Virginia Woolf: la forza dirompente della parola e la sottile arte con cui è riuscita a coniugare la sua malattia mentale e il desiderio incessante di dare forma al suo essere

E. M. Forster dirà di non aver mai conosciuto una creatura al mondo che amasse tanto scrivere quanto lei. In questa affermazione può essere condensata l’intima essenza di Virginia Woolf. Personalità anticonformista e tenace, artista eclettica e sagace, indefessa pioniera della letteratura moderna. Con la finezza della sua penna ha saputo rappresentare degnamente i travagli e le inquietudini del suo tempo ed affrontare irreprensibilmente i drammi di un’epoca in disuso. Una vita votata interamente alla letteratura e alla lotta contro le oppressioni e le disuguaglianze sociali. Il suo rifiuto alla vita rappresenta la risposta tragica a quel tramonto dei valori verso cui la civiltà della prima metà novecento stava avviandosi irrimediabilmente.

Quando si tenta di tracciare una direttiva che compendi l’intera esistenza di un artista, le strade sembrano diventare quanto mai anguste e prive di sbocchi. E se davanti abbiamo una donna della stazza culturale di Virginia Woolf si rimane persino attoniti: incerti se procedere o ripiegare. È arduo descrivere le impressioni contrastanti che una scrittrice del genere suscita in noi. Virginia Woolf è poetessa visionaria, saggista schietta, romanziera raffinata, critica intransigente, moglie e donna. È tutto questo: eppure nessun universo potrà mai accoglierne l’essenza viscerale e le prismatiche idiosincrasie. In lei la contrapposizione perenne tra perfetto e imperfetto, tra insignificante e imprescindibile trascinano il lettore in uno stato di forte turbamento, di lotta mentale senza tregua. La ragione per la quale siamo abbacinati dalla sua fulgida capacità espressiva e dalla sua grazia nel rendere poetico suono tutto ciò che scrive, fa del suo lavoro un immenso crogiuolo entro il quale calettare la mente facendola riemergere con una consapevolezza nuova. La forza dirompente che imprime in ogni parola e la sottile arte con cui riesce a coniugare la sua malattia mentale e il desiderio incessante di dare forma al suo essere, sono i tratti che la contraddistinguono dai suoi coevi.

Possiamo immaginarla attraversare le vie di Londra alla ricerca di un particolare libro, o accucciata sulla sedia nello scantinato di Monk’s House a registrare avvenimenti e impressioni sul suo diario o a fumare una sigaretta in compagnia di Vanessa, disquisendo sulle sorti della letteratura. Virginia Woolf fu data alla luce il 25 gennaio del 1882 a Londra, da Sir Leslie Stephen e Julia Prinsep Jakson. L’ambiente culturale, entro cui fu precocemente introdotta dal padre, favorì a sviluppare in lei quell’amore per la letteratura che durerà per tutta la vita. Leslie Stephen, scrittore e filosofo di fama internazionale, fu il primo a riconoscerle questa capacità, il primo a cogliere il tratto essenziale del suo carattere: dirà di lei “la mia Ginny sarà sicuramente un autore”. Farà da bambina la conoscenza di personaggi del calibro di Henry James, George Henry Lewes e Julia Margaret Cameron, fonderà un giornalino domestico insieme al fratellino Toby e avrà libero accesso ad ogni scaffale della biblioteca paterna sulla quale fonderà tutta la sua istruzione.

È da tener presente infatti, che alle donne, in quel frangente storico non era concesso né di frequentare le scuole né le università, e tutte le iniziative della Woolf, ossia imparare il greco, il russo, studiare filosofia e la botanica sono tutte iniziative personali, che costituiscono la prova inequivocabile di quell’ardore, di quella autentica pulsione per il sapere, che le farà raggiungere la vetta più alta della prosa inglese. Ella seguì la propria inclinazione letteraria, nonostante la condizione di inferiorità che la società britannica le imputò per nascita, sfidando le rigide imposizioni del canone vittoriano, lottando con gran fervore e attivismo per i diritti e la posizione sociale delle donne. Non a caso, si autodefinì una “outsider”.

I ricordi più vividi e più felici, come lei stessa afferma, furono quelli trascorsi in Talland House, la residenza estiva dei genitori, prospiciente sulla Baia di Porthminster ed è da questi ricordi uniti a quelli tragici della morte della madre quando lei aveva solo tredici anni, causa del suo primo crollo nervoso, che trarrà ispirazione per uno dei suoi lavori più splendidi e di ardua interpretazione: Al Faro. Nei diari si legge:

“Fino a quarant’anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre… Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, pensai Al faro: con grande, involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un’altra… Che cosa aveva mosso quell’effervescenza? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto rapidamente, e quando l’ebbi scritto, l’ossessione cessò. Adesso non la sento più la voce di mia madre. Non la vedo. Probabilmente feci da sola quello che gli psicoanalisti fanno ai pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda”.

Questi saranno gli stessi anni in cui sarà vittima di abusi sessuali da parte dei fratellastri, atto che contribuirà ad accrescere quello stato di depressione che l’accompagnerà in tutta la sua travagliata esistenza. Il 1904 rappresenta un punto di cesura nella vita di Virginia: si assiste al tramonto dell’età vittoriana e ai suoi antichi retaggi; il padre muore lasciando un vuoto incolmabile, e lei, insieme alla sorella Vanessa, si trasferirà in un appartamento a Bloomsbury, un quartiere abbiente di Londra che ogni giovedì sera aprirà le porte ai personaggi più illustri del panorama intellettuale del ‘900, dando vita al Bloomsbury’s Group. E. M. Forster, Lytton Strachey, Clive Bell, sono solo alcune delle personalità che vi fecero parte. In una di quella serate, in cui la libertà intellettuale primeggiava sopra ogni cosa – dove dibattiti accesi su arte, letteratura e politica erano elementi imprescindibili – Virginia Woolf incontrerà il suo futuro marito: Leonard Woolf un giornalista e teorico politico. L’anno successivo comincerà a scrivere per i giornali diretti precedentemente del padre. Il suo ruolo all’interno del circolo letterario rivestirà un’importanza decisiva per la crescita culturale e spirituale del paese. In concomitanza col suo attivismo solerte in movimenti femministi, i suoi studi, incentrati sulla letteratura e sulla critica sociale dell’epoca – in particolare Una stanza tutta per sé e Le Tre Ghinee– saranno i pilastri che sorreggeranno le opere degli scrittori avvenire.

Virginia Woolf è persuasa che la letteratura debba trovare nuove forme di espressione, consone al proprio andamento; che necessita di una trasformazione radicale che sia concorde con la realtà trasformata del suo tempo: la scrittura deve in qualche modo rappresentare la vita nelle forme in cui essa si presenta agli abitatori di quel secolo e coglierne le peculiarità. Essa è stanca dell’usitato magistero della trama tradizionale. E cosi, si mette alla ricerca di una via di fuga da quella che è la prigione del romanzo ottocentesco, oramai obsoleto. L’esistenza ha acquisito un andamento diverso, più consapevole del proprio cambiamento, scandito dai ritmi frenetici delle grandi città, delle metropolitane, degli aeroplani che sorvolano le cittadine. In un saggio scriveva “la razza umana è cambiata”, si è appropriata di una sua particolare consapevolezza, per cui è evidente che non è più possibile adottare il linguaggio precedente. Dal suo lavoro emerge quella voglia innervante di rinnovarsi continuamente, di sperimentare, di superare i limiti inibitori dell’età vittoriana e avversare la staticità creativa in cui la letteratura del suo secolo si era inabissata. Il romanzo può farsi carico dell’emozioni nuove che pervadono il mondo? Può fissare e descrivere quegli aspetti anodini della vita che sfuggono ad uno scrittore prosaico, e che ne costituiscono l’essenza? Le descrizioni dunque non sono semplici espressioni artistiche ma diventano realtà che si manifestano pienamente all’uomo.
Tutto in lei è epifania. Tutto in lei è intuizione improvvisa dell’attimo che sta per dissolversi.

Ho l’idea che dovrò inventare un nuovo nome per i miei libri, con cui sostituire ‘romanzo’. Un nuovo… di Virginia Woolf. Un nuovo che cosa? Elegia? 

E’ con queste parole che in una lettera Virginia Woolf parla del suo lavoro Al Faro. L’opera, fortemente autobiografica segnerà un punto di svolta nell’attività letteraria della scrittrice, imponendo in Inghilterra quel modello stilistico di narrazione che Joyce impose in Irlanda, Proust in Francia e Svevo in Italia, conosciuto come “flusso di coscienza”, in cui la trama tradizionale è abbandonata per dare rilevanza all’introspezione psicologica dei personaggi, e in cui la percezione del tempo interiore assume un ruolo preponderante. Se in La Crociera, Notte e Giorno e La Stanza di Jacob, siamo lontani dalla sperimentazione che magnificherà la Woolf, in La signora Dalloway, testo dalla lirica profonda e travolgente, si possono rintracciare quegli spunti che deflagreranno poi in Le onde, dove la sperimentazione woolfiana raggiunge il suo apogeo e la musicalità delle parole sublima in un profluvio incessante di poesia:

“Non mi ascolti. Stai creando frasi su Byron. E mentre gesticoli col mantello e il bastone da passeggio, io cerco di rivelare un segreto non ancora detto a nessuno; ti sto chiedendo (con la mia schiena contro di te) di prendere nelle tue mani la mia vita e dirmi se sono condannato per sempre a provocare repulsione in coloro che amo”.

Il suo rapporto con le parole è travagliato, irrequieto. Virginia Woolf usa la scrittura per cicatrizzare le sue ferite, per uccidere il fantasma di un passato che si trascina ancora dietro a fatica. Bisogna tenere presente che la Woolf prima di tutto è un’accanita lettrice: ama, più di qualunque altra cosa al mondo leggere, ed è quest’amore incondizionato per la lettura che le permetterà di avere uno sguardo critico sulla letteratura e di essere tra i più brillanti recensori del ‘900. Nei suoi scritti troviamo traccia di quella sua lucidità di giudizio, di quell’acume e ironia sorprendente con cui riesce a parlare liberamente degli artisti e degli argomenti più disparati. La scrittura è per lei vita e morte, gioia e dolore; ma la vita, come la morte, è costante male d’essere: porta con sé innumerevoli tribolazioni da affrontare. E lei, per amor della vita stessa le affronterà con tenacia e perseveranza. Ne La signora Dalloway, scriverà:

Ma che importava allora, si domandò procedendo verso Bond Street, che importava che ella dovesse ineluttabilmente e completamente cessare di esistere; tanto il fervore di vita sarebbe continuato senza di lei; e se ne risentiva forse? O non era piuttosto consolante la certezza che la morte poneva fine a tutto?”

L’abilità stilistica, l’ineffabile senso di urgenza che pervade la sua prosa, la dissoluta irrequietezza dell’anima sua che fluisce prepotente attraverso il pennino bagnato d’inchiostro tracciando sotto la spinta spasmodica della sua mano, ampie volute sul foglio bianco comperato ore prima in una cartolibreria nei pressi di Tavistok Square, dove amava tanto passeggiare, sono il risultato di una padronanza di tecnica narrativa ineguagliabile. La scrittura è inoltre per Virginia Woolf un mezzo per raggiungere una sacralità universale che abbatta le barriere etniche, religiose, politiche e sociali.

“…quando scrivo non sono che una sensibilità. A volte mi piace essere Virginia, ma solo quando sono sparsa, varia e gregaria.”

Insieme al marito subito dopo le nozze, compreranno un torchio tipografico, fondando alcuni anni dopo la casa editrice Hogarth Press, la quale oltre a svolgere un ruolo terapeutico per Virginia Woolf che in quegli anni la depressione stava consumando voracemente, diventa il mezzo efficace per veicolare le idee del gruppo e per stampare in patria i nuovi autori provenienti al di là della Manica, oltre che i suoi lavori. Dopo vari traslochi e innumerevoli viaggi per il mondo, per garantirle un condizione di stabilità e tranquillità, Virginia fu allontanata dal clima caotico e altisonante della capitale per approdare a una dimensione più placida e serafica giù nel Sussex, nella pacifica cittadina di Rodmell. Leonard Woolf assume in questo periodo un ruolo centrale nella vita di Virginia, la quale gli sarà eternamente grata di non averla internata, della costante gentilezza con cui si prende cura di lei, della squisita bontà d’animo con la quale la accudisce e la conforta. Più che un marito assunse sempre più le sembianze di un amico fedele, di un consigliere fidato che l’avrebbe sostenuta sempre in qualunque scelta lei avesse presa.

