Filippo Tommaso Marinetti, un cortocircuito della storia europea, protoideatore dei fenomeni di comunicazione di massa che oggi caratterizzano le nostre vite

Tentare di definire Filippo Tommaso Marinetti oggi è un esperimento difficile. Possiamo definirlo un “rivoluzionario”, un “cortocircuito” della storia culturale europea, ma soprattutto, un profetico anticipatore, ai limiti dell’incredibile. Dalla propaganda allo scandalo all’editoria, Marinetti è stato il protoideatore dei fenomeni di comunicazione di massa che oggi caratterizzano le nostre vite; nei suoi scritti compaiono descrizioni fantascientifiche di nuove tecnologie e abitudini, pienamente rintracciabili oggi in computer e social networks.

Scuotere l’Italia “a suon di schiaffi e dinamite”, scrive Giordano Bruno Guerri nella biografia dedicata a Marinetti, era la missione del padre del Futurismo e di tutte le sue declinazioni. Lo schiaffo, la dinamite: la rinascita artistica che comincia da una particella elementare, il suono, una rifondazione che parte dal segno, dalla radice, per sconvolgere le fondamenta di un’intera cultura.
«Col preannunzio sciroccale del Hamsin e dei suoi 50 giorni taglienti di sanguigne scottature desertiche nacqui il 22 dicembre 1876 in una casa sul mare ad Alessandria d’Egitto».

Secondogenito di una giovane coppia milanese, F.T. nasce in terra africana per volere del padre Enrico, avvocato, convinto al trasferimento dalle buone prospettive di lavoro offerte dall’apertura del Canale di Suez. Insieme al fratello Leone viene educato al Collegio Internazionale San Francesco Saverio, un istituto gesuitico dove incontrerà un altro illustre innovatore della poesia italiana del Novecento, Giuseppe Ungaretti. Grazie alle ingenti somme guadagnate dagli affari del padre, perfeziona gli studi con un baccalaureato a Parigi nel 1894. Dopo il soggiorno parigino, eccolo in territorio italiano, a Pavia, dove raggiunge il fratello per studiare legge, facoltà che abbandonerà presto a causa della morte di Leone. Conclude gli studi universitari a Genova e vince nel frattempo il concorso parigino Samedis populaires con il poemetto Les vieux marins. Il componimento è il taglio del nastro agli ambienti intellettuali francesi: in breve tempo viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie, La Conquete des Étoiles, la carriera giuridica definitivamente accantonata. Marinetti continua a comporre versi in stile liberty e simbolista, guardando a Mallarmé e D’Annunzio – stimato rivale quest’ultimo, amato e odiato, lui stesso si definì “figlio di una turbina e di D’Annunzio, da cui sarà definito “cretino fosforescente”.

Nel 1905 fonda la rivista Poesia, la nuova palestra del verso parolibero firmato F.T. Nel 1908 eccolo tirato fuori da un fossato a Milano, nella sua automobile, uscito fuori strada per evitare due ciclisti; l’episodio si farà aneddoto – come poi molti altri – e diventerà per Marinetti la chiave di lettura della rivoluzione culturale programmata per il prossimo anno: l’uomo estratto dall’automobile è l’uomo nuovo futurista che dopo aver vinto l’inferno della tradizione ed aver accantonato lo stile liberty e decadentista rappresentato dai due «noiosi» ciclisti, può volgersi all’istituzione di un’arte nuova, rivoluzionaria.

Il febbraio 1909 è arrivato. Tutto è pronto per il lancio della bomba. F.T. ha sedotto Rose Fatine, 20 anni, figlia di Mohamed el Rachi Pascià, un vecchio egiziano, ricco azionista de LeFigaro. Grazie alla buona intesa dei giovani amanti, l’uomo asseconda la bizzarra richiesta dell’italiano, ignaro del privilegio di partecipare ad un evento storico mondiale: pubblicare sul giornale il suo Manifesto. Il 20 febbraio 1909 sul quotidiano nazionale francese viene lanciata la bomba: esce il Manifesto del Futurismo, undici punti, con appendice. Il Futurismo è fondato. Sintetizzerà Marinetti: «E’ un movimento anticulturale, antifilosofico, di idee, di intuiti, di istinti, di schiaffi, pugni purificatori e velocizzatori. I futuristi combattono la prudenza diplomatica, il tradizionalismo, il neutralismo, i musei, il culto del libro.» La parola d’ordine è “Velocità”. Come dinamismo, come simultaneità, come meccanicismo e libertà. Marinetti stravolge ogni dogma della poesia e delle arti e ne ritaglia un vestito nuovo, “moderno”, diremmo oggi, come il secolo XX. Protagonista di quest’ultimo, annuncia F.T., sarà la Macchina, metafora dell’impeto prometeico dell’uomo nuovo.

Per evitare una volta per tutte l’associazioni del poeta Marinetti e del futurismo all’idea infantile e brutale dell’adorazione della macchina e della modernolatria, ecco un passo del discorso che F.T. stesso tenne nel 1924 alla Sorbona:« Io intendo per macchina tutto ciò ch’essa significa come ritmo e come avvenire; la macchina dà lezioni di ordine, disciplina, di forza, di precisione, d’ottimismo e di continuità. […] Per macchina, io intendo uscire da tutto ciò che è languore, chiaroscuro, fumoso, indeciso, mal riuscito, trascuratezza, triste, malinconico per rientrare nell’ordine, nella precisione, la volontà, lo stretto necessario, l’essenziale, la sintesi». Il Manifesto è discusso in tutta Europa, i giornali lo chiamano “Caffeina d’Europa”. Intanto Marinetti continua a scrivere poesie, romanzi e testi teatrali, tra cui si ricordano “ Gl’Indomabili”, il censuratissimo “Mafarka il futurista” e la sceneggiatura “ Re Baldoria”.

La fama di Marinetti si diffonde per tutto il Vecchio Continente, legata soprattutto alle esuberanze e ai modi “futuristi” di F.T. & Co. In particolar modo diventano celebri le serate-futuriste: spettacoli teatrali in cui vengono fuse performance di vario genere, dalla declamazione alla piéce teatrale, durante cui il futurismo fa da protagonista e le bagarre e gli scontri con il pubblico sono la norma, e ne alimentano la curiosità. Il 1911 inaugura la stagione dei viaggi del poeta e della maggiore sperimentazioni linguista e letteraria. Scoppiata la guerra con la Libia, parte al fronte come reporter per un quotidiano d’oltralpe. Poi è a Mosca e San Pietroburgo, invitato dai futuristi russi a fare propaganda. Nel frattempo in Lacerba, la rivista fiorentina diretta da Papini e Soffici, il futurismo trova il miglior canale di diffusione in Italia parallelamente alla pubblicazione di Zang Tumb Tumb, un reportage bellico scritto in parole in libertà. La prima guerra mondiale fa esplodere il cuore di Marinetti, che, in seguito all’attentato di Sarajevo, si arruola volontario: è a Caporetto ma anche a Vittorio Veneto. Tornato dal conflitto si interessa alla politica cui lo spirito rivoluzionario affascina Mussolini che si avvarrà di molti futuristi nel giorno della proclamazione dei fasci di combattimento, nel 1919 al San Sepolcro. Giudicate passatiste e reazionarie le idee di Mussolini, se ne allontanerà, pur sempre rimanendo rispettato e considerato dal Duce. Si lega nel frattempo a Benedetta Cappa, pittrice e poetessa che accompagnerà Marinetti fino alla fine dei suoi giorni, sua «eguale, non discepola». Nel ’35 parte volontario in Africa Orientale, nel ’42 si arruola per la campagna di Russia. Marinetti viene rimpatriato con l’arrivo dell’autunno, spossato e in precario stato fisico. La morte lo coglie il 2 dicembre 1944, a Bellagio sul Lago di Como, all’alba dopo una notte di lavoro poetico consacrato al Quarto d’ora di poesia della X mas, complice il cuore.

Nel pensiero di Marinetti compare inoltre quella percezione di scontro di classe che determinerà anche l’affermarsi dei successivi corsi politici, palesando un sentimento collettivo di profonda reazione rispetto a quel capitalismo, a quel mondo produttivo che stava invadendo la vita dell’uomo, strutturando quell’inevitabile contrasto sociale. Nel “Manifesto futurista”, Marinetti, afferma, infatti, di voler esaltare le folle agitate dal lavoro, ad indicare tutta la volontà di porsi come movimento che non sia esclusivamente fonte teorica ma anche fonte di lotta di classe e di azione politica. L’aggressività, la forza, diviene dunque il principio vitale d’ogni cosa, con il quale ogni uomo, ed anche le intere classi sociali hanno il potere di imporre i propri diritti.

Il poeta d’Alessandria d’Egitto cantava del futuro con tono severo ma sognante, idealizzando una società che superasse l’umano, che annichilisse la sua femminilità, la sua fragilità intrinseca. Eppure in quell’idillio nutriva una speranza per una nuova umanità, un sentimento piuttosto comune per il suo tempo ma che si sviluppava su un’endemica debolezza: l’essere umano. Quella velocità, infatti, ha edificato un mondo virtuale, una realtà parallela nella quale è possibile crearsi un avatar, l’incarnazione di se stessi in un mondo non tangibile ma sempre più reale.

