nonno e dopo aver preso il diploma di scuola media, egli si reca nella penisola di Izu, dove incontra una banda di attori girovaghi che gli ispirerà il fortunatissimo racconto La danzatrice di Izu. E’ qui, in questo momento storico, a 19 anni, in solitudine, che si forma tutta la poetica di Kawabata, quel senso di “impegnato distacco” che lo accompagnerà per tutta la sua lunga esistenza. Non esiste un ossimoro più stridente di questo; forse è l’unico modo di comprimere in un unico colore un animo così culturalmente caleidoscopico. Innamorato follemente della protagonista, che dà il titolo a questo racconto, egli, una mattina, vide alle terme la figura del suo desiderio avvicinarsi, completamente nuda:

“Non aveva niente addosso, nemmeno un asciugamano. Era la danzatrice. Guardando il bianco corpo nudo dalle lunghe gambe, simile a un giovane albero di paulonia, ebbi la sensazione che il mio cuore fosse attraversato da una corrente di acqua limpida. Tirai un profondo sospiro di sollievo e mi misi a ridere. Era una bambina. Dimostrava diciassette anni perché aveva una capigliatura lussureggiante e io così mi ero lasciato, stupidamente, indurre in errore”.

In questo slancio giovanile, fiaccato poi dalla realtà della natura, si assiste ad un graduale e progressivo passaggio dalla prima alla terza persona, che troverà la sua definitiva consacrazione in uno dei romanzi della sua vecchiaia, la casa delle belle addormentate; qui l’anziano Eguchi ha la possibilità di dormire a fianco di giovanissime e bellissime ragazze, profondamente addormentate, toccandole ed esplorandole, senza violarle.

Il simbolo più grande di questo “impegnato distacco” è, però, il maestro di Go; in esso viene narrata la cronaca dell’ultima partita al gioco Go del maestro Shusai contro il giovane sfidante Otake; è una sfida tra i vecchi valori gerarchici, sul viale del tramonto, e i nuovi principi democratici, in rampa di lancio, tanto che lo sfidante pretende e ottiene che vengano aboliti i privilegi ancestrali accordati un tempo ai maestri, al fine di una partita il più equa possibile. Sebbene Kawabata sia lapidario nel dire che:

“Si perde il senso della partita, come opera d’arte, quando non ci si astiene dall’applicare anche al maestro il principio dell’eguaglianza”

In realtà egli rientra subito nei ranghi, tornando a quel ruolo di narratore che assurge anche al ruolo di mediatore; nel momento più critico della sfida, quando Otake minaccia di abbandonare la sfida, poiché troppo fiaccato dalle snervanti pretese del maestro, Kawabata riesce a farlo ragionare. Come? Con una semplice constatazione:

“La partita del ritiro coincideva con il passaggio a una nuova era, un’epoca di rinnovamento e rivitalizzazione del mondo del go. Interromperla a metà significava arrestare il flusso della storia. Con questa enorme responsabilità sulle spalle, avrebbe forse voluto far prevalere su tutto i propri sentimenti e le proprie ragioni?”

Naturalmente Kawabata vuole allargare la sua riflessione oltre il mondo ludico, evidenziando come un homo novus non avesse quella necessaria fermezza d’animo per bloccare l’incessante flusso dell’esistenza umana. Il timore per il nuovo che avanza fu una costante dello spirito nipponico; basta fare un balzo nel passato ed osservare la stasi shogunale dell’epoca Tokugawa, un lungo sonno della ragione durato più di due secoli, una sorta di medioevo ellenico che fece dell’accidia un punto di forza e un punto di vanto. In realtà, più che sonno della ragione, sarebbe più corretto parlare di silenzio, richiamando il recente film Silence di Martin Scorsese, ambientato proprio in quegli anni oscuri ed immobili della storia giapponese, così bui che i samurai dovettero saccheggiare i campi dei contadini per trovare un senso alla loro nobile esistenza. Naturalmente quella del maestro di Go non è solo una cronaca di un momento storico, ma è anche una profonda riflessione sulla morte; sempre, però, con il dovuto distacco: quando si trova a dovere fotografare, per il giornale in cui lavora, la figura del maestro appena spirata, egli afferma:

“Un obiettivo non fa distinzione tra vivi e morti, tra le persone e le cose, non cede all’emozione e non conosce rispetto”.

Il rispetto è sicuramente assente da un altro capolavoro kawabatiano, ossia Mille gru, in cui si assiste ad una sorta di telenovela, condita con sakè e sushi, in cui succede di tutto: il padre di Kikuji ha due amanti, la Ota e Chicako; il padre di Kikuji muore, suo figlio seduce la Ota e sfugge dalle grinfie di Chicako; la Ota muore, Kikuji cerca di sedurle la figlia e forse la giovane Inamura; la Inamura si sposa, la figlia della Ota pure, Kikuji si dispera; la figlia della Ota non si è sposata davvero, è solo una maldicenza della rediviva Chicako, Kikuji sorride, la figlia della Ota si uccide, Kikuji piange, finisce il romanzo.