Ai vari esercizi di scrittura si aggiunge la stesura costante di un diario: un luogo non sottoposto alla rigida severità della sua critica e di quella di recensori famelici, uno spazio aperto dove poter dare voce piena ai suoi sentimenti, a quelle parole che mai avrebbe pronunciate in presenza di nessun essere umano, un luogo idillico in cui rifugiarsi, in cui farsi forza nei momenti peggiori e di congratularsi per i successi, in cui parlare delle gestazioni dei suoi romanzi e delle insicurezze che la attanagliavano, insicurezze così forti da far passare al vaglio costante di Leonard qualunque suo lavoro. Più volte nei diari, ammetterà infatti, di come essa dipendesse totalmente dal suo giudizio. Inoltre confesserà le relazioni avute con alcune donne come Vita Sackville-West e Ethel Smyth, che influenzarono profondamente la sua vita e le sue opere letterarie. Da queste pagine, oltre che alla tenacia, all’estrema vitalità e all’immensa energia rivitalizzante testimone di quanto fosse pervasa la sua infaticabile mente, emerge anche il suo disturbo bipolare, il terribile aspetto della psicosi che tanto la affliggeva, e la sensibilità acuta con la quale ne veniva a contatto.

La malattia è per Virginia Woolf un modo per osservare la realtà con occhi nuovi: paradossalmente, possiamo dire che la sua pazzia alimentava in un certo modo la sua arte. Da essa trae linfa vitale per i suoi scritti. Come se la condizione di instabilità mentale, la sua convivenza con essa, la predisponesse a scandagliare l’abisso senza fondo della sua anima per poi risalire in superficie con una prospettiva differente e una forza corroborante. Del resto, è ciò che accade ad una creatura terribilmente sensibile come lei. Le crisi depressive negli ultimi anni della sua vita si intensificarono e divennero sempre più frequenti. Si fa fatica a proseguire la lettura delle ultime pagine del diario: è dilaniante la certezza che di lì a poco la sua esistenza stia per terminare:

Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so… Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe… Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi”.

Eppure, non sapremo mai i reali motivi che la spinsero a un gesto cosi disperato: forse le prospettive di una seconda guerra mondiale, l’avvento del Nazismo, la malattia che non le avrebbe permesso di dare un contributo artistico e letterario soddisfacente, una certa consapevolezza di aver già scritto tutto e non avere più ispirazione, il pensiero fisso della morte e la sua contemplazione. Possiamo immaginarla uscire dalla casa a Rodmell, la fredda mattina del 28 marzo del ‘41, e dopo aver scritto la toccante lettera al marito, avviarsi verso il boschetto; possiamo ascoltare l’eco sommesso del calpestio e lo scricchiolare delle foglie d’erba sotto i passi incessanti e peritosi. Possiamo osservare un volto avvizzito, provato dal tempo: dai lineamenti duri, spigolosi, le guance scarne, il naso adunco e occhi incavati, ebbri di una stanchezza insostenibile e inenarrabile. Una mano smunta stringe un bastone da passeggio mentre il suo incedere, risoluto aumenta progressivamente ad ogni passo. Cosa pensasse in quel terribile frangente, quali sensazioni albergassero in Virginia Woolf, non ci è dato sapere. Eppure, l’osserviamo dirigersi verso il fiume Ouse, mettere delle pietre nelle tasche del soprabito, immergersi nelle acque profonde e rivolgendo un ultimo intenso addio al mondo, lasciarsi annegare dolcemente.

Ho sognato talvolta che all’alba del Giorno del Giudizio, quando i grandi conquistatori e uomini di legge e di Stato torneranno per ricevere la loro ricompensa – corone, allori, nomi indelebili scolpiti sul marmo imperituro -, l’Onnipotente si rivolgerà a Pietro e dirà, non senza una punta d’invidia, vedendoci arrivare con i nostri libri sottobraccio: «Vedi, questi non hanno bisogno di ricompense. Non abbiamo niente da dare loro. Amavano leggere».

Jorge Luis Borges, tra mito e logos, amante dell’Europa, con una vocazione universale opposta al cosmopolitismo straccione odierno

Destra o sinistra, poco importa, uno scrittore deve pensare ad altro: «I comunisti – raccontò Borges ad Alberto Arbasinomi considerano un fascista, i fascisti mi considerano un comunista, dunque non sono da nessuna parte, sono un vecchio individualista». Lo accusarono di “cosmopolitismo culturale”, lui, amante dell’Europa, ebbro dell’idea di sintetizzare Oriente e Occidente, con una vocazione universale (non universalistica) che rigettava l’idea di esaurirsi in una letteratura, in una nazionalità. Considerava la storia del mondo come uno spartito, (la sola) in grado di far incontrare culture diverse senza spargimenti di sangue. Una vocazione, ça va sans dire, opposta a quel cosmopolitismo straccione che oggi è la madrelingua di un mondo globalizzato e sradicato.

Un uomo sogna di essere una farfalla. Poi si sveglia: è ancora un uomo. Elementare, no? Ma se fosse a sua volta un sogno della farfalla? Non c’è modo di saperlo. È possibile però scriverci su. È quello che fece Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986), cartografo dell’onirico, geografo dell’immaginario. È forse il sogno a costituire la cifra più autentica di questo realista magico argentino, tra i massimi scrittori del secolo breve, che ci ha regalato capolavori come L’Aleph e Finzioni. Vero erede di Calderón de la Barca, era dotato di una memoria straordinaria, che gli permise, nonostante la cecità in cui il destino lo precipitò, di garantirsi un repertorio di opere sempre presenti nella sua biblioteca intellettuale. La cecità… In uno dei suoi racconti più intensi, Günther Anders parla di due prigionieri, costretti in una cella buia: è solo il sogno a restituire i colori a Olo e Yegussa, in un singolare ribaltamento di prospettive. Il giorno è la loro notte, e viceversa. Lo stesso potrebbe valere per Borges, la cui vivida immaginazione riempì d’immagini il buio perenne nel quale si trovò a vivere.

Nobel mancato (per via di un apprezzamento su Pinochet che non riscosse particolari entusiasmi tra i suoi colleghi svedesi), nella sua opera immortale ha sviluppato il gioco di scatole del Lewis Carrol di Through the Looking Glass. La sua Alice è un sogno del Re Rosso («Cosa credi stia sognando?» le chiede ironico Tweedledum) e non è più o meno reale di quella al di qua dello specchio. E l’autore, a sua volta, non è un ennesimo sogno di se stesso? Una fuga di saloni, insomma, attraverso i piani dell’essere, fino all’Ente Sommo e più oltre ancora: che accadrebbe al risveglio? Forse, «se l’Eterno / Spettatore cessasse di sognarci / Un solo istante, ci incenerirebbe, / Bianco e improvviso fulmine, il Suo oblio».

A Borges, tra l’altro, non interessava tanto il sogno in se stesso, quanto la sua irruzione nella realtà. La storia? «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli» – ed è probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. È la somma ironia di Borges, la quale – come la danza di Shiva – edifica mondi dal nulla e, in un batter d’occhio, solvet saeclum in favilla. «Noi – scrisse – abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e stabile nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità per sapere che è falso». La storia è un lungo sonno, d’accordo. Ma questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Spetta all’artista – e non allo storiografo – viverli in modo più lucido, sognar più vero, come scrisse Nietzsche (non molto amato dallo scrittore argentino, invero). Ebbene, continua Borges, i sogni ricorrenti della storia sono quelli che comunemente chiamiamo simboli, archetipi, verità antiche, eterne, ribadite di secolo in secolo, di generazione in generazione. Dietro all’artista agisce un sostrato profondo – l’Inconscio Collettivo di Jung, la Grande Memoria William Butler Yeats – che modula su nuove variazioni temi antichissimi. Il principale è la segreta simpatia che lega l’uomo al cosmo, le correspondances cantate da Baudelaire, l’idea che ciò che siamo non si esaurisca in un’individualità ma sconfini in un destino molto più ampio… Lo raccontò a Ronald Christ, nel corso di una lunga intervista:

«L’intero universo è attraversato da legami; ogni cosa e connessa al tutto, […] è uno specchio segreto dell’universo».

Anche se spesso poeti e scrittori non ne sono del tutto coscienti, è questa simpatia universale che narrano. È ad essa che accordano il loro canto. È la Grande Arte, bellezza. Il resto non è che feticcio. È sempre la Parola a compiere questo piccolo miracolo. È il linguaggio, evento anzitutto simbolico la cui genesi non si esaurisce nella sfera mentale o sociale, come una pessima filosofia del linguaggio ci ha fatto credere. L’origine del verbo è sacra, come instancabilmente hanno ripetuto intellettuali di ogni latitudine – Attilio Mordini, Thomas De Quincey e Arthur Machen, solo per fare qualche nome –, e non un imprecisato e vacuo flatus vocis. Scintilla divina che il tempo ha usurato, spetta al poeta «restituire alla parola, almeno parzialmente, la sua primissima e oggi nascosta virtù». Basta ascoltare il Robert Browning cantato da Borges per capire quale sia la quintessenza del linguaggio secondo lo scrittore argentino:

«Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mercurio fuggitivo, / farò che le comuni parole / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / Dirò a mia volta le cose eterne».

Nasce proprio qui la supremazia dell’estetica su discipline come etica, filosofia, storia, teologia… Prima di essere ingabbiato nelle morali e nelle filosofie, prima di essere trascritto su tavole di pietra o in dottissime trattazioni, il mondo accade come fenomeno estetico. Guai a chi riduce a prodotto storico l’arte, che non dovrebbe servire il tempo ma combattere la tirannia di Chronos. L’arte, scrive Borges, è «un piccolo miracolo […], che sfugge, in qualche modo, all’organizzata casualità della storia». Se la storia invade il terreno dell’arte, ecco nascere la storia della letteratura, la sociologia della letteratura e via dicendo. Discipline che mettono definitivamente a tacere le Muse. Dove comincia l’analisi termina la bellezza. Ma art happens, l’arte accade, ripetendo ogni volta il prodigio della genesi, aprendo squarci d’assoluto sulle nostre vite. L’arte legittima la storia, non viceversa: in aperta opposizione agli eruditi e ai collezionisti di dati, per giustificare l’universo basterebbero pochi versi, «la bellezza di qualche sillaba, di un quadro, di una statua […]. È una difesa dell’estetica. Se l’estetica è invece intesa come giustificazione della storia risulta pesante, addirittura vanitosa». Naturale che il critico americano Harold Bloom abbia inserito Borges tra gli alfieri del Canone Occidentale, i quali non concepiscono l’esistenza che come fenomeno estetico. Al diavolo le scuole letterarie, sepolcri dello stile! E al diavolo la cosiddetta “arte impegnata”, ancella della morale o della politica:

«È un’ingenuità […]. Uno scrittore può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Egli deve essere leale verso la propria immaginazione e non verso le ovvie, effimere circostanze di una supposta “realtà”».

Mai piegarsi alle mode del momento: meglio cogliere nel divenire ciò che si ripete – i sogni ricorrenti, appunto, gli archetipi. Siamo tutti variazioni viventi di un tema antichissimo. Lo scrisse nelle sue Altre inquisizioni: «Forse la storia universale è la storia di alcune metafore». Non sono poi tantissime, a dire il vero: l’assedio di una città, il ritorno dell’eroe, la queste, il sacrificio di un dio, gli specchi e i labirinti, le tigri e i pugnali, l’enigma del tempo, le biblioteche… Un ventaglio di immagini, a esaurire la storia universale. Inafferrabili alla comprensione logico-razionale, continuano a sottrarsi, per poi rivelarsi fulmineamente. Ed è dall’abisso del loro ritrarsi che sorge l’opera d’arte:

«Quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico».

Queste metafore non vengono “inventate” da qualcuno ma attraversano i secoli e gli uomini, in cerca di qualcuno che dia loro architettura estetica. Costui è il poeta, il cui lavoro «è di natura passiva; si ricevono doni misteriosi e poi si cerca di dar loro una forma, ma si comincia sempre da qualcosa che non siamo noi». È un’alchimia di corsi e ricorsi, ché «al destino piacciono le ripetizioni, le varianti, le simmetrie». Peccato che la memoria degli uomini («copie temporali e mortali / di un archetipo inconcepibile») sia corta, cortissima – complice anche la storiografia, che l’ha atrofizzata, con il culto del dettaglio e la mania dell’esattezza. Meglio affidarsi alle cose, più antiche degli uomini: le spade, che hanno attraversato diversi costati, le pietre, sopravvissute ad assedi e devastazioni, gli specchi, i labirinti, il senso delle stagioni, le nascite e le morti… Una visione metastorica sulla storia, insomma, giacché «nel tempo durano solo le cose / Che non appartennero al tempo». Ed ecco che un capodanno diventa l’occasione, in una poesia giovanile poi pubblicata in Fervore a Buenos Aires, di riflettere su ciò che nel tempo non si esaurisce:

«Il sospetto generale e confuso / dell’enigma del Tempo; / è lo stupore di fronte al miracolo / che nonostante le infinite sorti, / che nonostante siamo / le gocce del fiume di Eraclito, / qualcosa in noi perduri, / immobile».

È forse una delle immagini più efficaci del nostro Sé, il cui luogo naturale è un’origine non esiliata all’inizio dei tempi ma che è illud tempus, che si ripete ad ogni istante regalandoci il crisma dell’immortalità. È qui che sgorga la vera Arte, è qui che affondano le radici del Grande Stile. Nel corso dei secoli sono stati dati molti nomi a questo Altrove: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La nostra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, subcosciente collettivo e via dicendo, ma è sempre la stessa cosa». Ecco il punto: ogni epoca ha le proprie mitologie, ma Borges preferiva quelle antiche alle mistiche dell’inconscio di Freud (che aveva definito «un ciarlatano ossessionato dal sesso»), cui preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung. A patto che, ovviamente, venisse letto come un creatore di miti. Lo stesso dicasi per Plinio o Il ramo d’oro di Frazer. Tutte enciclopedie dell’immaginario. Un immaginario – aggiunse, con quell’ironia che abbiamo già conosciuto – il quale, molto probabilmente, nemmeno esiste. Al pari della realtà. Palla al centro.