Se nel 1941 Orson Welles denunciava il controllo della stampa sulla società, di quanto essa potesse plasmare la realtà circostante e nel 1976 Sidney Lumet, con il suo Quinto Potere, si scagliava sull’onnipresente ruolo della televisione nelle nostre vite. Oggi ci troviamo di fronte al Sesto Potere: internet, una rete mondiale che interconnette computer da un polo ad un altro del globo, uniformandone i contenuti e rendendone schiavi gli utenti, incatenati attorno alla necessità morbosa di conoscere i fatti altrui. Marinetti aveva usato il termine “smania”, delineando perfettamente l’entità della nostra tossicodipendenza. Una frenesia che supera la normale curiosità, approdando verso gli ormeggi patologici dell’essere. Come novelli onironauti viaggiamo in una dimensione parallela, in un mondo onirico edificato sull’intangibile, in cui persiste una scala gerarchica dettata dai likes, dai followers e dai seguaci. Un mondo in cui vince chi si umilia di più, o meglio chi più fa parlar di sé. Ed è così che adolescenti, giovanotti, vecchi e vecchiotti si cimentano in video nei quali cercano la notorietà, si immortalano nei selfie – autoscatti, per noi dal gusto retrò – sperando di imprimere il loro volto in un marasma di opinioni, foto e video. La Generazione Selfie – come l’ha apostrofata Luca Bolognini nel suo pamphlet – è quella dei giovani nati dopo il 1975: molto tech e poco concreta, illusa da un sogno vissuto tramite lo schermo di uno smartphone. Una popolazione di guerrieri della notte, che sfidano il futuro con un drink in una mano e un I-phone come scudo, sempre pronti ad immortalare gli istanti di una serata che finirà nell’oblio di una sbronza.
Marinetti, in quell’estasi visionaria che fu la sua intera vita, riuscì ad immortalare il futuro. Un futuro che è già sotto i nostri occhi ma per il quale non siamo ancora pronti. Oggi quel Zang Tumb Tumb di marinettiana memoria, quell’urlo di italico candore suonerebbe probabilmente così: “ogni cinque secondi cannoni sventrare volti con un selfie tam-tuuumb / commenti con 500 echi per gratificarlo, osannarlo, acclamarlo”.

“L’uomo del futuro avrà solo un modesto interesse di conoscere come sono vissuti gli uomini del passato, ma avrà bensì una continua smania di sapere come vivono e cosa fanno in ogni momento gli altri uomini del suo tempo in tutto il pianeta, e attraverso l’uso dell’elettronica avrà i mezzi a disposizione per essere continuamente informato in ogni istante”.
F.T. Marinetti

Nonostante le ortodosse e insipide categorizzazioni a cui è stato sottoposto, Marinetti resta nella sua natura contraddittoria un personaggio tanto affascinante quanto enigmatico. Intellettuale rivoluzionario, dissidente, fervente agitatore aderì al fascismo cui si allontanò disprezzando leggi marziali e reazionarismo; libertino, don Giovanni, promotore del libero amore e del tradimento e fautore dell’emancipazione totale e disinibita delle donne, fu padre modello di tre figlie e marito presente; anticlericale al fulmicotone, accesissimo nemico della Chiesa, si sposò cristianamente, fece battezzare e cresimare le figlie, e non si privò né dell’estrema unzione né dei funerali religiosi.
Se è vero che ognuno è figlio del suo secolo, sarà vero in questo caso anche il contrario. Il secolo delle contraddizioni e dello stravolgimento totale che il Novecento rappresenta ha un padre illustre. Permettendoci di citare Bontempelli diremmo: le parole gridate da Marinetti sono quelle che partoriscono un nuovo secolo.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Leda Rafanelli, una donna da scoprire: l’anarchica musulmana per cui la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile

Anarchica e musulmana, frequentava la moschea come i circoli anarchici in cui si predicava l’ateismo. Leda Rafanelli ha combattuto tutta la vita per l’affermazione della figura femminile all’interno della società, predicandone l’emancipazione. Scrittrice, attivista, giornalista ed editrice, riuscì ad essere contemporaneamente amica di anarchici, rivoluzionari, futuristi e fascisti. Tutto questo fa di lei una donna da scoprire. Lo scrittore toscano Enrico Pea (1881-1958), nel suo romanzo autobiografico Vita in Egitto (1949), rievocò il proprio noviziato anarchico alla Baracca Rossa di Alessandria d’Egitto, in via Hammam-El-Zahab, “tumultuante ritrovo di gente di ogni risma e d’ogni nazione”, da lui frequentata insieme al giovane Giuseppe Ungaretti. Il narratore rammentava i nomi degli anarchici italiani ivi conosciuti,- Pilade Tocci, Icilio Ugo Parrini e Pietro Vasai– le loro vicissitudini, le loro interminabili dispute sull’ateismo e sul materialismo cui i giovani Pea e Ungaretti spesso opponevano una diversa, più poetica e spiritualistica visione della vita.

Il movimento anarchico italiano in Egitto era uno dei ceppi più antichi e robusti tra quelli della nostra emigrazione all’estero. Le migliaia di lavoratori-formiche che dall’Italia erano andati in Egitto al tempo dello scavo del canale di Suez (1859-1869), erano rimasti nel paese e vi avevano avviato botteghe artigiane o piccoli commerci. Molti erano i toscani: di Firenze, Lucca, Pisa, Livorno e della rossa Versilia. Fra di loro erano passati Amilcare Cipriani, ancor prima della Comune di Parigi, e più tardi Errico Malatesta, incitante gli arabi alla resistenza contro l’occupazione inglese dell’Egitto del 1882. Il primo giornale internazionalista di lingua italiana uscito all’estero fu Il Lavoratore, pubblicato ad Alessandria d’Egitto nel 1877, cui seguirono altri fogli socialisti. Al principio del Secolo Ventesimo Leda Rafanelli, in seguito ad una disgrazia familiare di cui non amava parlare (forse il padre in carcere per un certo tempo), venne condotta ad Alessandria d’Egitto presso una famiglia amica. Ella era nata a Pistoia da genitori livornesi il 4 luglio 1880 ed aveva circa vent’anni. Suo nonno era figlio illegittimo di uno zingaro arabo e fin da bambina si era sempre sentita straniera in patria, ammalata di esotismo, anelante all’Africa e all’Oriente. Il breve soggiorno in Egitto, appena tre mesi, le bastò per assorbirne il profumo e sentirne la nostalgia per tutta la vita. In Egitto ebbe anche occasione di assistere alle persecuzioni contro gli anarchici suoi conterranei, colpevoli secondo la polizia locale di aver progettato un attentato contro il Kaiser germanico Guglielmo II di Hohenzollern in visita da quelle parti (in effetti si trattò di una montatura per giustificare l’imprigionamento e poi l’espulsione di alcuni anarchici europei dall’Egitto).

Da Alessandria Leda Rafanelli tornò in Italia rigenerata nel corpo e riplasmata nello spirito. Convertitasi all’Islam e all’Anarchismo, ella farà di queste due fedi incrociate il distintivo del suo impegno culturale, caratterizzato da una visione religiosa e mistica della vita. La sua religiosità, inscalfibile e profondamente sentita, tollerata dai compagni atei come una perdonabile ma alquanto bizzarra stranezza, fu a sua volta tollerantissima della loro miscredenza. Infine la quintessenza d’arabismo filtrata durante l’esperienza alessandrina, col tempo trasse nuova linfa dallo studio delle antiche civiltà egizie e della stessa lingua araba, dal sopravvenuto interesse per le scienze occulte, per l’astrologia e la magia e da una crescente attrazione verso tutto il mondo orientale, anche ebraico ed indiano. In quel mondo Leda fantasticamente si riconosceva e si muoveva come in uno specchio o in un globo di vetro. Era il rimpianto di un passato perduto (quello dei suoi avi o addirittura, com’ella credeva, delle sue vite vissute) oppure la ricerca dell’utopia da contrapporre anarchicamente all’Occidente moderno del Capitale, già allora incamminato verso l’amara china della spersonalizzazione e dell’omologazione.

Da quel momento iniziò il suo stravagante modo di abbigliarsi all’araba, di cibarsi secondo le usanze arabe e le regole coraniche, di circondarsi di tutte le possibili araberie. Il punto d’intersezione fra Islam e Anarchismo venne istintivamente trovato nell’assoluta indifferenza per i problemi economici e pratici (il denaro, l’alloggio, l’approvvigionamento), nella allegra disponibilità per tutte le situazioni, anche le più scomode e precarie, nell’incertezza del domani come regola dell’oggi, nel vivere dell’aiuto altrui, mai preteso, sempre gradito e sempre generosamente ridonato. Insomma una zingara anarchica, secondo la definizione dello storico Pier Carlo Masini: questo fu Leda Rafanelli. Quando la giovane tornò in Italia, inebriata d’oriente e d’anarchia, si stabilì a Firenze. La sua cultura era quella di una autodidatta intelligente che, avendo fatto l’apprendista in tipografia, nel comporre a mano aveva immagazzinato vocabolario, classici, storia, grammatica, sintassi, geografia e scienze. Il suo primo maestro d’anarchia era stato un compagno di lavoro, pratese, concittadino di Gaetano Bresci, il cui gesto recente era stato quello del seminatore di nuovi proseliti.