Quando si legge Kawabata, è bene tenere a mente una cosa: anche i maestri più grandi hanno scheletri nell’armadio. Quale sarebbe quello di Yasunari? Forse è l’aver, talvolta, sacrificato il suo enorme talento sull’altare dei romanzi da ragazzine. Non è certo un peccato meritevole di pena capitale, condanna alla quale i nipponici sono ancora molto gelosi. Tutto il senso di questo apparentemente frivolo romanzo può riassumersi in un breve e profondissimo estratto, profondo tanto quasi il pozzo in cui riflette, per 800 pagine, il protagonista murakamiano dell’Uccello che girava le viti del mondo:

“Il fatto che i figli ignorino il corpo della madre, da cui pure sono nati, reca in sé qualcosa di stranamente bello, come stranamente bello è il rivivere delle forme materne nel corpo delle figlie”

Citare Haruki Murakami non è certo casuale: una frase del genere potrebbe tranquillamente essere inserita nel suo capolavoro Kafka sulla Spiaggia senza che nessuno si accorga della anacronistica storpiatura. Come è possibile questo? In una società tradizionalista e repressa come quella nipponica, il sesso è un argomento che un grande uomo di cultura non può certo evitare. Diverso, naturalmente, l’approccio: se Murakami è intriso della cultura americana post 1968, spingendosi in ghirigori sessuali talvolta enigmatici, Kawabata, in quell’anno fatidico, era ormai ben vecchio, sebbene non così tanto da tenere un discorso apicale alla premiazione del Nobel. Dunque, a una prima lettura, il passaggio sopraccitato potrebbe sembrare foriero di cattive interpretazioni.

Naturalmente, non è così: Yasunari, con la sua delicata naturalezza e quell’esasperato naturalismo che richiama spesso Flaubert, ci dice, sic et simpliciter, che la cerimonia sacra del thè è guasta, corrotta e corrosa dai tempi moderni. Il sesso è legato alla cerimonia del thè e a tutte le sacralità del Giappone: delicate, sensuali, estetiche ed estatiche. Tuttavia, la sacralità del rito è ammantata da un’aura grande, ma non così grande da impedire l’ammorbamento da una figura negativa come quella di Chicako; una donna con sembianze androgine, con un fare intrigante e con una enorme voglia sul seno è quanto di più lontano ci sia dal modello nipponico di donna femminea, schiva e soave. Ecco la differenza colta dall’osservatore distaccato: la bellezza, esaltata con la corrente artistica Shinkankakuha, in cui:

“Non deve più essere il cervello a scrivere quella cosa è dolce ma deve esserlo la lingua”.

Ha sia un potere salvifico, se posto nelle mani rugose della tradizione, sia malefico, se posto in quelle vellutate della nuova borghesia rampante e moderna. Si tratta un atteggiamento un po’ ambiguo, così come lo fu partecipare nel 1934 al gruppo di discussione letterario istituito dal governo bellicista e il rivendicare allo stesso tempo la propria libertà poetica. Ma si sa, la coerenza non è cosa facile. Talvolta capita di bluffare per arrivare ai piaceri più alti, così come farà Eguchi, l’anziano non così anziano, che fingerà di essere un “ospite di cui si può essere tranquilli” per accedere e scrutare un occultato scenario di impareggiabile bellezza: la bellezza stessa.

“Le tende rosse di velluto ricadevano su tutte le pareti della camera. Anche la porta di cedro da cui Eguchi era entrato si doveva poter celare con una tenda. Richiusa la porta a chiave, Eguchi lasciò cadere la tenda e abbassò lo sguardo sulla ragazza che dormiva. Non fingeva, si udiva inequivocabile il respiro profondo di chi dorme. All’imprevista bellezza della ragazza, il vecchio trattenne il fiato”.

Ecco, la bellezza, quella che coronerà il suo momento apicale, il premio Nobel per la letteratura del 1968, in cui leggerà un discorso intitolato, non a caso, la bellezza del Giappone e io.

“Quando vediamo la bellezza della neve, quando vediamo la bellezza della luna, in breve, quando apriamo gli occhi sulla bellezza dei singoli momenti nel corso delle stagioni e ne siamo sfiorati, quando abbiamo la fortuna di venire a contatto con la bellezza, allora pensiamo agli amici più cari, allora vorremo dividere con loro questa gioia; insomma l’emozione della bellezza risveglia più che mai l’affetto delle persone”.

Ecco; questi amici, con cui condividere la bellezza, siamo noi, i suoi lettori e il mondo intero.

 

Michel Simion-L’intellettuale dissidente

 

 

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