La morte, lo scrivere, il leggere, l’amore, l’amicizia, il karma, la cecità.

Ora, verrebbe da chiedersi: poteva un uomo che si muoveva entro queste coordinate intercettare in qualche misura la politica del suo tempo? Certamente no. E, infatti, i suoi rapporti con l’attualità furono disastrosi. Antiperonista, avverso alle aristocrazie come alle plebi, pagò cara la sua opposizione, come raccontò in quello che dovette essere un abbozzo di autobiografia: poco dopo l’ascesa di Peron, «mi fu data la bella notizia che non avrei più lavorato nella biblioteca ma che ero stato “promosso” a ispettore di polli e conigli ai mercati». Andò in municipio, chiedendo perché fosse stato destinato proprio a lui questo onore: «Be’ – rispose l’impiegato, – lei era dalla parte degli Alleati. Che cosa si aspettava?». Cosa rispondere? Il giorno dopo diede le dimissioni. Era pedinato costantemente da un detective (antiperonista, tra l’altro), con il quale finì per stringere amicizia. Quei pedinamenti divennero delle lunghissime conversazioni. È quel che accade quando il destino forza le sbarre della realtà. Questo impolitico conobbe la disgrazia di sottoporre la contemporaneità al vaglio della sua visione del mondo, nulla risparmiando. Conservatore, a chi gli chiedeva cosa pensasse delle rivoluzioni rispondeva:

«Solo una rivoluzione nel petto di ciascun uomo potrebbe riportarci a quella dignità che, per essere antica, è sempre nuova».

Meglio stare lontani dalla politica e dall’attualità. La democrazia? «Un curioso abuso della statistica». Le masse? Costruzioni dei politici: contano solo gli individui. Spenseriano fino al midollo, detestava lo Stato, occhiuto e onnipresente, quello raffigurato dal suo amato Kafka, nei cui racconti gli individui, ridotti a variabili statistiche, si perdono nei labirinti di un meccanismo antiumano.

Un destino la cui espressione più straordinaria è quel piccolo capolavoro che è l’Antologia della letteratura fantastica, realizzata con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, «uno dei pochi libri che meriterebbero di essere salvati nel caso di un nuovo diluvio universale», come disse egli stesso ridendo. Un giudizio che non si può non sottoscrivere. Oltre a condensare tutte le sfaccettature della Weltanschauung borgesiana, quest’antologia è il manifesto ideale di tutti gli antimaterialisti, di chi non si ferma alla superficie delle cose, di chi crede nella forza dell’immaginazione. È un manifesto universale, poiché tutta la letteratura è fantastica. Lo è sempre stata, come Borges raccontò ad Arbasino, «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono ramificazioni di questo genere. Ne condividono gli archetipi e i simboli, modulandoli in base allo Spirito del Tempo. È per questo che «bisogna ritornare a questa tradizione fantastica che è la vera grande tradizione, la tradizione principale della letteratura; il resto è piuttosto giornalismo, sarà anche storia, ma non è letteratura». Il realismo? Un episodio funesto, che ha infestato qualche secolo ma ben presto tramonterà. La grande letteratura, ci dice Borges, non è mai stata realista. Ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di tutti i tempi. Non ha mai celebrato, sic et simpliciter, la realtà. E scrivere di letteratura fantastica significa emendare questo errore, tornare alla normalità:

«Io non sono affatto un innovatore, e […] non ho fatto altro che continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte quello che faceva anche Dante».

Più chiaro di così… E la letteratura fantastica altro non è che il campo di battaglia degli archetipi. Selezionando i testi, disse a María Esther Vázquez nel corso di una lunga intervista pubblicata in italiano negli anni Novanta, Borges, Bioy Casares e la Ocampo verificarono che, «anche se molto diversi fra di loro e provenienti da diverse epoche e paesi, sempre ruotavano intorno ai medesimi temi». L’identità personale, scissa e traslata, plurale e proteiforme, la metamorfosi, i talismani, «la causalità magica, che si oppone alla causalità reale, le interferenze del sonno e della veglia, la fusione dell’onirico con il quotidiano e – il filone forse più ricco – l’argomentare sul tempo. In questa ultima categoria rientrano le profezie e i sogni profetici». Tutto si tiene, insomma, il reale e il fantastico. Senza soluzione di continuità. «La realtà lavora in aperto mistero» amava dire Macedonio Fernández, amico di Borges. Potrebbe essere il titolo di una sua opera, scrisse Fernando Savater, che ricorda anche come Borges, sul letto di morte, tenesse una selezione delle lettere di Voltaire e i Frammenti di Novalis, che l’infermiera gli leggeva di continuo.

L’illuminista e il mago, il reale e l’onirico, Platone e Aristotele: queste le polarità che scandirono la sua vita, e che egli fu capace di combinare e sintetizzare, intravedendo nelle architetture speculative e teoretiche un prodotto dell’immaginazione creatrice. Tra mito e logos Borges scelse di non scegliere, avventurandosi in una realtà dalle continue contaminazioni magiche. Non è un caso che Louis Pauwels e Jacques Bergier abbiano inserito un frammento dell’Aleph nel loro Mattino dei maghi, breviario del realismo magico. Non si conosce il mondo se non lo si affronta nei suoi frangenti magici. La vita è sogno. E L’Aleph può trovarsi ovunque, anche nei sottoscala. E così procedette, attraverso labirinti e biblioteche, l’Europa e il Nuovo Mondo, Oriente e Occidente, sbozzando l’immaginario collettivo intorno a un centro unico (ciò che è in alto è come ciò che sta in basso) che sempre si sottrae, lasciando come caput mortuum un segno su un foglio di carta, a dirimere un’immagine, che troviamo nell’epilogo de L’artefice:

«Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Salvatore Satta, il giurista scrittore, lirico ed evocativo, autore del capolavoro misconosciuto ‘Il giorno del giudizio’

Salvatore Satta è un nome noto ai più come autore di uno dei più grandi romanzi della letteratura del Novecento, il romanzo postumo Il giorno del giudizio del 1977, capolavoro misconosciuto, opera biblica, agrodolce, evocativa, dalla prosa scarna, nella quale dietro le storie asciutte e feroci, dietro la concretezza durissima dei fatti, sentiamo una continua febbre visionaria. Sospeso nel momento innaturale e veggente del giudizio, un intero mondo parla qui per la prima volta e si inabissa: ogni sua traccia ha in queste pagine un’intensità violenta, dolorosa e, a tratti, di disperata dolcezza. Alla fine sentiamo che davvero «il sogno galoppava in quelle brulle lande». Agli addetti ai lavori, invece, è noto come finissimo giurista. I suoi scritti giurisprudenziali sono raccolti nel monumentale volume Soliloqui e colloqui di un giurista nel quale si trovano, tra le varie barbosità destinate ai tecnici del diritto, riflessioni di filosofia politica e del diritto che per chiarezza concettuale e radicalità di indagine nulla hanno da invidiare ai testi di uno Schmitt o di un Mortati. Nuorese di nascita e di vocazione, studente del prestigioso Liceo Azuni di Sassari e della Facoltà di Giurisprudenza della stessa città, Satta è entrato postumo nell’olimpo dei letterati italiani, fornendo salda ispirazione a quella scuola di letteratura sarda formata da Sergio Atzeni, Salvatore Niffoi e altri apprezzatissimi autori. La sua confidenza con le lettere era evidente già nell’opera giovanile La veranda, paragonata da Marino Moretti a La montagna incantata di Thomas Mann, e pubblicata soltanto negli anni Ottanta.

Eppure, se mettiamo da parte Il giorno del giudizio“straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere”,  la destrezza lirica di Salvatore Satta si manifesta con luminosità nella scrittura privata, estemporanea, effimera quasi a raggiungere i livelli degli attuali messaggi di chat; ma a differenza di questi ultimi, deprecabili nella loro presuntuosa lapidarietà à la Twitter, o nella ostentata vacuità da gruppo gossipparo su Whatsapp, i messaggi di Satta istituiscono un genere letterario a sé, che richiama il poetare giocondo del Mallarmé dei Loisirs de la Poste. Perché prima che insigne giurista, raffinato pensatore e uomo di tormentata fede, Salvatore Satta è stato amorevole padre ed esemplare marito, e la raccolta dei Padrigali mattutini (Ilisso, 2015, pp. 123) ne è testimone. Nel periodo di docenza all’Università di Genova, nel secondo dopoguerra, egli dedicava i primi minuti della giornata alla stesura di brevi lettere in versi, senza l’intento di raggiungere lontani continenti, bensì con l’unico scopo di scavalcare il tempo e lasciare un avviso, una comunicazione, un saluto, una testimonianza di passaggio alla propria consorte, qui ricorrente sotto il nomignolo di Mucio, stretta ancora nel sonno della prima luce mattutina.

«7.VI.55

Cara Mucio,
ho scritto la lettera per Zizzi Bachisio,
e questo mi ha tarpato le ali. Non
posso risalire dai profondati abissi per
offrirti un verso mattutino. Ma sia come fatto.
[…]
State allegri, rinfrescatevi al bagno,
e pensate a un malinconico individuo
che stasera dovrete purtroppo rivedere.
Avete e favete.
BiBi»

Così Salvatore Satta, levatosi dal talamo all’aurora, si dedicava giocosamente a una poesia spensierata, talvolta firmando i propri versi come BiBi, Pater Bibus, Il viandato, Il penestrello, L’errante, talaltra non disdegnando la simulazione storica e letteraria, trasformandosi dunque in Ettore, in Ulisse, in Romeo, finanche in Pindaro, Dante, Bocaccio:

«Canto 7500 LA DIVINA COMMEDIA Gli oziosi

Come colui che lascia moglie e prole
e la placida casa in riva al mare
per pascersi di inutili parole,
tal mi vid’io, e vedermi ancor pare,
quando uscii per andare a quel congresso
di gente che non sa che cosa fare,
tra Jaeger porco e Enrico Tullio fesso.

Bibi Dante».

C’è in questi messaggi privati l’avversione nei confronti della vita accademica (i riferimenti portano ai giuristi Nicola Jaeger ed Enrico Tullio Liebman), ritmata dagli incontri di gente che non sa che cosa fare, così lontana dai piccoli ma determinanti problemi di una quotidianità angustiata tra un frigorifero rotto e il bisogno di un viaggio:

«Il frigorifero piange: non potresti dare un
“colpo” di telefono alla Fiat? Forse ci riesci.
Raccogli tutti i messaggi telefonici con
cura. Prepara una gita per domani».
O ancora, a indicare un’uscita frettolosa dalla casa:
«Impossibilitato lasciare
versi prego far sturare
lavandino

Pindaro».
«Non sono né Onorio né Arcadio
ma sono la tua metà.
Trasporta pure l’armadio
se questa è la tua voluttà.
Per la follia che ti invasa
staccarmi non so più da te.
Però le chiavi di casa,
cara, le porto con me».
Ma le preoccupazioni casalinghe («nel bagno dei frugoletti si è staccato / il galleggiante del wc. / Vedi di farlo riparare. / Tutta la notte è corsa l’acqua dentro il / mio confuso cervello. /Spero che possiate andare al bagno. / Vi seguirò col pensiero […]») costituiscono soltanto una parte della costellazione tanto lirica quanto ironica di Salvatore Satta. Concepiti per essere destinati privatamente alla moglie amata, la studiosa di letteratura russa Laura Boschian, i padrigali si danno al lettore in una veste esoterica, piena di riferimenti a colleghi, parenti e amici stretti, i quali compaiono sotto falso nome e ricostruiscono il quadro di rapporti che il giurista intratteneva nel suo periodo ligure. Si legge in una carta targata Università di Genova – Facoltà di Giurisprudenza:
«Lentamente migliora la mia panza
ma l’anima si strugge di dolore,
perché mi sveglia nelle male ore
il pensiero di Gano di Maganza.

Di te, di me egli si è preso a gabbo,
del complesso muciano, quel serpente.
Non resta che augurare un accidente
Al tristo sassarese impiccababbo».

Ogni pagina costituisce dunque una rivelazione della vita privata e, allo stesso tempo, un nuovo misterioso gradino da interpretare – sono in tal senso utilissimi l’introduzione di Valerio Magrelli e il repertorio fotografico che chiude il volume. Una paterna tenerezza e una profonda nostalgia della patria accompagnano i basicheddos a tottis, i pistoccos e i tormentati ricordi di una terra:

«Nell’alba mi volgo a ritroso
misuro tutto il passato
forse perché ho mangiato
un papassino schifoso.

Rivedo l’olio fetente
il vino che ha preso lo spunto
ripenso con disappunto
al sardo amico e al parente.