Indirizzata da questo compagno Leda Rafanelli cominciò a frequentare l’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze, dove poté incontrare gli ultimi superstiti della Prima Internazionale, come il contadino Giuseppe Scarlatti e i coniugi Pezzi, la più avventurosa coppia dell’anarchismo italiano. Vi incontrò anche Luigi Polli, un giovane anarchico già conosciuto in Egitto ed ora rimpatriato. I due si amarono e si sposarono. Nacque la “ditta” Rafanelli-Polli, una casa editrice all’insegna dell’anarchismo. Gli opuscoli che uscirono dai torchi anarchici fiorentini – uno stanzone in Via dei Papi, nel rione di Santa Croce e una rivendita in Borgognissanti – rifornirono di nuovi testi la propaganda del movimento. Il pamphlet di Leda Contro la scuola (1907), che anticiperà le analoghe invettive papiniane, ebbe un grande successo e fu ripreso a puntate sul giornaletto di Ostiglia Luce! (1900-1909), del quale il giovane Arnoldo Mondadori era uno dei redattori.

“Riscuote in pubblico fama di persona piuttosto libera nella condotta morale, anche per i suoi principi di libero amore. Ha intelligenza svegliata e cultura superiore alla media acquistata con la lettura assidua e con l’assimilazione di libri, opuscoli, riviste sociologiche. Ha frequentato appena le scuole elementari”.

Così cominciava, in data 4 agosto 1908, una lunga scheda di Pubblica Sicurezza conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato intestata per l’appunto a Leda Rafanelli.

L’atteggiamento di Leda nei rapporti con i compagni anarchici e di altri partiti si caratterizzò per la sua mancanza di settarismo e per la sua tolleranza: “Devo dire, a mia lode, che sono stata immune da settarismo anche a quei tempi che era di moda. Collaboravo su tutti i giornali di propaganda, qualunque fosse il loro partito politico. Parlavo nei comizi a fianco di compagni di ogni tendenza”. Le analisi politiche e sociali condotte da Leda nei suoi articoli erano spesso acute ed originali, tanto da mettere in discussione le rigide categorie di pensiero che, soprattutto in tema di morale, circolavano anche fra gli anarchici e i socialisti. In particolare esse si distinsero per una insolita attenzione al punto di vista delle donne rispetto ai vari problemi affrontati: per esempio, pur allineandosi con l’anticlericalismo – mai con l’ateismo – professato generalmente dagli anarchici, Leda cercò di approfondire l’analisi delle ragioni che spingono soprattutto le donne a frequentare la chiesa – e ritenne che non fossero ragioni disprezzabili: derivavano da un lato dalla solitudine in cui le donne sono lasciate dai mariti, che nel tempo libero dal lavoro si dedicano preferibilmente al vizio del bere; dall’altro dal bisogno che esse hanno di confronto spirituale, data la loro maggiore ricchezza interiore rispetto agli uomini.

Leda Rafanelli, oltre che polemista, si scoprì narratrice e iniziò a pubblicare racconti e bozzetti, tutti ispirati alla protesta sociale. Fu una prima fase, un po’ ingenua, con molte concessioni alla propaganda spicciola e al bozzettismo strappalacrime. Ma nel 1905 da questo erbaio spuntò il primo arbusto: il romanzo Un sogno d’amore, che ricevette le lodi di Paolo Orano sull’Avanti! (e più tardi anche una traduzione in spagnolo). Leda aveva venticinque anni. Il suo nome era già noto nelle file del movimento anarchico. Armando Borghi le chiese una presentazione di alcuni suoi scritti, ed effettivamente ella redigerà la prefazione del suo libello Il nostro e l’altrui individualismo (1907), il primo attacco borghiano contro il superomismo nicciano; Pietro Gori ne apprezzò le qualità e la considerò come una sorella, una stima che Leda contraccambierà con la venerazione. La sua sfrenata produzione di articoli inondò la stampa libertaria e fiancheggiatrice; per i tipi Rafanelli-Polli uscì a Firenze anche una rivista, La Blouse (1906-1910), tutta compilata da “autentici lavoratori del braccio”. Intanto i rapporti tra Leda e Luigi Polli, ottimi sul piano politico, si raffreddarono su quello affettivo.

Dopo una breve relazione con il giornalista spoletino Piero Belli (1882-1957) che più tardi passerà all’interventismo corridoniano e al fiumanesimo, fu decisivo nella vita della Rafanelli l’arrivo a Firenze del giovane aretino Giuseppe Monanni (1887-1952), al quale il buon Polli lasciò subito libero il campo, conservando per Leda una calda e lunga amicizia. Anche Monanni era tipografo e anarchico ma di un anarchismo più affinato ed esigente che valse a trarre Leda dal minuto populismo a dispense fino a quel momento coltivato. Spirava allora in Italia da qualche anno un vento di novità che, dietro i nomi di Max Stirner e di Nietzsche, aveva investito anche il movimento anarchico, scomponendone le file. L’accento passò dalle masse all’uomo, anzi al superuomo, dall’eguaglianza alla libertà, dalla rivoluzione sociale alla rivolta individuale. Il Monanni, sensibile a questi richiami, li assimilò fondando a Firenze, povero ma ventenne, la rivista Vir (luglio 1907-maggio 1908), un titolo che era già un programma. La riproduzione di molti articoli di Giovanni Papini e l’esaltazione di Gabriele D’Annunzio per la tragedia Più che l’amore (1906), il cui protagonista è l’eroe Corrado Brando, erano rivelatori di una nuova tendenza. Nasceva l’anarco-individualismo.

A metà del 1908 Monanni e Leda vennero chiamati a Milano da un’altra coppia che fece storia a sé nelle vicende dell’anarchismo italiano: Ettore Molinari e Nella Giacomelli. Molinari era docente di chimica al Politecnico e la Giacomelli, istitutrice dei suoi figli, curava la pubblicazione del giornale Il Grido della Folla (1902-1907), seguito poi da La Protesta Umana (1906-1909). La linea di questi giornali fu quella dell’individualismo d’azione e dello scontro frontale con le Istituzioni borghesi, sfidate con violenti articoli e proposte spericolate. La coppia milanese si rivolse a Monanni e alla Rafanelli che conoscevano il mestiere e già collaboravano da Firenze ai due periodici. Giunti a Milano, la Rafanelli e Monanni, mentre diedero volentieri una mano a La Protesta Umana, continuarono in autonomia la loro originale esperienza e fondarono una nuova rivista già concepita a Firenze come continuazione di Vir. La intitolarono Sciarpa Nera (1909-1910) e subito assurse ad emblema dell’individualismo stirneriano. Ma si trattò di un individualismo diverso da quello di Molinari e Giacomelli, meno follaiolo e meno barricadiero. “Dunque”, scriveva Bruna (che è il secondo nome di Leda) sul terzo numero della rivista,

“Milano rumorosa, città più di attrito che di lavoro, di foga più che di volontà, di sport più che di arte, di abilità più che di sapienza, sia pure considerata come il cervello d’Italia; ma noi faremo la distinzione fra la materia e la sua esplicazione spirituale ed esalteremo quest’ultima”.

Nel corso del 1909 Monanni acquisì la Società Editrice Milanese che si trasformò in Casa Editrice Sociale. Fu questo il più grande sforzo editoriale degli anarchici italiani, con una produzione di qualità tecnica elevata e di buon livello culturale (una edizione de L’Unico di Stirner, de L’Anticristo di Nietzsche, scritti di Kropotkin e di Gori tra gli altri). Monanni come editore ebbe fiuto e una solida base di conoscenze letterarie, filosofiche, sociologiche. Le spese furono limitate dato che Monanni e Leda componevano personalmente i libri da stampare, ma l’organizzazione commerciale si dimostrò pessima. Così l’impresa navigò sempre in mezzo ai debiti e alle cambiali, senza requie, per altri quindici anni. Un pittore non ancora famoso disegnò il marchio della Casa Editrice Sociale: un volto demoniaco di ribelle anguicrinito con il motto “che solo amore e luce ha per confine”. L’artista si chiamava Carlo Carrà, era stato militante anarchico a Londra alla fine del secolo precedente e a Milano continuò a frequentare i gruppi anarchici, quello de La Protesta Umana e quello di Sciarpa Nera (per i due periodici egli fornì la sua collaborazione in qualità di grafico).