In questi tristi pensieri
muovo incontro al mio giorno
l’oggi mi si fa ieri
la sola speme è il ritorno».

Nessuna verbosità o loquela avvocatesca nei padrigali sattiani di Salvatore Satta, bensì l’entusiasmo un po’ fanciullesco per l’officina della parola che si fa divertissements, come tradisce un verso: «[…] ho scritto / così solo per la rima». E se l’improvvisato poeta si profonde in una scrittura aulica o anacronistica, eccolo già intendo ad aggiungere, come fosse giudice di se stesso, delle note esplicative che fanno il verso al commento critico. Ridefinendo i propri ruoli familiari e sociali, l’autore si ritaglia un angolo tra l’esclusione della vita casalinga, da cui si allontana e che saluta attraverso le rime, e l’uscita nel vasto, spaventoso e ostile mondo extra-domestico. Ecco dunque il distacco dal giaciglio diventare occasione di rielaborazione, non più troppo s-pensierata, della propria vita:

«Nella notte insonne ho fatto come Dighino
con l’Iliade: ho voltato in prosa la
poesia della mia vita. Ma ora sono in
piedi e rifaccio il lavoro inverso: ricompongo
in versi e in rime la prosa, e mi appresto
ad aggiungere un breve capitolo all’eterno
poema. Farò rimare Giussani con Torchiani,
Invernizzi con Bizzi, Delitala con Cicala.
Difficile sarà trovare una rima con Lichinchi».

Il gioco della parola, dove la leggiadria del verso e il sentimento di nostalgia si scontrano, sfocia nel congedo che mai è abbandono, ma sempre virile e paterna coscienza del proprio ruolo di sorvegliante e difensore. La superiorità dell’uomo in seno al focolare per Salvatore Satta, si fa forza protettrice, scudo domestico, riparo per chi, immerso nel sonno, non ha spada:

«Madre, suoceri, figli e canarini,
dormono tutti di un profondo sonno.
Solo colui che vi è maestro e donno
veglia sui vostri placidi destini».

Filippo Tommaso Marinetti, un cortocircuito della storia europea, protoideatore dei fenomeni di comunicazione di massa che oggi caratterizzano le nostre vite

Tentare di definire Filippo Tommaso Marinetti oggi è un esperimento difficile. Possiamo definirlo un “rivoluzionario”, un “cortocircuito” della storia culturale europea, ma soprattutto, un profetico anticipatore, ai limiti dell’incredibile. Dalla propaganda allo scandalo all’editoria, Marinetti è stato il protoideatore dei fenomeni di comunicazione di massa che oggi caratterizzano le nostre vite; nei suoi scritti compaiono descrizioni fantascientifiche di nuove tecnologie e abitudini, pienamente rintracciabili oggi in computer e social networks.

Scuotere l’Italia “a suon di schiaffi e dinamite”, scrive Giordano Bruno Guerri nella biografia dedicata a Marinetti, era la missione del padre del Futurismo e di tutte le sue declinazioni. Lo schiaffo, la dinamite: la rinascita artistica che comincia da una particella elementare, il suono, una rifondazione che parte dal segno, dalla radice, per sconvolgere le fondamenta di un’intera cultura.
«Col preannunzio sciroccale del Hamsin e dei suoi 50 giorni taglienti di sanguigne scottature desertiche nacqui il 22 dicembre 1876 in una casa sul mare ad Alessandria d’Egitto».

Secondogenito di una giovane coppia milanese, F.T. nasce in terra africana per volere del padre Enrico, avvocato, convinto al trasferimento dalle buone prospettive di lavoro offerte dall’apertura del Canale di Suez. Insieme al fratello Leone viene educato al Collegio Internazionale San Francesco Saverio, un istituto gesuitico dove incontrerà un altro illustre innovatore della poesia italiana del Novecento, Giuseppe Ungaretti. Grazie alle ingenti somme guadagnate dagli affari del padre, perfeziona gli studi con un baccalaureato a Parigi nel 1894. Dopo il soggiorno parigino, eccolo in territorio italiano, a Pavia, dove raggiunge il fratello per studiare legge, facoltà che abbandonerà presto a causa della morte di Leone. Conclude gli studi universitari a Genova e vince nel frattempo il concorso parigino Samedis populaires con il poemetto Les vieux marins. Il componimento è il taglio del nastro agli ambienti intellettuali francesi: in breve tempo viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie, La Conquete des Étoiles, la carriera giuridica definitivamente accantonata. Marinetti continua a comporre versi in stile liberty e simbolista, guardando a Mallarmé e D’Annunzio – stimato rivale quest’ultimo, amato e odiato, lui stesso si definì “figlio di una turbina e di D’Annunzio, da cui sarà definito “cretino fosforescente”.

Nel 1905 fonda la rivista Poesia, la nuova palestra del verso parolibero firmato F.T. Nel 1908 eccolo tirato fuori da un fossato a Milano, nella sua automobile, uscito fuori strada per evitare due ciclisti; l’episodio si farà aneddoto – come poi molti altri – e diventerà per Marinetti la chiave di lettura della rivoluzione culturale programmata per il prossimo anno: l’uomo estratto dall’automobile è l’uomo nuovo futurista che dopo aver vinto l’inferno della tradizione ed aver accantonato lo stile liberty e decadentista rappresentato dai due «noiosi» ciclisti, può volgersi all’istituzione di un’arte nuova, rivoluzionaria.

Il febbraio 1909 è arrivato. Tutto è pronto per il lancio della bomba. F.T. ha sedotto Rose Fatine, 20 anni, figlia di Mohamed el Rachi Pascià, un vecchio egiziano, ricco azionista de LeFigaro. Grazie alla buona intesa dei giovani amanti, l’uomo asseconda la bizzarra richiesta dell’italiano, ignaro del privilegio di partecipare ad un evento storico mondiale: pubblicare sul giornale il suo Manifesto. Il 20 febbraio 1909 sul quotidiano nazionale francese viene lanciata la bomba: esce il Manifesto del Futurismo, undici punti, con appendice. Il Futurismo è fondato. Sintetizzerà Marinetti: «E’ un movimento anticulturale, antifilosofico, di idee, di intuiti, di istinti, di schiaffi, pugni purificatori e velocizzatori. I futuristi combattono la prudenza diplomatica, il tradizionalismo, il neutralismo, i musei, il culto del libro.» La parola d’ordine è “Velocità”. Come dinamismo, come simultaneità, come meccanicismo e libertà. Marinetti stravolge ogni dogma della poesia e delle arti e ne ritaglia un vestito nuovo, “moderno”, diremmo oggi, come il secolo XX. Protagonista di quest’ultimo, annuncia F.T., sarà la Macchina, metafora dell’impeto prometeico dell’uomo nuovo.

Per evitare una volta per tutte l’associazioni del poeta Marinetti e del futurismo all’idea infantile e brutale dell’adorazione della macchina e della modernolatria, ecco un passo del discorso che F.T. stesso tenne nel 1924 alla Sorbona:« Io intendo per macchina tutto ciò ch’essa significa come ritmo e come avvenire; la macchina dà lezioni di ordine, disciplina, di forza, di precisione, d’ottimismo e di continuità. […] Per macchina, io intendo uscire da tutto ciò che è languore, chiaroscuro, fumoso, indeciso, mal riuscito, trascuratezza, triste, malinconico per rientrare nell’ordine, nella precisione, la volontà, lo stretto necessario, l’essenziale, la sintesi». Il Manifesto è discusso in tutta Europa, i giornali lo chiamano “Caffeina d’Europa”. Intanto Marinetti continua a scrivere poesie, romanzi e testi teatrali, tra cui si ricordano “ Gl’Indomabili”, il censuratissimo “Mafarka il futurista” e la sceneggiatura “ Re Baldoria”.

La fama di Marinetti si diffonde per tutto il Vecchio Continente, legata soprattutto alle esuberanze e ai modi “futuristi” di F.T. & Co. In particolar modo diventano celebri le serate-futuriste: spettacoli teatrali in cui vengono fuse performance di vario genere, dalla declamazione alla piéce teatrale, durante cui il futurismo fa da protagonista e le bagarre e gli scontri con il pubblico sono la norma, e ne alimentano la curiosità. Il 1911 inaugura la stagione dei viaggi del poeta e della maggiore sperimentazioni linguista e letteraria. Scoppiata la guerra con la Libia, parte al fronte come reporter per un quotidiano d’oltralpe. Poi è a Mosca e San Pietroburgo, invitato dai futuristi russi a fare propaganda. Nel frattempo in Lacerba, la rivista fiorentina diretta da Papini e Soffici, il futurismo trova il miglior canale di diffusione in Italia parallelamente alla pubblicazione di Zang Tumb Tumb, un reportage bellico scritto in parole in libertà. La prima guerra mondiale fa esplodere il cuore di Marinetti, che, in seguito all’attentato di Sarajevo, si arruola volontario: è a Caporetto ma anche a Vittorio Veneto. Tornato dal conflitto si interessa alla politica cui lo spirito rivoluzionario affascina Mussolini che si avvarrà di molti futuristi nel giorno della proclamazione dei fasci di combattimento, nel 1919 al San Sepolcro. Giudicate passatiste e reazionarie le idee di Mussolini, se ne allontanerà, pur sempre rimanendo rispettato e considerato dal Duce. Si lega nel frattempo a Benedetta Cappa, pittrice e poetessa che accompagnerà Marinetti fino alla fine dei suoi giorni, sua «eguale, non discepola». Nel ’35 parte volontario in Africa Orientale, nel ’42 si arruola per la campagna di Russia. Marinetti viene rimpatriato con l’arrivo dell’autunno, spossato e in precario stato fisico. La morte lo coglie il 2 dicembre 1944, a Bellagio sul Lago di Como, all’alba dopo una notte di lavoro poetico consacrato al Quarto d’ora di poesia della X mas, complice il cuore.

Nel pensiero di Marinetti compare inoltre quella percezione di scontro di classe che determinerà anche l’affermarsi dei successivi corsi politici, palesando un sentimento collettivo di profonda reazione rispetto a quel capitalismo, a quel mondo produttivo che stava invadendo la vita dell’uomo, strutturando quell’inevitabile contrasto sociale. Nel “Manifesto futurista”, Marinetti, afferma, infatti, di voler esaltare le folle agitate dal lavoro, ad indicare tutta la volontà di porsi come movimento che non sia esclusivamente fonte teorica ma anche fonte di lotta di classe e di azione politica. L’aggressività, la forza, diviene dunque il principio vitale d’ogni cosa, con il quale ogni uomo, ed anche le intere classi sociali hanno il potere di imporre i propri diritti.

Il poeta d’Alessandria d’Egitto cantava del futuro con tono severo ma sognante, idealizzando una società che superasse l’umano, che annichilisse la sua femminilità, la sua fragilità intrinseca. Eppure in quell’idillio nutriva una speranza per una nuova umanità, un sentimento piuttosto comune per il suo tempo ma che si sviluppava su un’endemica debolezza: l’essere umano. Quella velocità, infatti, ha edificato un mondo virtuale, una realtà parallela nella quale è possibile crearsi un avatar, l’incarnazione di se stessi in un mondo non tangibile ma sempre più reale.

Se nel 1941 Orson Welles denunciava il controllo della stampa sulla società, di quanto essa potesse plasmare la realtà circostante e nel 1976 Sidney Lumet, con il suo Quinto Potere, si scagliava sull’onnipresente ruolo della televisione nelle nostre vite. Oggi ci troviamo di fronte al Sesto Potere: internet, una rete mondiale che interconnette computer da un polo ad un altro del globo, uniformandone i contenuti e rendendone schiavi gli utenti, incatenati attorno alla necessità morbosa di conoscere i fatti altrui. Marinetti aveva usato il termine “smania”, delineando perfettamente l’entità della nostra tossicodipendenza. Una frenesia che supera la normale curiosità, approdando verso gli ormeggi patologici dell’essere. Come novelli onironauti viaggiamo in una dimensione parallela, in un mondo onirico edificato sull’intangibile, in cui persiste una scala gerarchica dettata dai likes, dai followers e dai seguaci. Un mondo in cui vince chi si umilia di più, o meglio chi più fa parlar di sé. Ed è così che adolescenti, giovanotti, vecchi e vecchiotti si cimentano in video nei quali cercano la notorietà, si immortalano nei selfie – autoscatti, per noi dal gusto retrò – sperando di imprimere il loro volto in un marasma di opinioni, foto e video. La Generazione Selfie – come l’ha apostrofata Luca Bolognini nel suo pamphlet – è quella dei giovani nati dopo il 1975: molto tech e poco concreta, illusa da un sogno vissuto tramite lo schermo di uno smartphone. Una popolazione di guerrieri della notte, che sfidano il futuro con un drink in una mano e un I-phone come scudo, sempre pronti ad immortalare gli istanti di una serata che finirà nell’oblio di una sbronza.
Marinetti, in quell’estasi visionaria che fu la sua intera vita, riuscì ad immortalare il futuro. Un futuro che è già sotto i nostri occhi ma per il quale non siamo ancora pronti. Oggi quel Zang Tumb Tumb di marinettiana memoria, quell’urlo di italico candore suonerebbe probabilmente così: “ogni cinque secondi cannoni sventrare volti con un selfie tam-tuuumb / commenti con 500 echi per gratificarlo, osannarlo, acclamarlo”.