Fra Leda Rafanelli e il pittore nacque un rapporto di simpatia, forse una breve avventura sentimentale. Carrà stava lavorando al grande dipinto I funerali dell’anarchico Galli (1910-1911) che segnò il suo passaggio al futurismo. Era in atto una curiosa convergenza per nulla occasionale fra anarchismo e futurismo: Carrà disegnò la testata del giornale anarchico di Parma La Barricata (1912-1913), diretto dall’anarco-futurista Renzo Provinciali, mentre Filippo Tommaso Marinetti collaborò alla rivista La Demolizione (1907-1911) pubblicata dal sindacalista rivoluzionario Ottavio Dinale (1871-1959) ad Annemasse, in Alta Savoia, ed in seguito a Milano (su entrambi i periodici apparve anche la firma della Rafanelli). Significative furono nel periodo anteguerra le interferenze e le contaminazioni tra individualismo stirneriano-nicciano, sindacalismo, sovversivismo irregolare ed inclassificabile, follajolismo alla Paolo Valera. La coppia Monanni-Rafanelli “fuori da ogni circolo, libera da ogni legame, immune da ogni contagio”– così i due si definirono, vi passò in mezzo, curiosa ed eccitata, senza perdere niente della sua autonomia e della sua originalità.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Rafanelli partecipò attivamente alla campagna antimilitarista mentre Monanni, disertore alla chiamata alle armi, riparò in Svizzera. I rapporti fra i due interrotti sul piano affettivo e familiare non si turbarono su quello politico e la collaborazione continuò nel lavoro editoriale e nella propaganda. La Rafanelli aveva ora un nuovo compagno nel falascià Emmanuel Taamrat. I falascià erano uno sparuto gruppo etnico di stirpe ebraica e di lontana origine assiride, trapiantato da secoli in Etiopia e là perseguitato dal governo imperiale di Addis Abeba e dai dignitari della chiesa cristiano-copta. La Rafanelli, avendo conosciuto a Milano il pubblicista ebreo Raffaele Ottolenghi, ex diplomatico e conoscitore dei problemi africani ed asiatici (anch’egli aveva soggiornato per qualche tempo in Egitto), socialista, collaboratore di Critica Sociale e dell’Avanti!, si era fatta con lui promotrice di una campagna di solidarietà verso l’etnia falascià. E uno di essi, Emmanuel Taamrat per l’appunto, capitato non sappiamo come a Milano, ella aveva accolto in casa sua per qualche tempo come amico e in seguito come compagno di vita. Fu in quell’epoca che Leda ebbe occasione di conoscere Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Nel dopoguerra l’attività editoriale di Rafanelli e Monanni riprese con rinnovato vigore e maggior fortuna, favorita dal momento politico. La Casa Editrice Sociale sfornò decine di libri: l’opera omnia di Nietzsche in undici volumi (di cui Leda corresse tutte le bozze), opere di Kropotkin, Morris, Malatesta, Darwin, Mackay, Palante. Giuseppe Rensi vi pubblicò il saggio Il materialismo critico (1927), Antonio Graziadei Capitale e colonie (1927). Monanni ebbe soprattutto il grande merito di aver per primo fatto conoscere agli Italiani nella loro lingua un’opera capitale come La psicologia delle folle (1895) di Gustave Le Bon, tradotta e pubblicata nel 1925.

Pure Leda Rafanelli dette un suo personale contributo alle edizioni con un nuovo romanzo, L’eroe della folla (1920), e con una raccolta di novelle, Donne e femmine (1922). Nel 1923 l’attività subì un duro colpo in seguito a una spedizione fascista che distrusse la sede di Viale Monza, “covo di anarchici”. Ora si bruciava L’Unico di Max Stirner insieme a La Comune di Louise Michel, Le parole di un ribelle di Petr Kropotkin insieme alla Storia di un ruscello di Elisée Reclus: gli autori che Mussolini un tempo aveva amato ed elogiato. Ciò malgrado l’impresa risorse dalle ceneri e continuò la sua attività mutando nome in Casa Editrice Monanni (1924), grazie alla stima e all’amicizia nonché al sostegno fattivo e all’appoggio concreto che alcuni sindacalisti rivoluzionari come Angelo Oliviero Olivetti e Agostino Lanzillo manifestarono verso l’editore. In una collana di romanzi che Monanni pubblicò nella seconda metà degli Anni Venti (opere di Maksim Gorkij, Michail Artzybaschev, Jack London, Upton Sinclair, Han Ryner, Octave Mirbeau, Aleksandr Kuprin, Lydia Sejfulina, Aldous Huxley), Leda Rafanelli redasse sotto lo pseudonimo di Etienne Gamalier, fingendosene traduttrice, un romanzo anticolonialista: L’oasi. Romanzo arabo (1929).

Leda Rafanelli aveva allora quasi cinquant’anni ma purtroppo la sua vita pubblica stava per finire. Vivrà ancora per altri quaranta, in ritiro, fra angustie economiche e familiari (la morte del figlio Aini, “occhi miei” in lingua araba, Marsilio, nel 1944). Scriverà di tanto in tanto racconti per ragazzi, poesie, romanzi da riporre nel cassetto, molte lettere agli amici. Nada, La signora mia nonna, Le memorie di una chiromante – tutti testi inediti – sono il commovente tentativo di lasciare una testimonianza di sé e di alcuni frammenti, spesso dolorosi, della sua vita, come la turbolenta fine della relazione con Monanni, la morte del figlio, le ristrettezze economiche nelle quali è costretta a vivere. Questi scritti, concepiti in forma di romanzo, se da un lato danno la possibilità di conoscere qualcosa dell’esistenza raminga di Leda, riflettono dall’altro l’immagine di una donna animata dalla volontà di non scomparire dalla scena, la sua convinzione di volere e di potere dire ancora qualcosa di sé. E questa volta è proprio al privato, al suo modo di essere e di vivere, alle sue passioni che Leda attribuisce importanza e valore di documenti, non solo per se stessa: l’uso dell’autobiografia romanzata, e non del diario, è un segno che la scrittrice prevedeva ancora dei destinatari.

Leda concepisce la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile e che lei stessa sperimenta in prima persona. Se nei suoi scritti di propaganda militante sull’emancipazione femminile ella sostiene che i reali mutamenti nella vita delle donne avverranno in seguito a trasformazioni in primo luogo culturali, nella sua narrativa Leda Rafanelli ci immerge nel vivo delle contraddizioni che l’essere donna comporta, offrendoci stimoli ancora attuali. I primi suoi romanzi (Un sogno d’amore, 1905; Seme nuovo, 1912; L’eroe della folla, 1920) raccontano storie di donne che si dedicano a tempo pieno alla propaganda anarchica, emancipate, intelligenti e spesso intellettuali, ribelli e protagoniste della propria vita. Così Vera, l’eroina di Seme nuovo “era passata attraverso quella febbre di movimento, rafforzando il pensiero, elevandolo, spogliandolo sempre più dai pregiudizi della educazione antica, ricostruendo in sé senza saperlo una nuova morale al posto di quella che demoliva”. Vera è “la donna ribelle; la donna che si è saputa elevare al di sopra della massa delle incoscienti del suo sesso, e discute, nega, afferma alla coerenza delle idee innovatrici”.

Non è facile conciliare la donna rivoluzionaria di questa prima produzione narrativa con quella “orientale” delle ultime opere edite (Incantamento, 1921; Donne e femmine, 1922; la succitata L’oasi, 1929), della quale viene celebrata proprio la capacità di obbedienza, di dolcezza e di sottomissione (Islam in arabo significa per l’appunto “sottomissione di sé a Dio”, come ci ha ricordato Michel Houellebecq), che vive solo per l’amore e per la quale non sembra esistere altra dimensione della vita se non quella racchiusa tra le mura domestiche. Frequenti si fanno, nella seconda fase della produzione narrativa di Leda, espressioni come questa, tratta da L’oasi:

“Che cosa siamo noi, povere donne, per i nostri maschi audaci e forti? Siamo piccole cose, dolci e discrete, che le cose grandi trascinano come il vento trascina la sabbia! Siamo le lampade della casa, le schiave obbedienti che accolgono con gioia il loro amore impetuoso e selvaggio”.

Il percorso che ha indotto la Rafanelli ad abbandonare la primitiva visuale per aderire al mito idealizzato della donna araba può essere motivato da una sua personale evoluzione nel privato, in quanto, proprio per la intensa commistione tra letteratura e vita di cui si è parlato, e del quale il suo non è certo un caso unico in quest’epoca-si pensi alla vita e alle opere di Gabriele D’Annunzio-l’elemento autobiografico è sempre presente nella sua narrativa. Già le protagoniste dei suoi primi romanzi (Anna di Un sogno d’amore e Vera di Seme nuovo) non sembrano molto differenti dalla giovane Leda Rafanelli militante anarchica, articolista, attivista e propagandista; la capacità di analisi e l’autonomia di posizione che Leda mostra nelle colonne dei giornali su cui scrive e che spesso fonda e dirige, appartengono anche alle protagoniste che ella rappresenta. Queste ultime non hanno dubbi sulla loro scelta rivoluzionaria e nel dibattito politico tengono testa agli stessi compagni. Non solo; esse non hanno bisogno di nessun mediatore per riconoscere la giustezza delle idee che professano. A differenza di molte figure femminili della narrativa del tempo, le eroine della Rafanelli non scoprono la politica perché incontrano un uomo: l’opposizione, nei suoi romanzi, non si pone tra uomo e donna, ma tra gli oppressori e chi, indipendentemente dal sesso, lotta per l’affermazione dei propri ideali rivoluzionari. Si ribalta dunque un cliché, non solo letterario, che prevede l’iniziativa maschile per l’accesso della donna ai temi sociali e politici. Probabilmente questa dovette non solo essere la convinzione letteraria di Leda Rafanelli, ma anche coincidere con la sua esperienza prettamente personale, che si presenta, per i dati che abbiamo visto, difficilmente inquadrabile in un ruolo subalterno.
Ma già in questi primi romanzi, si può notare che l’esperienza dell’amore-passione introduce la contraddizione e la scissione all’interno della figura femminile stessa:

Magda sembrava una donna del passato e Vera era una donna dell’avvenire. Ma in ambedue era anche qualcosa che sminuiva l’apparenza. Vera aveva ancora in sé la passione sensuale dell’anima latina, mentre Magda, rinunciando a tutto quello che per l’amica era la vita, aveva saputo liberarsi dalla schiavitù dei sensi e dell’amore. In questo era più ribelle dell’altra, di Vera, completamente schiava dell’istinto, donna forte nel pensiero e nell’azione di fronte alla società e alle leggi e pronta a tornare femmina non appena vicina a un maschio” .
(Seme nuovo)

Da una parte i sentimenti “naturali” delle donne (l’amore, la gelosia, la maternità) sono valutati negativamente, sentiti come una perdita d’indipendenza, come una forza capace di riportare la donna al suo atavico stato asinino di soggezione, e soprattutto sono interpretati come inaccettabili distrazioni che allontanano dal lavoro-missione di propaganda politica:

“Sentì tutta la miseria dei sensi, la miseria che rende schiavi i maschi e le femmine, che fa piegare gli individui a vergogne rimpiante, a bassezze odiose. E si stupì quasi di conoscere che anche lei, in certi momenti, non era che una femmina; che la sua intelligenza superiore, la sua volontà plasmata di forze cedevano quasi senza lotta al primo assillo di un desiderio sensuale. E ne restò umiliata”. (Seme nuovo)

Ma d’altra parte le protagoniste dei romanzi di Leda Rafanelli sono donne molto sensuali e passionali e Leda stessa dedica nei suoi testi un grande spazio e una grande attenzione a questa dimensione del privato femminile e soprattutto all’intreccio fra tempestosa vita personale e intenso impegno politico. Se nei suoi primi romanzi, opere di propaganda anarchica, caratterizzati da scarsissima cura formale e dall’uso di schemi tipici della letteratura di consumo, la contraddizione si risolve tutta a favore di ciò che l’ideologia anarchica prevede per la donna emancipata, con la rinuncia delle protagoniste alla loro vita privata e l’adesione totale all’immagine pubblica e ideologica, è anche vero però che Leda dovette interrogarsi a lungo sulla scissione pubblico-privato, intravvista come specificità insita nel destino femminile. Probabilmente è sul filo delle sue riflessioni che elaborò negli ultimi romanzi il mito della donna araba. Una delle tracce più importanti che guidano l’elaborazione di questo mito è l’affermazione che le donne, non meno degli uomini, hanno diritto ad una vita sessuale felice. In questo Leda è voce originale anche fra le emancipazioniste radicali, che per lo più, in tema di sessualità, pudicamente tacciono.

Convinta che tutte le donne, anche quelle non belle, debbano avere spazio per l’espressione della loro sessualità, Leda ritiene in un primo momento che la soluzione stia nel libero amore, tema cardine dell’etica anarchica:

Il diritto all’amore diverrebbe nella società egualitaria il privilegio per chi la natura ha favorito della bellezza? No, ci voleva per l’avvenire l’amore per tutti come ci voleva per tutti il pane e il lavoro. […] L’amore in comune, la completa distruzione della famiglia, il ritorno alla primitività del possesso…” (Un sogno d’amore).

Più tardi Leda Rafanelli si convince però che non sono le questioni estetiche a determinare il problema della sessualità femminile, ma più sostanziali questioni di civiltà: nel mondo occidentale non è possibile che la donna viva per intero la sua vita sessuale. Anche per questo nel mito arabo degli ultimi romanzi sembrano vivere a proprio agio soprattutto le donne: qui esse sono in presa diretta con una parte di sé più profonda e naturale, qui possono interrogarsi sulle loro passioni e i loro sentimenti e confrontarsi con una istintività e una autenticità che la civiltà occidentale ha ormai debellato, rimosso o codificato in rigide ed asettiche regole comportamentali. Tuttavia anche la scelta di un’altra civiltà sembra non lasciare scampo al destino fatale e biologico delle donne, la maternità:

“Comprese che una legge di dolore incatenava tutte le povere donne l’una all’altra, in una solidarietà di sesso! Una legge di natura che piega a terra, le costringe a pagare-esse sole-il piacere che hanno goduto in due” (Donne e femmine).

Il finale de L’oasi, che rappresenta un bambino e due donne sole di fronte al mare, è quasi un appello alla solidarietà femminile come possibilità intravista per alleviare il peso di un destino che rimane tragico. In buona sostanza, la Rafanelli va senza dubbio inscritta, per il suo marcato orientalismo, nella cerchia di quegli intellettuali che, da Giuseppe De Lorenzo, primo traduttore italiano dei discorsi di Buddha, al teosofo Giuseppe Tucci, a Giovanni Papini, studioso di esoterismo negli anni in cui fu direttore del Gabinetto Vieusseux a Firenze, coltivarono interessi non superficiali per la teosofia. In ogni caso, almeno sul piano concreto, neppure la fine del fascismo le restituì la forza per rituffarsi concretamente nell’impegno civile e politico. Solo negli ultimi anni di vita si risvegliò in lei una rinnovata passione civile. Scrisse negli Anni sessanta alcuni suoi ricordi per il giornale Umanità Nova diretto da Mario Mantovani, suo vecchio compagno degli anni milanesi. Ritrovò la sua vena di scrittrice, aiutata da una memoria prodigiosa. Ella ripercorse e rievocò fino agli ultimi giorni in lunghe lettere agli amici più intimi il lontanissimo passato, la sua primavera fiorita fra le rive del Nilo e le ciminiere di Sesto San Giovanni. Morì a Genova il 13 settembre 1971.

 

Bibliografia

Paolo Orano, Autori proletari. Leda Rafanelli in Avanti! del 22 febbraio 1906.

Carlo Carrà, La mia vita, Milano, Rizzoli, 1945. I ricordi di Carrà sono molto imprecisi (si parla della collaborazione con Monanni a pagina 71). Di Carrà devono essere ricordati i disegni per Sciarpa Nera, la copertina al pamphlet antimonarchico di Paolo Valera, Il cinquantenario (Milano, Casa Editrice Sociale, 1911), il ritratto di Pietro Gori su La Rivolta di Milano del 10 maggio 1911.

Da ricordare che Giuseppe Monanni collaborò dalla Svizzera a Critica Sociale con due articoli: La questione dell’oro (numero del 16-31 gennaio 1917) e Mirbeau (numero del 1-15 marzo 1917).

Raffaele Ottolenghi morì suicida nel 1917. Su di lui il necrologio di Filippo Turati su Critica Sociale del 16-30 giugno 1917.

L’intellettuale dissidente

Knut Hamsun, spirito aristocratico, benché nato povero, e Premio Nobel, per il quale la Natura nei suoi romanzi è la condizione necessaria alla vita

Knut Hamsun, come Ezra Pound, fu moderno ed arcaico allo stesso tempo. Lo scrittore norvegese scriveva della sua terra con l’occhio sognante di chi non riesce ad adattarsi alla Modernità. Come il sole, si spense. Come la stella più bella, dopo aver illuminato le contraddizioni di un mondo che lo aveva vessato, tradito ed infamato, risorse tra le righe dei più grandi scrittori. Era il 19 Febbraio del 1952, quando Knut Hamsun, se ne andò. Un uomo la cui biografia conta 92 anni, quasi un secolo.
Un’esperienza travagliata, la sua. Un uomo che ebbe modo di conoscere le glorie del Premio Nobel, ma anche le miserie della fame e le ingiurie del carcere. Un autore eclettico: un po’ avanguardista e un po’ conservatore, la cui eredità è divenuta la fortuna di autori come Kafka, Mann o Montale.

Knut Hamsun in realtà si chiamava Knud Pedersen e nacque il 4 Agosto del 1859. I suoi dati anagrafici sono piuttosto incerti, secondo le fonti ufficiali, egli vide la luce nel comune norvegese di Vågå, benché il comune di Lom ne rivendichi anch’esso il privilegio dei natali. Le sue radici affondano nel mondo contadino, in senso stretto, e nulla avrebbe lasciato presagire la nascita di un individuo dalle doti stilistiche così spiccate. Quel mondo rurale, cadenzato dall’incedere delle stagioni, che sarà lo sfondo di tutta la sua produzione romanzesca. Crebbe in povertà nel Nordland, già all’età di 3 anni ebbe la sfortuna di conoscere la fame, una condizione che lo accompagnerà per buona parte della sua vita. Un’infanzia mai realmente vissuta, tra il disagio della povertà estrema ed uno zio che lo aveva privato degli svaghi e dei giochi dei bambini.

Benché Hamsun abbia sofferto molto a causa di questo zio, fu proprio grazie a quest’ultimo che il futuro premio Nobel scoprì l’amore per la letteratura. La privazione dell’infanzia verrà ricompensata dal sapere acquisito: sin da subito, infatti, spiccarono le doti che fecero di lui “un intellettuale in calzoni corti dalle attitudini aristocratiche, che aveva preso l’abitudine di considerare le contrade norvegesi con occhio distante e vagamente altero”.

Come Edevart, personaggio del suo celebre romanzo Vagabondi, durante l’adolescenza si abbandonerà in lunghi viaggi alla scoperta delle bellezze mistiche della sua terra, la Norvegia. Gli anni errabondi non costituiranno affatto un periodo bohémien, bensì uno studio formativo, una fase di formazione propedeutica all’attività letteraria. Egli, infatti, era in grado di estrapolare dal reale la propria visione narrativa: traendo spunto dalla realtà, rintracciava il proprio filone letterario. Tutto diveniva esperienza, tutto sarebbe divenuto scrittura. Le persone con cui faceva conoscenza subivano sin da subito il fascino dei suoi modi aristocratici. Nonostante gli umili natali, Hamsun era quello che si definisce un “aristocratico di spirito”: un po’ popolano, un po’ gentiluomo.