“L’uomo del futuro avrà solo un modesto interesse di conoscere come sono vissuti gli uomini del passato, ma avrà bensì una continua smania di sapere come vivono e cosa fanno in ogni momento gli altri uomini del suo tempo in tutto il pianeta, e attraverso l’uso dell’elettronica avrà i mezzi a disposizione per essere continuamente informato in ogni istante”.
F.T. Marinetti

Nonostante le ortodosse e insipide categorizzazioni a cui è stato sottoposto, Marinetti resta nella sua natura contraddittoria un personaggio tanto affascinante quanto enigmatico. Intellettuale rivoluzionario, dissidente, fervente agitatore aderì al fascismo cui si allontanò disprezzando leggi marziali e reazionarismo; libertino, don Giovanni, promotore del libero amore e del tradimento e fautore dell’emancipazione totale e disinibita delle donne, fu padre modello di tre figlie e marito presente; anticlericale al fulmicotone, accesissimo nemico della Chiesa, si sposò cristianamente, fece battezzare e cresimare le figlie, e non si privò né dell’estrema unzione né dei funerali religiosi.
Se è vero che ognuno è figlio del suo secolo, sarà vero in questo caso anche il contrario. Il secolo delle contraddizioni e dello stravolgimento totale che il Novecento rappresenta ha un padre illustre. Permettendoci di citare Bontempelli diremmo: le parole gridate da Marinetti sono quelle che partoriscono un nuovo secolo.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Leda Rafanelli, una donna da scoprire: l’anarchica musulmana per cui la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile

Anarchica e musulmana, frequentava la moschea come i circoli anarchici in cui si predicava l’ateismo. Leda Rafanelli ha combattuto tutta la vita per l’affermazione della figura femminile all’interno della società, predicandone l’emancipazione. Scrittrice, attivista, giornalista ed editrice, riuscì ad essere contemporaneamente amica di anarchici, rivoluzionari, futuristi e fascisti. Tutto questo fa di lei una donna da scoprire. Lo scrittore toscano Enrico Pea (1881-1958), nel suo romanzo autobiografico Vita in Egitto (1949), rievocò il proprio noviziato anarchico alla Baracca Rossa di Alessandria d’Egitto, in via Hammam-El-Zahab, “tumultuante ritrovo di gente di ogni risma e d’ogni nazione”, da lui frequentata insieme al giovane Giuseppe Ungaretti. Il narratore rammentava i nomi degli anarchici italiani ivi conosciuti,- Pilade Tocci, Icilio Ugo Parrini e Pietro Vasai– le loro vicissitudini, le loro interminabili dispute sull’ateismo e sul materialismo cui i giovani Pea e Ungaretti spesso opponevano una diversa, più poetica e spiritualistica visione della vita.

Il movimento anarchico italiano in Egitto era uno dei ceppi più antichi e robusti tra quelli della nostra emigrazione all’estero. Le migliaia di lavoratori-formiche che dall’Italia erano andati in Egitto al tempo dello scavo del canale di Suez (1859-1869), erano rimasti nel paese e vi avevano avviato botteghe artigiane o piccoli commerci. Molti erano i toscani: di Firenze, Lucca, Pisa, Livorno e della rossa Versilia. Fra di loro erano passati Amilcare Cipriani, ancor prima della Comune di Parigi, e più tardi Errico Malatesta, incitante gli arabi alla resistenza contro l’occupazione inglese dell’Egitto del 1882. Il primo giornale internazionalista di lingua italiana uscito all’estero fu Il Lavoratore, pubblicato ad Alessandria d’Egitto nel 1877, cui seguirono altri fogli socialisti. Al principio del Secolo Ventesimo Leda Rafanelli, in seguito ad una disgrazia familiare di cui non amava parlare (forse il padre in carcere per un certo tempo), venne condotta ad Alessandria d’Egitto presso una famiglia amica. Ella era nata a Pistoia da genitori livornesi il 4 luglio 1880 ed aveva circa vent’anni. Suo nonno era figlio illegittimo di uno zingaro arabo e fin da bambina si era sempre sentita straniera in patria, ammalata di esotismo, anelante all’Africa e all’Oriente. Il breve soggiorno in Egitto, appena tre mesi, le bastò per assorbirne il profumo e sentirne la nostalgia per tutta la vita. In Egitto ebbe anche occasione di assistere alle persecuzioni contro gli anarchici suoi conterranei, colpevoli secondo la polizia locale di aver progettato un attentato contro il Kaiser germanico Guglielmo II di Hohenzollern in visita da quelle parti (in effetti si trattò di una montatura per giustificare l’imprigionamento e poi l’espulsione di alcuni anarchici europei dall’Egitto).

Da Alessandria Leda Rafanelli tornò in Italia rigenerata nel corpo e riplasmata nello spirito. Convertitasi all’Islam e all’Anarchismo, ella farà di queste due fedi incrociate il distintivo del suo impegno culturale, caratterizzato da una visione religiosa e mistica della vita. La sua religiosità, inscalfibile e profondamente sentita, tollerata dai compagni atei come una perdonabile ma alquanto bizzarra stranezza, fu a sua volta tollerantissima della loro miscredenza. Infine la quintessenza d’arabismo filtrata durante l’esperienza alessandrina, col tempo trasse nuova linfa dallo studio delle antiche civiltà egizie e della stessa lingua araba, dal sopravvenuto interesse per le scienze occulte, per l’astrologia e la magia e da una crescente attrazione verso tutto il mondo orientale, anche ebraico ed indiano. In quel mondo Leda fantasticamente si riconosceva e si muoveva come in uno specchio o in un globo di vetro. Era il rimpianto di un passato perduto (quello dei suoi avi o addirittura, com’ella credeva, delle sue vite vissute) oppure la ricerca dell’utopia da contrapporre anarchicamente all’Occidente moderno del Capitale, già allora incamminato verso l’amara china della spersonalizzazione e dell’omologazione.

Da quel momento iniziò il suo stravagante modo di abbigliarsi all’araba, di cibarsi secondo le usanze arabe e le regole coraniche, di circondarsi di tutte le possibili araberie. Il punto d’intersezione fra Islam e Anarchismo venne istintivamente trovato nell’assoluta indifferenza per i problemi economici e pratici (il denaro, l’alloggio, l’approvvigionamento), nella allegra disponibilità per tutte le situazioni, anche le più scomode e precarie, nell’incertezza del domani come regola dell’oggi, nel vivere dell’aiuto altrui, mai preteso, sempre gradito e sempre generosamente ridonato. Insomma una zingara anarchica, secondo la definizione dello storico Pier Carlo Masini: questo fu Leda Rafanelli. Quando la giovane tornò in Italia, inebriata d’oriente e d’anarchia, si stabilì a Firenze. La sua cultura era quella di una autodidatta intelligente che, avendo fatto l’apprendista in tipografia, nel comporre a mano aveva immagazzinato vocabolario, classici, storia, grammatica, sintassi, geografia e scienze. Il suo primo maestro d’anarchia era stato un compagno di lavoro, pratese, concittadino di Gaetano Bresci, il cui gesto recente era stato quello del seminatore di nuovi proseliti.

Indirizzata da questo compagno Leda Rafanelli cominciò a frequentare l’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze, dove poté incontrare gli ultimi superstiti della Prima Internazionale, come il contadino Giuseppe Scarlatti e i coniugi Pezzi, la più avventurosa coppia dell’anarchismo italiano. Vi incontrò anche Luigi Polli, un giovane anarchico già conosciuto in Egitto ed ora rimpatriato. I due si amarono e si sposarono. Nacque la “ditta” Rafanelli-Polli, una casa editrice all’insegna dell’anarchismo. Gli opuscoli che uscirono dai torchi anarchici fiorentini – uno stanzone in Via dei Papi, nel rione di Santa Croce e una rivendita in Borgognissanti – rifornirono di nuovi testi la propaganda del movimento. Il pamphlet di Leda Contro la scuola (1907), che anticiperà le analoghe invettive papiniane, ebbe un grande successo e fu ripreso a puntate sul giornaletto di Ostiglia Luce! (1900-1909), del quale il giovane Arnoldo Mondadori era uno dei redattori.

“Riscuote in pubblico fama di persona piuttosto libera nella condotta morale, anche per i suoi principi di libero amore. Ha intelligenza svegliata e cultura superiore alla media acquistata con la lettura assidua e con l’assimilazione di libri, opuscoli, riviste sociologiche. Ha frequentato appena le scuole elementari”.

Così cominciava, in data 4 agosto 1908, una lunga scheda di Pubblica Sicurezza conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato intestata per l’appunto a Leda Rafanelli.

L’atteggiamento di Leda nei rapporti con i compagni anarchici e di altri partiti si caratterizzò per la sua mancanza di settarismo e per la sua tolleranza: “Devo dire, a mia lode, che sono stata immune da settarismo anche a quei tempi che era di moda. Collaboravo su tutti i giornali di propaganda, qualunque fosse il loro partito politico. Parlavo nei comizi a fianco di compagni di ogni tendenza”. Le analisi politiche e sociali condotte da Leda nei suoi articoli erano spesso acute ed originali, tanto da mettere in discussione le rigide categorie di pensiero che, soprattutto in tema di morale, circolavano anche fra gli anarchici e i socialisti. In particolare esse si distinsero per una insolita attenzione al punto di vista delle donne rispetto ai vari problemi affrontati: per esempio, pur allineandosi con l’anticlericalismo – mai con l’ateismo – professato generalmente dagli anarchici, Leda cercò di approfondire l’analisi delle ragioni che spingono soprattutto le donne a frequentare la chiesa – e ritenne che non fossero ragioni disprezzabili: derivavano da un lato dalla solitudine in cui le donne sono lasciate dai mariti, che nel tempo libero dal lavoro si dedicano preferibilmente al vizio del bere; dall’altro dal bisogno che esse hanno di confronto spirituale, data la loro maggiore ricchezza interiore rispetto agli uomini.

Leda Rafanelli, oltre che polemista, si scoprì narratrice e iniziò a pubblicare racconti e bozzetti, tutti ispirati alla protesta sociale. Fu una prima fase, un po’ ingenua, con molte concessioni alla propaganda spicciola e al bozzettismo strappalacrime. Ma nel 1905 da questo erbaio spuntò il primo arbusto: il romanzo Un sogno d’amore, che ricevette le lodi di Paolo Orano sull’Avanti! (e più tardi anche una traduzione in spagnolo). Leda aveva venticinque anni. Il suo nome era già noto nelle file del movimento anarchico. Armando Borghi le chiese una presentazione di alcuni suoi scritti, ed effettivamente ella redigerà la prefazione del suo libello Il nostro e l’altrui individualismo (1907), il primo attacco borghiano contro il superomismo nicciano; Pietro Gori ne apprezzò le qualità e la considerò come una sorella, una stima che Leda contraccambierà con la venerazione. La sua sfrenata produzione di articoli inondò la stampa libertaria e fiancheggiatrice; per i tipi Rafanelli-Polli uscì a Firenze anche una rivista, La Blouse (1906-1910), tutta compilata da “autentici lavoratori del braccio”. Intanto i rapporti tra Leda e Luigi Polli, ottimi sul piano politico, si raffreddarono su quello affettivo.

Dopo una breve relazione con il giornalista spoletino Piero Belli (1882-1957) che più tardi passerà all’interventismo corridoniano e al fiumanesimo, fu decisivo nella vita della Rafanelli l’arrivo a Firenze del giovane aretino Giuseppe Monanni (1887-1952), al quale il buon Polli lasciò subito libero il campo, conservando per Leda una calda e lunga amicizia. Anche Monanni era tipografo e anarchico ma di un anarchismo più affinato ed esigente che valse a trarre Leda dal minuto populismo a dispense fino a quel momento coltivato. Spirava allora in Italia da qualche anno un vento di novità che, dietro i nomi di Max Stirner e di Nietzsche, aveva investito anche il movimento anarchico, scomponendone le file. L’accento passò dalle masse all’uomo, anzi al superuomo, dall’eguaglianza alla libertà, dalla rivoluzione sociale alla rivolta individuale. Il Monanni, sensibile a questi richiami, li assimilò fondando a Firenze, povero ma ventenne, la rivista Vir (luglio 1907-maggio 1908), un titolo che era già un programma. La riproduzione di molti articoli di Giovanni Papini e l’esaltazione di Gabriele D’Annunzio per la tragedia Più che l’amore (1906), il cui protagonista è l’eroe Corrado Brando, erano rivelatori di una nuova tendenza. Nasceva l’anarco-individualismo.