Benché la sua produzione letteraria fosse già prolifera dall’età di 17 anni, il romanzo che lo porterà agli onori della cronaca sarà Fame, opera ottocentesca ma già moderna, che si avvale dell’uso del flusso di coscienza e del soggettivismo, rivoluzionaria che segna una svolta nella letteratura europea e dà luce al prototipo dell’eroe-viandante, espressione di anarchica libertà ma anche di invincibile solitudine e raggelante percezione del nulla. Come in tutta la produzione hamsuniana, quest’opera trascende la semplice narrazione, divenendo un’esposizione immaginifica dal retrogusto marcatamente autobiografico, facendo sentire e percepire al lettore tutto ciò che prova il protagonista che racconta in prima persona. Quest’opera, infatti, verrà partorita a seguito dei due sfortunati viaggi negli Stati Uniti. Un’esperienza che segnerà indelebilmente la sua elaborazione romanzesca. Contrariamente alle sue aspettative, in quelle terre troverà tutt’altro che un sogno; il suo soggiorno d’oltreoceano sarà bensì caratterizzato da una miseria estrema. Fame rappresenta di fatto un’aspra critica nei confronti del mondo industriale, responsabile di una progressiva alienazione degli individui. Con un finale che può lasciare storditi.

Come accennato poc’anzi, i suoi numerosi viaggi furono una vera e propria esperienza propedeutica. Per Hamsun era, infatti, fondamentale assimilare le tradizioni locali. Fu proprio il suo itinerario caucasico ad acuire la sua già spiccata fascinazione per la Russia. Questa civiltà orientale, o per meglio dire eurasiatica, costituisce – secondo Hamsun – il punto di partenza di un’autocritica occidentale: ogni cultura deve svilupparsi secondo la propria logica. Un’attitudine che fa di Hamsun un scrittore neo-eurasiatico spurio, che lo avvicina in un certo senso al pensiero del più attuale Aleksandr Dugin. Nonostante fosse un uomo tendenzialmente laico, criticherà aspramente lo spirito razionale ed analitico europeo.

Nel suo capolavoro, Misteri, il protagonista, Johan Nilsen Nagel, inebriato dai fumi dell’alcool si abbandona ad una digressione, sfidando gli assiomi della Modernità. «Quale profitto c’è in fondo, anche parlando da un punto di vista unicamente pratico, a spogliare la vita di ogni poesia, di ogni sogno, di ogni misticismo e di ogni menzogna». Un pensiero che verrà riproposto spesso nell’arco della narrazione, rimarcandone i contenuti.

Negli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo Hamsun, lasciatosi alle spalle un matrimonio fallimentare, si trasferirà con la seconda moglie, Marie, in campagna, con l’obiettivo di impiantare una fattoria. In questi anni scriverà numerosi romanzi di successo tra cui Sognatori, Sotto le stelle d’autunno e Pan. In quest’ultimo romanzo dall’atmosfera misteriosa si richiamano gli eroi di Misteri e di Fame, questi tre protagonisti sono, infatti, accomunati da una spiccata intelligenza accompagnata da un’attitudine morbosa ed angosciante, tipica della letteratura romantica. In Pan è la natura a parlare in una lingua sommessa e sognante della breve estate nordica, del suo chiarore diffuso e fosforico. Ed è, insieme, l’epos di un amore impossibile che si carica sempre più di esaltazione e struggimento e che ha per protagonista il tenente Glahn, che nelle carte trovate dopo la sua morte racconta la sfortunata passione per la giovanissima Edvarda, la quale diventa la voce stessa della passione, con le sue maree incontrastabili che invadono la natura tutta e creano un amalgama dove alla fine è davvero difficile distinguere ciò che è paesaggio e ciò è psiche.

Il 1920 segnerà per Hamsun un anno di svolta, in cui le sue fatiche letterarie saranno internazionalmente riconosciute con l’assegnazione del Premio Nobel. Il risveglio della Terra sarà, infatti, il romanzo che consacrerà l’umile scrittore norvegese nell’olimpo dei grandi del Novecento. Un romanzo che suggellerà la critica all’industrializzazione che ha marginalizzato il lavoro manuale, imbarbarendo la figura del contadino e della vita rurale. In incipit è possibile rintracciare un richiamo a Pan: «Il lungo, lunghissimo sentiero fra gli acquitrini e le foreste, chi l’ha tracciato, se non l’uomo? Prima di lui, niente sentiero; dopo, di quando in quando, sulla landa e per le paludi, un animale seguì la via appena percettibile e la marcò con un’impronta più netta. Alcuni Lapponi, fiutata la pista della renna, cominciarono poi a servirsi del sentiero nelle loro corse di fjeld in fjeld. Così nacque il sentiero nell’Almenning, il vasto territorio senza padrone, la terra di nessuno».

Sin da subito si rinviene uno dei topoi ridondanti nella narrazione hamsuniana. La Natura, infatti, non è un semplice sfondo sul quale inscenare le storie degli uomini, bensì la condizione necessaria per la vita. Nonostante ne fosse anteriore, è possibile rinvenire in Hamsun la concezione jüngeriana del bosco, ovvero “ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza”. Nelle radure i personaggi dello scrittore norvegese sembrano trovare rifugio nei confronti della società borghese. Ogniqualvolta essi valichino le soglie del bosco, ne usciranno rinvigoriti e rigenerati dalle ferite che il mondo moderno incide sulle loro carni.

Hamsun è un eroe antimoderno, lirico, impressionista, retrospettivo, ostile alla civiltà liberale anglo-sassone, la stessa che ha sacrificato le tradizioni, la Natura e la bellezza sull’altare del libero mercato. Sin dalla giovane età, mostrerà un audace apprezzamento per il mondo germanico, vedendo nel nazionalsocialismo un antidoto alla decadenza occidentale. Verso la fine degli anni Trenta, lo scrittore sosterrà apertamente il partito nazionalista di Quinsling, divenuto in seguito collaborazionista dopo l’invasione tedesca della Norvegia. Una posizione che pagherà caro: ormai sordo e novantenne verrà processato e condannato per alto tradimento.
Condividerà lo stesso destino di Ezra Pound, dapprima richiuso in un manicomio ed in seguito in una casa di cura, dove trascorrerà i suoi ultimi giorni. Tuttavia regalando al mondo un ultimo capolavoro. Un lascito ai posteri: Per i sentieri dove cresce l’erba, “Gelido catasto dei giorni deserti e dell’assurdità delle cose”, come lo ha definito Claudio Magris, è il diario dell’internamento in ospedali psichiatrici e sanatori a cui lo scrittore viene appunto condannato per il suo collaborazionismo con i nazisti. Ultima opera dell’ormai anziano Hamsun, scritta nel 1948. Come giudicare uno Stato che si accanisce contro uno scrittore di novant’anni, lo relega per mesi in un ospedale psichiatrico per indagare sulle sue capacità mentali, provocandogli ulteriori malesseri psicofisici che lo ridurranno in fin di vita? E come giudicare Knut Hamsun che aderisce con entusiasmo al pangermanesimo nazista, appoggia l’occupazione tedesca e dopo il suicidio di Hitler nel bunker di Berlino lo definisce “figura di riformatore del più alto rango”?

Allo stesso modo i capi del nuovo movimento in Germania ritrovavano nei libri di Hamsun lo spirito e la cosmogonia del nazionalsocialismo. Fu infatti molto elogiato da Goring e da Rosemberg. Da questi elogi alla accusa di filonazismo il salto sembra eccessivo, ma il 7/5/1945, quando tutto era assolutamente perso per i tedeschi, l’autore norvegese pubblicò questo necrologio su Hitler sull’importante quotidiano norvegese Aftenposten: “Non sono degno di parlare di Hitler a viva voce. La sua vita e la sua opera non danno adito a pettegolezzi di tipo sentimentale. Era un lottatore, un combattente per l’umanità e un predicatore del messaggio della giustizia per tutte le nazioni. Il suo destino fu che dovette agire in un’epoca di brutalità senza precedenti che in ultimo l’annichilì. Noi, suoi adepti vicini, ci prostriamo davanti alla sua morte”.

Se queste sono le parole di un vecchio folle rinchiuso in un manicomio, lasciamo allora il Tenente Glahn dire “essere come devo e non come sono”. Lasciamo in pace anche Knut Hamsun quale grande scrittore che è stato e uomo che ha sofferto e sperato in un mondo dove non si patisse la fame. Per questo fu avversario dell’imperialismo inglese e dell’Unione Sovietica e abbracciò la cultura tedesca, in buona fede. Senza contare che bisogna sempre tener presente che non si può giudicare un’epoca passata e i suoi protagonisti con le lenti di oggi.

In effetti, come hanno sempre creduto i sostenitori del grande scrittore scandinavo, il suo essere filo-nazista e in posizione autorevole era un modo per proteggere il suo paese nonostante fosse già occupato, una maschera che indossava per salvare il salvabile e non perché condividesse le teorie naziste. Tuttavia, dopo la fine della guerra, nelle principali città norvegesi folle inferocite bruciarono i suoi libri in pubblico.

Contro di lui, invece, fu avviato un procedimento per responsabilità civile e nel 1948 fu condannato al pagamento di 325.000 corone norvegesi per la sua presunta iscrizione al Nasjonal Samling, ma scagionato da qualsiasi forma di affiliazione al regime nazista. Che fosse un membro del Nasjonal Samling o no, e se le sue facoltà mentali fossero state danneggiate è tuttora una questione molto dibattuta. Hamsun affermò di non essersi mai iscritto ad alcun partito politico. Lo stesso Hamsun scrisse di questa esperienza ne Per i sentieri dove cresce l’erba, un libro da molti considerato come la prova del corretto funzionamento delle sue facoltà mentali.

L’autore danese Thorkild Hansen studiò il processo e scrisse il libro Processo a Hamsun (1978), che fu accolto con grande clamore in Norvegia. Sulla base del libro di Hansen, lo scrittore svedese Per Olov Enquist scrisse il suo Processo a Hamsun (1996), da cui è tratto il film Hamsun del regista svedese Jan Troell.