A metà del 1908 Monanni e Leda vennero chiamati a Milano da un’altra coppia che fece storia a sé nelle vicende dell’anarchismo italiano: Ettore Molinari e Nella Giacomelli. Molinari era docente di chimica al Politecnico e la Giacomelli, istitutrice dei suoi figli, curava la pubblicazione del giornale Il Grido della Folla (1902-1907), seguito poi da La Protesta Umana (1906-1909). La linea di questi giornali fu quella dell’individualismo d’azione e dello scontro frontale con le Istituzioni borghesi, sfidate con violenti articoli e proposte spericolate. La coppia milanese si rivolse a Monanni e alla Rafanelli che conoscevano il mestiere e già collaboravano da Firenze ai due periodici. Giunti a Milano, la Rafanelli e Monanni, mentre diedero volentieri una mano a La Protesta Umana, continuarono in autonomia la loro originale esperienza e fondarono una nuova rivista già concepita a Firenze come continuazione di Vir. La intitolarono Sciarpa Nera (1909-1910) e subito assurse ad emblema dell’individualismo stirneriano. Ma si trattò di un individualismo diverso da quello di Molinari e Giacomelli, meno follaiolo e meno barricadiero. “Dunque”, scriveva Bruna (che è il secondo nome di Leda) sul terzo numero della rivista,

“Milano rumorosa, città più di attrito che di lavoro, di foga più che di volontà, di sport più che di arte, di abilità più che di sapienza, sia pure considerata come il cervello d’Italia; ma noi faremo la distinzione fra la materia e la sua esplicazione spirituale ed esalteremo quest’ultima”.

Nel corso del 1909 Monanni acquisì la Società Editrice Milanese che si trasformò in Casa Editrice Sociale. Fu questo il più grande sforzo editoriale degli anarchici italiani, con una produzione di qualità tecnica elevata e di buon livello culturale (una edizione de L’Unico di Stirner, de L’Anticristo di Nietzsche, scritti di Kropotkin e di Gori tra gli altri). Monanni come editore ebbe fiuto e una solida base di conoscenze letterarie, filosofiche, sociologiche. Le spese furono limitate dato che Monanni e Leda componevano personalmente i libri da stampare, ma l’organizzazione commerciale si dimostrò pessima. Così l’impresa navigò sempre in mezzo ai debiti e alle cambiali, senza requie, per altri quindici anni. Un pittore non ancora famoso disegnò il marchio della Casa Editrice Sociale: un volto demoniaco di ribelle anguicrinito con il motto “che solo amore e luce ha per confine”. L’artista si chiamava Carlo Carrà, era stato militante anarchico a Londra alla fine del secolo precedente e a Milano continuò a frequentare i gruppi anarchici, quello de La Protesta Umana e quello di Sciarpa Nera (per i due periodici egli fornì la sua collaborazione in qualità di grafico).

Fra Leda Rafanelli e il pittore nacque un rapporto di simpatia, forse una breve avventura sentimentale. Carrà stava lavorando al grande dipinto I funerali dell’anarchico Galli (1910-1911) che segnò il suo passaggio al futurismo. Era in atto una curiosa convergenza per nulla occasionale fra anarchismo e futurismo: Carrà disegnò la testata del giornale anarchico di Parma La Barricata (1912-1913), diretto dall’anarco-futurista Renzo Provinciali, mentre Filippo Tommaso Marinetti collaborò alla rivista La Demolizione (1907-1911) pubblicata dal sindacalista rivoluzionario Ottavio Dinale (1871-1959) ad Annemasse, in Alta Savoia, ed in seguito a Milano (su entrambi i periodici apparve anche la firma della Rafanelli). Significative furono nel periodo anteguerra le interferenze e le contaminazioni tra individualismo stirneriano-nicciano, sindacalismo, sovversivismo irregolare ed inclassificabile, follajolismo alla Paolo Valera. La coppia Monanni-Rafanelli “fuori da ogni circolo, libera da ogni legame, immune da ogni contagio”– così i due si definirono, vi passò in mezzo, curiosa ed eccitata, senza perdere niente della sua autonomia e della sua originalità.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Rafanelli partecipò attivamente alla campagna antimilitarista mentre Monanni, disertore alla chiamata alle armi, riparò in Svizzera. I rapporti fra i due interrotti sul piano affettivo e familiare non si turbarono su quello politico e la collaborazione continuò nel lavoro editoriale e nella propaganda. La Rafanelli aveva ora un nuovo compagno nel falascià Emmanuel Taamrat. I falascià erano uno sparuto gruppo etnico di stirpe ebraica e di lontana origine assiride, trapiantato da secoli in Etiopia e là perseguitato dal governo imperiale di Addis Abeba e dai dignitari della chiesa cristiano-copta. La Rafanelli, avendo conosciuto a Milano il pubblicista ebreo Raffaele Ottolenghi, ex diplomatico e conoscitore dei problemi africani ed asiatici (anch’egli aveva soggiornato per qualche tempo in Egitto), socialista, collaboratore di Critica Sociale e dell’Avanti!, si era fatta con lui promotrice di una campagna di solidarietà verso l’etnia falascià. E uno di essi, Emmanuel Taamrat per l’appunto, capitato non sappiamo come a Milano, ella aveva accolto in casa sua per qualche tempo come amico e in seguito come compagno di vita. Fu in quell’epoca che Leda ebbe occasione di conoscere Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Nel dopoguerra l’attività editoriale di Rafanelli e Monanni riprese con rinnovato vigore e maggior fortuna, favorita dal momento politico. La Casa Editrice Sociale sfornò decine di libri: l’opera omnia di Nietzsche in undici volumi (di cui Leda corresse tutte le bozze), opere di Kropotkin, Morris, Malatesta, Darwin, Mackay, Palante. Giuseppe Rensi vi pubblicò il saggio Il materialismo critico (1927), Antonio Graziadei Capitale e colonie (1927). Monanni ebbe soprattutto il grande merito di aver per primo fatto conoscere agli Italiani nella loro lingua un’opera capitale come La psicologia delle folle (1895) di Gustave Le Bon, tradotta e pubblicata nel 1925.

Pure Leda Rafanelli dette un suo personale contributo alle edizioni con un nuovo romanzo, L’eroe della folla (1920), e con una raccolta di novelle, Donne e femmine (1922). Nel 1923 l’attività subì un duro colpo in seguito a una spedizione fascista che distrusse la sede di Viale Monza, “covo di anarchici”. Ora si bruciava L’Unico di Max Stirner insieme a La Comune di Louise Michel, Le parole di un ribelle di Petr Kropotkin insieme alla Storia di un ruscello di Elisée Reclus: gli autori che Mussolini un tempo aveva amato ed elogiato. Ciò malgrado l’impresa risorse dalle ceneri e continuò la sua attività mutando nome in Casa Editrice Monanni (1924), grazie alla stima e all’amicizia nonché al sostegno fattivo e all’appoggio concreto che alcuni sindacalisti rivoluzionari come Angelo Oliviero Olivetti e Agostino Lanzillo manifestarono verso l’editore. In una collana di romanzi che Monanni pubblicò nella seconda metà degli Anni Venti (opere di Maksim Gorkij, Michail Artzybaschev, Jack London, Upton Sinclair, Han Ryner, Octave Mirbeau, Aleksandr Kuprin, Lydia Sejfulina, Aldous Huxley), Leda Rafanelli redasse sotto lo pseudonimo di Etienne Gamalier, fingendosene traduttrice, un romanzo anticolonialista: L’oasi. Romanzo arabo (1929).

Leda Rafanelli aveva allora quasi cinquant’anni ma purtroppo la sua vita pubblica stava per finire. Vivrà ancora per altri quaranta, in ritiro, fra angustie economiche e familiari (la morte del figlio Aini, “occhi miei” in lingua araba, Marsilio, nel 1944). Scriverà di tanto in tanto racconti per ragazzi, poesie, romanzi da riporre nel cassetto, molte lettere agli amici. Nada, La signora mia nonna, Le memorie di una chiromante – tutti testi inediti – sono il commovente tentativo di lasciare una testimonianza di sé e di alcuni frammenti, spesso dolorosi, della sua vita, come la turbolenta fine della relazione con Monanni, la morte del figlio, le ristrettezze economiche nelle quali è costretta a vivere. Questi scritti, concepiti in forma di romanzo, se da un lato danno la possibilità di conoscere qualcosa dell’esistenza raminga di Leda, riflettono dall’altro l’immagine di una donna animata dalla volontà di non scomparire dalla scena, la sua convinzione di volere e di potere dire ancora qualcosa di sé. E questa volta è proprio al privato, al suo modo di essere e di vivere, alle sue passioni che Leda attribuisce importanza e valore di documenti, non solo per se stessa: l’uso dell’autobiografia romanzata, e non del diario, è un segno che la scrittrice prevedeva ancora dei destinatari.

Leda concepisce la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile e che lei stessa sperimenta in prima persona. Se nei suoi scritti di propaganda militante sull’emancipazione femminile ella sostiene che i reali mutamenti nella vita delle donne avverranno in seguito a trasformazioni in primo luogo culturali, nella sua narrativa Leda Rafanelli ci immerge nel vivo delle contraddizioni che l’essere donna comporta, offrendoci stimoli ancora attuali. I primi suoi romanzi (Un sogno d’amore, 1905; Seme nuovo, 1912; L’eroe della folla, 1920) raccontano storie di donne che si dedicano a tempo pieno alla propaganda anarchica, emancipate, intelligenti e spesso intellettuali, ribelli e protagoniste della propria vita. Così Vera, l’eroina di Seme nuovo “era passata attraverso quella febbre di movimento, rafforzando il pensiero, elevandolo, spogliandolo sempre più dai pregiudizi della educazione antica, ricostruendo in sé senza saperlo una nuova morale al posto di quella che demoliva”. Vera è “la donna ribelle; la donna che si è saputa elevare al di sopra della massa delle incoscienti del suo sesso, e discute, nega, afferma alla coerenza delle idee innovatrici”.

Non è facile conciliare la donna rivoluzionaria di questa prima produzione narrativa con quella “orientale” delle ultime opere edite (Incantamento, 1921; Donne e femmine, 1922; la succitata L’oasi, 1929), della quale viene celebrata proprio la capacità di obbedienza, di dolcezza e di sottomissione (Islam in arabo significa per l’appunto “sottomissione di sé a Dio”, come ci ha ricordato Michel Houellebecq), che vive solo per l’amore e per la quale non sembra esistere altra dimensione della vita se non quella racchiusa tra le mura domestiche. Frequenti si fanno, nella seconda fase della produzione narrativa di Leda, espressioni come questa, tratta da L’oasi:

“Che cosa siamo noi, povere donne, per i nostri maschi audaci e forti? Siamo piccole cose, dolci e discrete, che le cose grandi trascinano come il vento trascina la sabbia! Siamo le lampade della casa, le schiave obbedienti che accolgono con gioia il loro amore impetuoso e selvaggio”.

Il percorso che ha indotto la Rafanelli ad abbandonare la primitiva visuale per aderire al mito idealizzato della donna araba può essere motivato da una sua personale evoluzione nel privato, in quanto, proprio per la intensa commistione tra letteratura e vita di cui si è parlato, e del quale il suo non è certo un caso unico in quest’epoca-si pensi alla vita e alle opere di Gabriele D’Annunzio-l’elemento autobiografico è sempre presente nella sua narrativa. Già le protagoniste dei suoi primi romanzi (Anna di Un sogno d’amore e Vera di Seme nuovo) non sembrano molto differenti dalla giovane Leda Rafanelli militante anarchica, articolista, attivista e propagandista; la capacità di analisi e l’autonomia di posizione che Leda mostra nelle colonne dei giornali su cui scrive e che spesso fonda e dirige, appartengono anche alle protagoniste che ella rappresenta. Queste ultime non hanno dubbi sulla loro scelta rivoluzionaria e nel dibattito politico tengono testa agli stessi compagni. Non solo; esse non hanno bisogno di nessun mediatore per riconoscere la giustezza delle idee che professano. A differenza di molte figure femminili della narrativa del tempo, le eroine della Rafanelli non scoprono la politica perché incontrano un uomo: l’opposizione, nei suoi romanzi, non si pone tra uomo e donna, ma tra gli oppressori e chi, indipendentemente dal sesso, lotta per l’affermazione dei propri ideali rivoluzionari. Si ribalta dunque un cliché, non solo letterario, che prevede l’iniziativa maschile per l’accesso della donna ai temi sociali e politici. Probabilmente questa dovette non solo essere la convinzione letteraria di Leda Rafanelli, ma anche coincidere con la sua esperienza prettamente personale, che si presenta, per i dati che abbiamo visto, difficilmente inquadrabile in un ruolo subalterno.
Ma già in questi primi romanzi, si può notare che l’esperienza dell’amore-passione introduce la contraddizione e la scissione all’interno della figura femminile stessa:

Magda sembrava una donna del passato e Vera era una donna dell’avvenire. Ma in ambedue era anche qualcosa che sminuiva l’apparenza. Vera aveva ancora in sé la passione sensuale dell’anima latina, mentre Magda, rinunciando a tutto quello che per l’amica era la vita, aveva saputo liberarsi dalla schiavitù dei sensi e dell’amore. In questo era più ribelle dell’altra, di Vera, completamente schiava dell’istinto, donna forte nel pensiero e nell’azione di fronte alla società e alle leggi e pronta a tornare femmina non appena vicina a un maschio” .
(Seme nuovo)