 

Fonti: IBS, L’intellettuale dissidente.

Ernst Jünger, teologo della nuova epoca, pedagogo della libertà, autore di capolavori come “Nelle tempeste d’acciaio” e del profetico “L’operaio”

Ernst Jünger (Heidelberg 1895 – Riedlingen, Alta Svevia, 1998), fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». 

«Le isole – insegna Jünger – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di San Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali.

Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito.

L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti.

E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern, libro ora dimenticato, ma tra i migliori romanzi sulla guerra, privo di enfasi e di retorica, è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra raccontato con uno stile secco e crudo, a tratti notarile (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale, per nulla ideologico (anche in questo sta la sua grandezza) e tra i più crudeli e profetici del Novecento nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per la sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin).

La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte.

Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Difficile condividere il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico.

 

L’intellettuale dissidente

 

Ernst von Salomon l’aristocratico membro dei Corpi Franchi: l’esiliato, il proscritto distruttore di tutto, nemico della civiltà moderna

Ernst von Salomon è stato il proscritto, questo esiliato, distruttore di tutto, votato all’emarginazione, camminava sulle macerie di battaglia in battaglia, disposto a distruggere anche sé stesso pur di lapidare la civiltà moderna. Sospeso nel grembo di una Kultur irrazionale, distruttrice, virile, estetizzante, eroica, von Salomon doveva confrontarsi con la Zivilisation, con la decadenza dell’ordine borghese securitario, razionale, egoista, incentrato sull’interesse del singolo declinato come società di diritto e di felicità individuale.

Ernst von Salomon nacque a Kiel in Germania, nel 1902, da una famiglia di lontane origini aristocratiche franco-tedesche. Dopo diversi insuccessi scolastici, il padre lo introdusse alla carriera militare. Il giovane von Salomon guardò alla prima guerra mondiale con stupore, per entrare nel 1919 a far parte dei Freikorps. Come Junger, anch’egli interpretò la figura dall’”atteggiamento inflessibile” del miles novecentesco. Contro la repubblica affaristica di Weimar, i patti di Versailles e i valori della Gestalt borghese (securitarsimo, controllo sociale, spirito mercantile, opportunismo) la vita di von Salomon è tutta improntata ad una concezione gerarchico-militare, sempre politicizzata, tesa allo scontro, al conflitto contro l’hostis schmittiano, colui che nega l’identità dell’altro. Nei Corpi Franchi von Salomon subì il fascino della violenza, intesa come pulsione erotica ed estetizzante, e in queste milizie paramilitari e irregolari cercava il suo riscatto, la rivalsa dello spirito tedesco contro la repubblica “traditrice”. Nel 1922 fu condannato a 5 anni di carcere per l’omicidio dell’allora Ministro degli Esteri Walter Rathenau, ma scontò solo pochi mesi della pena. L’esperienza dei corpi franchi venne narrata nei Proscritti, epopea storica ed esistenziale dei “soldati di ventura” che prestarono la loro ferocia alla guerra civile che segnò l’origine della Repubblica di Weimar, protagonisti prima della crudele repressione in cui furono assassinati Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, infine della lunga vicenda terroristica che culmina con l’assassinio del ministro Rathenau. Si tratta di un prezioso documento per comprendere la storia europea che preparò il nazismo e, allo stesso tempo, un romanzo, paurosamente attuale, di quell’estetica della violenza che è alla base di ogni rivoluzione. Dai Proscritti, dunque, emerge, in chiave autobiografica, la visione tremendamente violenta della politica e della guerra. Queste sembrano essere le sole istanze in grado di destituire l’uomo moderno dall’ordine borghese, per metterlo di fronte all’atto estremo, al sacrificio totale di sé, dal quale si evince una gerarchizzazione della società in base ad un criterio aristocratico, superiore rispetto alla ratio economica borghese che ordina la realtà secondo il principio monetario.

Il proscritto disprezza il borghese, la sua piccolezza, le sue meschinità, il valore economico come forza omologante capace di sussumere tutta la realtà nella sua forma. Nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann sono proposte le stesse dinamiche del conflitto cui partecipa il nostro eretico: “profonda cultura contro civilizzazione superficiale; comunità organica contro società meccanicistica; eroi contro mercanti; il sentire contro il sentimentalismo; la virtù contro il calcolo”.

In breve von Salomon comprese che la guerra condotta dai Freikorps (spesso strumentalizzata ai fini repubblicani) e gli scontri tra nazionalisti e comunisti, tra destra e sinistra, si rivelarono funzionali alla cristallizzazione dell’ordine borghese, ora totalizzante, compenetrato nei recessi marginali, inconsci della folla anonima, commerciale. Ugualmente si discostò dall’ascesa di Hitler a cancelliere nel 1933 e del nazionalsocialismo, che il proscritto guardava come emanazione compromissoria dell’ideologia borghese. Von Salomon finì tra le liste dei ribelli che si opponevano al Terzo Reich.

Intanto però la sua l’attenzione si volgeva da tempo al mondo contadino, visto in tutto il suo potenziale anti-liberale, per l’antropologia pre-moderna, pre-capitalistica di cui era portatore. I legami di suolo e di sangue sostituivano i legami commerciali urbani. Il mondo contadino era un contenitore di storie, tradizioni, riti, usi, costumi, e si contrapponeva ontologicamente alla città, investita dai miti del progresso, della tecnica, sede di corruzione.

L’universo rurale era il punto di contatto verso tra le avanguardie nazionaliste e i comunisti, tuttavia, inevitabilmente, ad adulare i sentimenti anti-capitalisti dei contadini, in conflitto con lo Stato borghese e la sua burocraticizzazione, fu più abile lo NSDAP che propose riforme chiare e semplificate. L’anarchismo del movimento contadino (Landvolkbewegung) strutturatosi tra il 1928 e il 1933, dacché sembrava essere la sua forza fu effettivamente la causa dell’adesione di molti al nazionalsocialismo. Von Salomon, dopo essersi schierato a fianco del movimento, lo guardò compromettersi disincantatamente, sostenendo l’incompatibilità tra le aspirazioni rivoluzionarie e l’essenza contadina.

Rientrato a Berlino von Salomon fu arrestato per le sue attività sovversive nelle campagne tedesche, e cominciò ad interessarsi alle tesi nazionalbolsceviche. Una volta scarcerato si ritagliò uno spazio indipendente durante tutto il tempo del Nazismo, dedicandosi alle lettere e al cinema: scrisse saggi, romanzi e sceneggiature. Perenne oppositore e perenne sconfitto, cresciuto nella carriera militare poi finito a scrivere sceneggiature di film anti-militaristi, sostenitore di Hilter quando questi era uno sconosciuto e poi anti-nazista una volta che il Furher arrivò al potere, riuscì a proteggere la moglie ebrea durante tutto il Terzo Reich e poi fu arrestato e maltratto dalle truppe americane nel 1945, von Salomon chiuse così un’intervista lasciata poco prima di morire, nel 1972: “Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca terribilmente folle e appassionante, ma non chiedetemi di vedere la vita per altra cosa di quello che è realmente: una farsa”.

 

L’intellettuale dissidente

Ettore Cozzani, quando letteratura, editoria ed eroismo si incontrano

Ettore Cozzani, scrittore, saggista ed editore italiano, riuscì a coniugare arte e letteratura, poesia ed eroismo, rifacendosi agli ideali risorgimentali e alla triade dei grandi poeti italiani Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Ettore Cozzani nacque a La Spezia il 3 gennaio 1884. Il giovane ligure intraprese i suoi studi universitari a Pisa, dove ebbe la fortuna di avere tra i suoi insegnanti Giovanni Pascoli. L’incontro con il Poeta del fanciullino ebbe un ruolo decisivo nella sua formazione; egli lo descrisse come “il più caro” dei Maestri, la cui vita era “tutta e solo lavoro per conquistarsi il silenzio e la libertà della solitudine”. Cozzani si ritenne per tutta la vita un discepolo del romagnolo e dedicò alla sua figura una delle sue più impegnative opere letterarie, uno studio in cinque volumi pubblicato tra il 1937 e il 1955. Nell’introduzione al primo volume egli scriverà:

“I giovani devono avere accanto questo maestro di modernità e di audacia creativa, di onestà spirituale, di energia, di entusiasmo, di maschia fede in sé stessi e nella loro razza”.

La raccolta di Odi e Inni (1906) sarà l’opera pascoliana più amata dal Nostro, quella in cui “le aquilari strofe interpretano il palpito terribile del cuore stesso d’Italia”. Formatosi dunque agli ideali della triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, Ettore Cozzani fece parte della generazione colta che entrò nella maturità nei primi anni del Novecento; fu la sua una nuova leva che si definì e stabilì le proprie coordinate culturali, ideali, politiche ed esistenziali misurandosi con l’Italia giolittiana, adottata a paradigma negativo, nemico da combattere, simbolo riassuntivo di tutti i mali, lontani e recenti, che affliggevano il nostro Paese. Fenomeno composito, di non univoca genesi e di non univoca direzione, l’antigiolittismo prima ancora che un programma politico fu uno stato d’animo che si esprimeva appropriandosi di un complesso di valori, vissuti in funzione antagonistica agli orientamenti e agli indirizzi della classe dirigente.