Da una parte i sentimenti “naturali” delle donne (l’amore, la gelosia, la maternità) sono valutati negativamente, sentiti come una perdita d’indipendenza, come una forza capace di riportare la donna al suo atavico stato asinino di soggezione, e soprattutto sono interpretati come inaccettabili distrazioni che allontanano dal lavoro-missione di propaganda politica:

“Sentì tutta la miseria dei sensi, la miseria che rende schiavi i maschi e le femmine, che fa piegare gli individui a vergogne rimpiante, a bassezze odiose. E si stupì quasi di conoscere che anche lei, in certi momenti, non era che una femmina; che la sua intelligenza superiore, la sua volontà plasmata di forze cedevano quasi senza lotta al primo assillo di un desiderio sensuale. E ne restò umiliata”. (Seme nuovo)

Ma d’altra parte le protagoniste dei romanzi di Leda Rafanelli sono donne molto sensuali e passionali e Leda stessa dedica nei suoi testi un grande spazio e una grande attenzione a questa dimensione del privato femminile e soprattutto all’intreccio fra tempestosa vita personale e intenso impegno politico. Se nei suoi primi romanzi, opere di propaganda anarchica, caratterizzati da scarsissima cura formale e dall’uso di schemi tipici della letteratura di consumo, la contraddizione si risolve tutta a favore di ciò che l’ideologia anarchica prevede per la donna emancipata, con la rinuncia delle protagoniste alla loro vita privata e l’adesione totale all’immagine pubblica e ideologica, è anche vero però che Leda dovette interrogarsi a lungo sulla scissione pubblico-privato, intravvista come specificità insita nel destino femminile. Probabilmente è sul filo delle sue riflessioni che elaborò negli ultimi romanzi il mito della donna araba. Una delle tracce più importanti che guidano l’elaborazione di questo mito è l’affermazione che le donne, non meno degli uomini, hanno diritto ad una vita sessuale felice. In questo Leda è voce originale anche fra le emancipazioniste radicali, che per lo più, in tema di sessualità, pudicamente tacciono.

Convinta che tutte le donne, anche quelle non belle, debbano avere spazio per l’espressione della loro sessualità, Leda ritiene in un primo momento che la soluzione stia nel libero amore, tema cardine dell’etica anarchica:

Il diritto all’amore diverrebbe nella società egualitaria il privilegio per chi la natura ha favorito della bellezza? No, ci voleva per l’avvenire l’amore per tutti come ci voleva per tutti il pane e il lavoro. […] L’amore in comune, la completa distruzione della famiglia, il ritorno alla primitività del possesso…” (Un sogno d’amore).

Più tardi Leda Rafanelli si convince però che non sono le questioni estetiche a determinare il problema della sessualità femminile, ma più sostanziali questioni di civiltà: nel mondo occidentale non è possibile che la donna viva per intero la sua vita sessuale. Anche per questo nel mito arabo degli ultimi romanzi sembrano vivere a proprio agio soprattutto le donne: qui esse sono in presa diretta con una parte di sé più profonda e naturale, qui possono interrogarsi sulle loro passioni e i loro sentimenti e confrontarsi con una istintività e una autenticità che la civiltà occidentale ha ormai debellato, rimosso o codificato in rigide ed asettiche regole comportamentali. Tuttavia anche la scelta di un’altra civiltà sembra non lasciare scampo al destino fatale e biologico delle donne, la maternità:

“Comprese che una legge di dolore incatenava tutte le povere donne l’una all’altra, in una solidarietà di sesso! Una legge di natura che piega a terra, le costringe a pagare-esse sole-il piacere che hanno goduto in due” (Donne e femmine).

Il finale de L’oasi, che rappresenta un bambino e due donne sole di fronte al mare, è quasi un appello alla solidarietà femminile come possibilità intravista per alleviare il peso di un destino che rimane tragico. In buona sostanza, la Rafanelli va senza dubbio inscritta, per il suo marcato orientalismo, nella cerchia di quegli intellettuali che, da Giuseppe De Lorenzo, primo traduttore italiano dei discorsi di Buddha, al teosofo Giuseppe Tucci, a Giovanni Papini, studioso di esoterismo negli anni in cui fu direttore del Gabinetto Vieusseux a Firenze, coltivarono interessi non superficiali per la teosofia. In ogni caso, almeno sul piano concreto, neppure la fine del fascismo le restituì la forza per rituffarsi concretamente nell’impegno civile e politico. Solo negli ultimi anni di vita si risvegliò in lei una rinnovata passione civile. Scrisse negli Anni sessanta alcuni suoi ricordi per il giornale Umanità Nova diretto da Mario Mantovani, suo vecchio compagno degli anni milanesi. Ritrovò la sua vena di scrittrice, aiutata da una memoria prodigiosa. Ella ripercorse e rievocò fino agli ultimi giorni in lunghe lettere agli amici più intimi il lontanissimo passato, la sua primavera fiorita fra le rive del Nilo e le ciminiere di Sesto San Giovanni. Morì a Genova il 13 settembre 1971.

 

Bibliografia

Paolo Orano, Autori proletari. Leda Rafanelli in Avanti! del 22 febbraio 1906.

Carlo Carrà, La mia vita, Milano, Rizzoli, 1945. I ricordi di Carrà sono molto imprecisi (si parla della collaborazione con Monanni a pagina 71). Di Carrà devono essere ricordati i disegni per Sciarpa Nera, la copertina al pamphlet antimonarchico di Paolo Valera, Il cinquantenario (Milano, Casa Editrice Sociale, 1911), il ritratto di Pietro Gori su La Rivolta di Milano del 10 maggio 1911.

Da ricordare che Giuseppe Monanni collaborò dalla Svizzera a Critica Sociale con due articoli: La questione dell’oro (numero del 16-31 gennaio 1917) e Mirbeau (numero del 1-15 marzo 1917).

Raffaele Ottolenghi morì suicida nel 1917. Su di lui il necrologio di Filippo Turati su Critica Sociale del 16-30 giugno 1917.

L’intellettuale dissidente

Knut Hamsun, spirito aristocratico, benché nato povero, e Premio Nobel, per il quale la Natura nei suoi romanzi è la condizione necessaria alla vita

Knut Hamsun, come Ezra Pound, fu moderno ed arcaico allo stesso tempo. Lo scrittore norvegese scriveva della sua terra con l’occhio sognante di chi non riesce ad adattarsi alla Modernità. Come il sole, si spense. Come la stella più bella, dopo aver illuminato le contraddizioni di un mondo che lo aveva vessato, tradito ed infamato, risorse tra le righe dei più grandi scrittori. Era il 19 Febbraio del 1952, quando Knut Hamsun, se ne andò. Un uomo la cui biografia conta 92 anni, quasi un secolo.
Un’esperienza travagliata, la sua. Un uomo che ebbe modo di conoscere le glorie del Premio Nobel, ma anche le miserie della fame e le ingiurie del carcere. Un autore eclettico: un po’ avanguardista e un po’ conservatore, la cui eredità è divenuta la fortuna di autori come Kafka, Mann o Montale.

Knut Hamsun in realtà si chiamava Knud Pedersen e nacque il 4 Agosto del 1859. I suoi dati anagrafici sono piuttosto incerti, secondo le fonti ufficiali, egli vide la luce nel comune norvegese di Vågå, benché il comune di Lom ne rivendichi anch’esso il privilegio dei natali. Le sue radici affondano nel mondo contadino, in senso stretto, e nulla avrebbe lasciato presagire la nascita di un individuo dalle doti stilistiche così spiccate. Quel mondo rurale, cadenzato dall’incedere delle stagioni, che sarà lo sfondo di tutta la sua produzione romanzesca. Crebbe in povertà nel Nordland, già all’età di 3 anni ebbe la sfortuna di conoscere la fame, una condizione che lo accompagnerà per buona parte della sua vita. Un’infanzia mai realmente vissuta, tra il disagio della povertà estrema ed uno zio che lo aveva privato degli svaghi e dei giochi dei bambini.

Benché Hamsun abbia sofferto molto a causa di questo zio, fu proprio grazie a quest’ultimo che il futuro premio Nobel scoprì l’amore per la letteratura. La privazione dell’infanzia verrà ricompensata dal sapere acquisito: sin da subito, infatti, spiccarono le doti che fecero di lui “un intellettuale in calzoni corti dalle attitudini aristocratiche, che aveva preso l’abitudine di considerare le contrade norvegesi con occhio distante e vagamente altero”.

Come Edevart, personaggio del suo celebre romanzo Vagabondi, durante l’adolescenza si abbandonerà in lunghi viaggi alla scoperta delle bellezze mistiche della sua terra, la Norvegia. Gli anni errabondi non costituiranno affatto un periodo bohémien, bensì uno studio formativo, una fase di formazione propedeutica all’attività letteraria. Egli, infatti, era in grado di estrapolare dal reale la propria visione narrativa: traendo spunto dalla realtà, rintracciava il proprio filone letterario. Tutto diveniva esperienza, tutto sarebbe divenuto scrittura. Le persone con cui faceva conoscenza subivano sin da subito il fascino dei suoi modi aristocratici. Nonostante gli umili natali, Hamsun era quello che si definisce un “aristocratico di spirito”: un po’ popolano, un po’ gentiluomo.

Benché la sua produzione letteraria fosse già prolifera dall’età di 17 anni, il romanzo che lo porterà agli onori della cronaca sarà Fame, opera ottocentesca ma già moderna, che si avvale dell’uso del flusso di coscienza e del soggettivismo, rivoluzionaria che segna una svolta nella letteratura europea e dà luce al prototipo dell’eroe-viandante, espressione di anarchica libertà ma anche di invincibile solitudine e raggelante percezione del nulla. Come in tutta la produzione hamsuniana, quest’opera trascende la semplice narrazione, divenendo un’esposizione immaginifica dal retrogusto marcatamente autobiografico, facendo sentire e percepire al lettore tutto ciò che prova il protagonista che racconta in prima persona. Quest’opera, infatti, verrà partorita a seguito dei due sfortunati viaggi negli Stati Uniti. Un’esperienza che segnerà indelebilmente la sua elaborazione romanzesca. Contrariamente alle sue aspettative, in quelle terre troverà tutt’altro che un sogno; il suo soggiorno d’oltreoceano sarà bensì caratterizzato da una miseria estrema. Fame rappresenta di fatto un’aspra critica nei confronti del mondo industriale, responsabile di una progressiva alienazione degli individui. Con un finale che può lasciare storditi.

Come accennato poc’anzi, i suoi numerosi viaggi furono una vera e propria esperienza propedeutica. Per Hamsun era, infatti, fondamentale assimilare le tradizioni locali. Fu proprio il suo itinerario caucasico ad acuire la sua già spiccata fascinazione per la Russia. Questa civiltà orientale, o per meglio dire eurasiatica, costituisce – secondo Hamsun – il punto di partenza di un’autocritica occidentale: ogni cultura deve svilupparsi secondo la propria logica. Un’attitudine che fa di Hamsun un scrittore neo-eurasiatico spurio, che lo avvicina in un certo senso al pensiero del più attuale Aleksandr Dugin. Nonostante fosse un uomo tendenzialmente laico, criticherà aspramente lo spirito razionale ed analitico europeo.

Nel suo capolavoro, Misteri, il protagonista, Johan Nilsen Nagel, inebriato dai fumi dell’alcool si abbandona ad una digressione, sfidando gli assiomi della Modernità. «Quale profitto c’è in fondo, anche parlando da un punto di vista unicamente pratico, a spogliare la vita di ogni poesia, di ogni sogno, di ogni misticismo e di ogni menzogna». Un pensiero che verrà riproposto spesso nell’arco della narrazione, rimarcandone i contenuti.

Negli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo Hamsun, lasciatosi alle spalle un matrimonio fallimentare, si trasferirà con la seconda moglie, Marie, in campagna, con l’obiettivo di impiantare una fattoria. In questi anni scriverà numerosi romanzi di successo tra cui Sognatori, Sotto le stelle d’autunno e Pan. In quest’ultimo romanzo dall’atmosfera misteriosa si richiamano gli eroi di Misteri e di Fame, questi tre protagonisti sono, infatti, accomunati da una spiccata intelligenza accompagnata da un’attitudine morbosa ed angosciante, tipica della letteratura romantica. In Pan è la natura a parlare in una lingua sommessa e sognante della breve estate nordica, del suo chiarore diffuso e fosforico. Ed è, insieme, l’epos di un amore impossibile che si carica sempre più di esaltazione e struggimento e che ha per protagonista il tenente Glahn, che nelle carte trovate dopo la sua morte racconta la sfortunata passione per la giovanissima Edvarda, la quale diventa la voce stessa della passione, con le sue maree incontrastabili che invadono la natura tutta e creano un amalgama dove alla fine è davvero difficile distinguere ciò che è paesaggio e ciò è psiche.

Il 1920 segnerà per Hamsun un anno di svolta, in cui le sue fatiche letterarie saranno internazionalmente riconosciute con l’assegnazione del Premio Nobel. Il risveglio della Terra sarà, infatti, il romanzo che consacrerà l’umile scrittore norvegese nell’olimpo dei grandi del Novecento. Un romanzo che suggellerà la critica all’industrializzazione che ha marginalizzato il lavoro manuale, imbarbarendo la figura del contadino e della vita rurale. In incipit è possibile rintracciare un richiamo a Pan: «Il lungo, lunghissimo sentiero fra gli acquitrini e le foreste, chi l’ha tracciato, se non l’uomo? Prima di lui, niente sentiero; dopo, di quando in quando, sulla landa e per le paludi, un animale seguì la via appena percettibile e la marcò con un’impronta più netta. Alcuni Lapponi, fiutata la pista della renna, cominciarono poi a servirsi del sentiero nelle loro corse di fjeld in fjeld. Così nacque il sentiero nell’Almenning, il vasto territorio senza padrone, la terra di nessuno».

Sin da subito si rinviene uno dei topoi ridondanti nella narrazione hamsuniana. La Natura, infatti, non è un semplice sfondo sul quale inscenare le storie degli uomini, bensì la condizione necessaria per la vita. Nonostante ne fosse anteriore, è possibile rinvenire in Hamsun la concezione jüngeriana del bosco, ovvero “ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza”. Nelle radure i personaggi dello scrittore norvegese sembrano trovare rifugio nei confronti della società borghese. Ogniqualvolta essi valichino le soglie del bosco, ne usciranno rinvigoriti e rigenerati dalle ferite che il mondo moderno incide sulle loro carni.

Hamsun è un eroe antimoderno, lirico, impressionista, retrospettivo, ostile alla civiltà liberale anglo-sassone, la stessa che ha sacrificato le tradizioni, la Natura e la bellezza sull’altare del libero mercato. Sin dalla giovane età, mostrerà un audace apprezzamento per il mondo germanico, vedendo nel nazionalsocialismo un antidoto alla decadenza occidentale. Verso la fine degli anni Trenta, lo scrittore sosterrà apertamente il partito nazionalista di Quinsling, divenuto in seguito collaborazionista dopo l’invasione tedesca della Norvegia. Una posizione che pagherà caro: ormai sordo e novantenne verrà processato e condannato per alto tradimento.
Condividerà lo stesso destino di Ezra Pound, dapprima richiuso in un manicomio ed in seguito in una casa di cura, dove trascorrerà i suoi ultimi giorni. Tuttavia regalando al mondo un ultimo capolavoro. Un lascito ai posteri: Per i sentieri dove cresce l’erba, “Gelido catasto dei giorni deserti e dell’assurdità delle cose”, come lo ha definito Claudio Magris, è il diario dell’internamento in ospedali psichiatrici e sanatori a cui lo scrittore viene appunto condannato per il suo collaborazionismo con i nazisti. Ultima opera dell’ormai anziano Hamsun, scritta nel 1948. Come giudicare uno Stato che si accanisce contro uno scrittore di novant’anni, lo relega per mesi in un ospedale psichiatrico per indagare sulle sue capacità mentali, provocandogli ulteriori malesseri psicofisici che lo ridurranno in fin di vita? E come giudicare Knut Hamsun che aderisce con entusiasmo al pangermanesimo nazista, appoggia l’occupazione tedesca e dopo il suicidio di Hitler nel bunker di Berlino lo definisce “figura di riformatore del più alto rango”?

Allo stesso modo i capi del nuovo movimento in Germania ritrovavano nei libri di Hamsun lo spirito e la cosmogonia del nazionalsocialismo. Fu infatti molto elogiato da Goring e da Rosemberg. Da questi elogi alla accusa di filonazismo il salto sembra eccessivo, ma il 7/5/1945, quando tutto era assolutamente perso per i tedeschi, l’autore norvegese pubblicò questo necrologio su Hitler sull’importante quotidiano norvegese Aftenposten: “Non sono degno di parlare di Hitler a viva voce. La sua vita e la sua opera non danno adito a pettegolezzi di tipo sentimentale. Era un lottatore, un combattente per l’umanità e un predicatore del messaggio della giustizia per tutte le nazioni. Il suo destino fu che dovette agire in un’epoca di brutalità senza precedenti che in ultimo l’annichilì. Noi, suoi adepti vicini, ci prostriamo davanti alla sua morte”.

Se queste sono le parole di un vecchio folle rinchiuso in un manicomio, lasciamo allora il Tenente Glahn dire “essere come devo e non come sono”. Lasciamo in pace anche Knut Hamsun quale grande scrittore che è stato e uomo che ha sofferto e sperato in un mondo dove non si patisse la fame. Per questo fu avversario dell’imperialismo inglese e dell’Unione Sovietica e abbracciò la cultura tedesca, in buona fede. Senza contare che bisogna sempre tener presente che non si può giudicare un’epoca passata e i suoi protagonisti con le lenti di oggi.

In effetti, come hanno sempre creduto i sostenitori del grande scrittore scandinavo, il suo essere filo-nazista e in posizione autorevole era un modo per proteggere il suo paese nonostante fosse già occupato, una maschera che indossava per salvare il salvabile e non perché condividesse le teorie naziste. Tuttavia, dopo la fine della guerra, nelle principali città norvegesi folle inferocite bruciarono i suoi libri in pubblico.

Contro di lui, invece, fu avviato un procedimento per responsabilità civile e nel 1948 fu condannato al pagamento di 325.000 corone norvegesi per la sua presunta iscrizione al Nasjonal Samling, ma scagionato da qualsiasi forma di affiliazione al regime nazista. Che fosse un membro del Nasjonal Samling o no, e se le sue facoltà mentali fossero state danneggiate è tuttora una questione molto dibattuta. Hamsun affermò di non essersi mai iscritto ad alcun partito politico. Lo stesso Hamsun scrisse di questa esperienza ne Per i sentieri dove cresce l’erba, un libro da molti considerato come la prova del corretto funzionamento delle sue facoltà mentali.

L’autore danese Thorkild Hansen studiò il processo e scrisse il libro Processo a Hamsun (1978), che fu accolto con grande clamore in Norvegia. Sulla base del libro di Hansen, lo scrittore svedese Per Olov Enquist scrisse il suo Processo a Hamsun (1996), da cui è tratto il film Hamsun del regista svedese Jan Troell.

 

Fonti: IBS, L’intellettuale dissidente.

Ernst Jünger, teologo della nuova epoca, pedagogo della libertà, autore di capolavori come “Nelle tempeste d’acciaio” e del profetico “L’operaio”

Ernst Jünger (Heidelberg 1895 – Riedlingen, Alta Svevia, 1998), fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». 

«Le isole – insegna Jünger – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di San Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali.

Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito.

L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti.

E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern, libro ora dimenticato, ma tra i migliori romanzi sulla guerra, privo di enfasi e di retorica, è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra raccontato con uno stile secco e crudo, a tratti notarile (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale, per nulla ideologico (anche in questo sta la sua grandezza) e tra i più crudeli e profetici del Novecento nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per la sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin).

La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte.

Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Difficile condividere il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico.

 

L’intellettuale dissidente

 

Ernst von Salomon l’aristocratico membro dei Corpi Franchi: l’esiliato, il proscritto distruttore di tutto, nemico della civiltà moderna

Ernst von Salomon è stato il proscritto, questo esiliato, distruttore di tutto, votato all’emarginazione, camminava sulle macerie di battaglia in battaglia, disposto a distruggere anche sé stesso pur di lapidare la civiltà moderna. Sospeso nel grembo di una Kultur irrazionale, distruttrice, virile, estetizzante, eroica, von Salomon doveva confrontarsi con la Zivilisation, con la decadenza dell’ordine borghese securitario, razionale, egoista, incentrato sull’interesse del singolo declinato come società di diritto e di felicità individuale.

Ernst von Salomon nacque a Kiel in Germania, nel 1902, da una famiglia di lontane origini aristocratiche franco-tedesche. Dopo diversi insuccessi scolastici, il padre lo introdusse alla carriera militare. Il giovane von Salomon guardò alla prima guerra mondiale con stupore, per entrare nel 1919 a far parte dei Freikorps. Come Junger, anch’egli interpretò la figura dall’”atteggiamento inflessibile” del miles novecentesco. Contro la repubblica affaristica di Weimar, i patti di Versailles e i valori della Gestalt borghese (securitarsimo, controllo sociale, spirito mercantile, opportunismo) la vita di von Salomon è tutta improntata ad una concezione gerarchico-militare, sempre politicizzata, tesa allo scontro, al conflitto contro l’hostis schmittiano, colui che nega l’identità dell’altro. Nei Corpi Franchi von Salomon subì il fascino della violenza, intesa come pulsione erotica ed estetizzante, e in queste milizie paramilitari e irregolari cercava il suo riscatto, la rivalsa dello spirito tedesco contro la repubblica “traditrice”. Nel 1922 fu condannato a 5 anni di carcere per l’omicidio dell’allora Ministro degli Esteri Walter Rathenau, ma scontò solo pochi mesi della pena. L’esperienza dei corpi franchi venne narrata nei Proscritti, epopea storica ed esistenziale dei “soldati di ventura” che prestarono la loro ferocia alla guerra civile che segnò l’origine della Repubblica di Weimar, protagonisti prima della crudele repressione in cui furono assassinati Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, infine della lunga vicenda terroristica che culmina con l’assassinio del ministro Rathenau. Si tratta di un prezioso documento per comprendere la storia europea che preparò il nazismo e, allo stesso tempo, un romanzo, paurosamente attuale, di quell’estetica della violenza che è alla base di ogni rivoluzione. Dai Proscritti, dunque, emerge, in chiave autobiografica, la visione tremendamente violenta della politica e della guerra. Queste sembrano essere le sole istanze in grado di destituire l’uomo moderno dall’ordine borghese, per metterlo di fronte all’atto estremo, al sacrificio totale di sé, dal quale si evince una gerarchizzazione della società in base ad un criterio aristocratico, superiore rispetto alla ratio economica borghese che ordina la realtà secondo il principio monetario.

Il proscritto disprezza il borghese, la sua piccolezza, le sue meschinità, il valore economico come forza omologante capace di sussumere tutta la realtà nella sua forma. Nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann sono proposte le stesse dinamiche del conflitto cui partecipa il nostro eretico: “profonda cultura contro civilizzazione superficiale; comunità organica contro società meccanicistica; eroi contro mercanti; il sentire contro il sentimentalismo; la virtù contro il calcolo”.

In breve von Salomon comprese che la guerra condotta dai Freikorps (spesso strumentalizzata ai fini repubblicani) e gli scontri tra nazionalisti e comunisti, tra destra e sinistra, si rivelarono funzionali alla cristallizzazione dell’ordine borghese, ora totalizzante, compenetrato nei recessi marginali, inconsci della folla anonima, commerciale. Ugualmente si discostò dall’ascesa di Hitler a cancelliere nel 1933 e del nazionalsocialismo, che il proscritto guardava come emanazione compromissoria dell’ideologia borghese. Von Salomon finì tra le liste dei ribelli che si opponevano al Terzo Reich.

Intanto però la sua l’attenzione si volgeva da tempo al mondo contadino, visto in tutto il suo potenziale anti-liberale, per l’antropologia pre-moderna, pre-capitalistica di cui era portatore. I legami di suolo e di sangue sostituivano i legami commerciali urbani. Il mondo contadino era un contenitore di storie, tradizioni, riti, usi, costumi, e si contrapponeva ontologicamente alla città, investita dai miti del progresso, della tecnica, sede di corruzione.

L’universo rurale era il punto di contatto verso tra le avanguardie nazionaliste e i comunisti, tuttavia, inevitabilmente, ad adulare i sentimenti anti-capitalisti dei contadini, in conflitto con lo Stato borghese e la sua burocraticizzazione, fu più abile lo NSDAP che propose riforme chiare e semplificate. L’anarchismo del movimento contadino (Landvolkbewegung) strutturatosi tra il 1928 e il 1933, dacché sembrava essere la sua forza fu effettivamente la causa dell’adesione di molti al nazionalsocialismo. Von Salomon, dopo essersi schierato a fianco del movimento, lo guardò compromettersi disincantatamente, sostenendo l’incompatibilità tra le aspirazioni rivoluzionarie e l’essenza contadina.

Rientrato a Berlino von Salomon fu arrestato per le sue attività sovversive nelle campagne tedesche, e cominciò ad interessarsi alle tesi nazionalbolsceviche. Una volta scarcerato si ritagliò uno spazio indipendente durante tutto il tempo del Nazismo, dedicandosi alle lettere e al cinema: scrisse saggi, romanzi e sceneggiature. Perenne oppositore e perenne sconfitto, cresciuto nella carriera militare poi finito a scrivere sceneggiature di film anti-militaristi, sostenitore di Hilter quando questi era uno sconosciuto e poi anti-nazista una volta che il Furher arrivò al potere, riuscì a proteggere la moglie ebrea durante tutto il Terzo Reich e poi fu arrestato e maltratto dalle truppe americane nel 1945, von Salomon chiuse così un’intervista lasciata poco prima di morire, nel 1972: “Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca terribilmente folle e appassionante, ma non chiedetemi di vedere la vita per altra cosa di quello che è realmente: una farsa”.

 

L’intellettuale dissidente

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