Questo stato d’animo era carico di aspettazione, di inquietudini ed angosce: prima di ogni altra l’insoddisfazione per il presente e l’ansia di rigenerazione. Ma molte cose esso portava con sé, al pari di un pesante fardello: dal senso di mortificazione per il tedio di vivere un tempo privo di ideali dominato dai mediocri, per passare alla celebrazione del ritorno e del culto degli Eroi, alla deprecazione per le tristi condizioni delle masse popolari costrette all’emigrazione in terra straniera, all’esaltazione dei sistemi sociali forti e coesi, alla richiesta e all’offerta di una più alta moralità civica e patriottica. Quella generazione infine si determinò all’invocazione della guerra, quale presupposto e rivelazione della finalmente realizzata congiunzione di masse e nazione. Da quell’evento sarebbe nata la Nuova Italia che già era nel grembo dell’antigiolittismo stesso, nutrito da suggestioni, motivi, convinzioni, emozioni che riuscivano ad influenzare lo spirito pubblico.

Gioacchino Volpe, uno dei maestri di Cozzani all’Università di Pisa, che parteggiava apertamente per gli antigiolittiani, ha così dipinto la situazione di quegli anni:

“L’Italia di allora si divideva fra giolittiani, che erano i più, e antigiolittiani che erano i meno ma costituiti da una specie di aristocrazia intellettuale anelante a più alta moralità pubblica, a più fecondi contrasti, a più energici atteggiamenti di politica estera, rispondenti alle cresciute energie e possibilità della nazione”.

Ettore Cozzani diede un preciso ed importante contributo alla causa dell’antigiolittismo. Egli rammentò in “Alcuni dei miei ricordi” (1978, opera postuma) che tutta la sua vicenda, sin dalla formazione giovanile, si era svolta sotto il segno dell’Italianismo, che dell’antigiolittismo era a suo avviso la conseguenza necessaria e la soluzione programmatica. “Far grande l’Italia: obbligare il mondo a riconoscerci uguali se non superiori ai popoli più ardimentosi e proprio per questo grandi”: erano queste le sue aspirazioni in quel tempo nonché in seguito. Per Cozzani, nella sua giovinezza, questi sogni di grandezza nazionale andarono di pari passo con la scoperta dell’anarchia:

“D’improvviso mi si rivelava una spaventosa ingiustizia da cui nasceva identicamente in tutto il mondo la fame, la miseria, l’ignoranza, e di cui ognuno si rendeva responsabile se non cercava di contribuire alla liberazione della parte sacrificale dell’umanità. La mia innocenza, la purezza dei miei ideali, la sete di giustizia, il bisogno di dedizione e persino l’ansia di sacrificio che avevano alimentato il mio misticismo di fanciullo, divamparono in me in infinite fiamme, illuminando l’abisso verso cui mi sentivo trascinato: mi straziavano, ma, al tempo stesso, mi davano un senso quasi di esaltazione”.

La Spezia all’inizio del Ventesimo Secolo era una delle basi più attive del movimento anarchico in Italia. La sua caratteristica di “città nuova”, cresciuta in fretta, con una folta massa di lavoratori concentrata nei cantieri e all’Arsenale, la predisponeva ad un’aspra conflittualità sociale che spingeva alla radicalizzazione le formazioni operaie. Assieme ai repubblicani, gli anarchici vi avevano un forte seguito, grazie soprattutto all’opera di Pasquale Binazzi (1873-1944), uno dei più intelligenti e più equilibrati esponenti del movimento. Binazzi fu lo stimato direttore del settimanale spezzino “Il Libertario” (1903-1922), che Cozzani rievocò così:

“Dal giornale vaporava, come fosse un respiro, una specie di fervido calore che mi trovava preparato a raccoglierlo per quel mio bisogno, ancora indistinto ma già prepotente, di sentirmi io, con la mia interpretazione delle cose, con le mie idee, i miei sogni, le mie iniziative, i miei atti”.

De “Il Libertario” Cozzani divenne presto uno dei collaboratori più impegnati e i suoi articoli vennero firmati con gli pseudonimi di Vito Vita e Marco Stasiota e comparvero sulle colonne del foglio sovversivo dal luglio 1903 al 21 febbraio 1907, data del suo ultimo articolo su quella testata; il suo congedo dal giornale fu una commemorazione della figura di Giosuè Carducci, scomparso il 16 febbraio: “Invero egli non è morto, poiché la sua è un’ascensione ai più alti cieli che splendono sull’umanità intera, poiché noi tutti, cresciuti al fuoco del suo gran cuore, lo sentiamo oggi più che mai presente, oggi più che mai fuso in noi stessi con tutta la sua potenza di agitatore e di propulsore”.

Cozzani conseguì la laurea in Lettere proprio nel 1907; l’anarchia non fu dunque una passeggera esaltazione adolescenziale, bensì per lo spezzino fu un’esperienza che appartenne già alla maturità. Su “Il Libertario”, permeato dagli umori antigiolittiani più forti e netti, non solo si celebrava come abbiamo visto Carducci “rivoluzionario, agitatore e propulsore”, ma si proponeva la poesia “La Nave” di Gabriele D’Annunzio come la più affascinante e convincente rappresentazione delle finalità perseguite dall’anarchia. Era lo stesso direttore Pasquale Binazzi a scrivere nel settembre 1904:

“Il poeta parla ad una nave immensa e forte, sventolante ai liberi venti dell’oceano le bandiere di tutte le glorie umane, che potrà simboleggiare per noi la rivoluzione; e la persuade a superare tutti gli ostacoli (le sirti) del viaggio, per giungere alla terra (l’Atlantide) che noi tutti sogniamo. Il sogno apparve così puro e distinto alla mente del poeta, che egli lo espresse con una semplicità di parole primitive. Quando il pensatore pensa così e il poeta così canta, il sogno non può tardare molto a convertirsi in realtà”.

A scanso di equivoci, preciseremo che qui si parla della poesia “La Nave”, presente nella raccolta Odi Navali (1893), e non dell’omonima e pur splendida tragedia dannunziana del 1908. Ma quel foglio si spinse molto più in là e arrivò a negare una delle verità di fede del movimento libertario indicando nella guerra “la via più breve” per giungere alla rivoluzione. “La via più breve” era proprio il titolo di un articolo apparso su “Il Libertario” del 25 agosto 1904 e redatto da Federico Uccelli, un giovane della stessa età di Cozzani, che si esprimeva in questi termini:

“E io sono quindi per la guerra: e noi dobbiamo esser per la guerra. Colla panacea delle riforme e dell’evoluzione non ridurremo mai la nostra gioventù a prepararsi per la vigilia delle armi. Ci vuole l’eccitamento che le sferzi le reni, poiché la fame non è bastata; o meglio l’odore della polvere che la tolga dal letargo e la faccia assai, assai starnutire tutta quell’infreddatura presa a godere bagasce nelle notti rabbiose. E l’odore della polvere i giovani italiani cominciano a sentirlo. Non cerchiamo che si disperda: ventiliamolo invece se è possibile sotto le narici che lo devono aspirare. Il popolo d’Italia ha necessità di rinnovarsi e non può farlo cantarellando l’inno dei lavoratori”.

Era questo il fervente clima nel quale si fece le ossa Ettore Cozzani. Non ci dobbiamo sorprendere di trovarlo quindi nell’aprile 1907 tra i curatori del numero unico pubblicato in occasione del varo della corazzata “Roma”, febbricitante di gioia impaziente nell’auspicare la grandezza nazionale e il risveglio militare dell’Italia. Per Pasquale Binazzi ciò equivalse ad un tradimento dell’anarchismo, per Cozzani invece si trattò di un riposizionamento all’interno della galassia antigiolittiana da mettere in stretta dipendenza con la ripresa di attrazione dell’Italianismo. Cozzani dell’Italianismo fece il suo programma d’azione, il metro del suo giudizio, il suo connotato identitario, infine una professione di fede religiosa che richiamava vagamente a Giuseppe Mazzini. A partire da quel momento Ettore Cozzani profuse tutto il suo impegno nelle attività di scrittore, di editore e di saggista animato dalla finalità di “risollevare la decadutissima arte del libro e difendere ed esaltare le forze della Poesia”.

Attraverso lo studio della letteratura si ripromise di diffondere un messaggio etico ed estetico che trasmettesse la coscienza del valore della tradizione ed educasse alla passione patriottica. E dell’amor patrio il concetto dell’Eroismo, centrale nel pensiero cozzaniano, è di certo l’espressione più alta, celebrata dalle arti di ogni tempo.
Il riconoscimento del valore e l’affermazione della giustizia furono i temi forti della poetica di Cozzani; il desiderio di giustizia era per lo spezzino la connotazione fondamentale dell’eroismo. E proprio da queste concezioni appena abbozzate germinò il nome che il ligure attribuì alla propria rivista di arte e letteratura; essa si appellò “L’Eroica”. Il suo fondatore la eternò con queste parole:

“S’era nel 1911 e alla Spezia, sul Golfo dei Poeti, nasceva, come Venere dalle schiume del mare, l’Eroica; nuda, vergine, ardente: chiamava con una sua voce di onde tra scogli i giovani poeti. Non se ne vedevano; eppure dovevano ben essercene per le terre d’Italia: essa li cercava affannata d’amore”.

“L’Eroica” poté vantare due serie: dal 1911 al 1917 e successivamente, con il trasferimento della sede della rivista a Milano, dal 1919 al 1943. La rassegna mensile contò complessivamente 310 numeri e fu senza dubbio una delle riviste artistico-letterarie più innovative della prima metà del Novecento, molto nota per l’utilizzo della tecnica xilografica che rendeva ogni numero un prezioso reperto d’arte dal pregio e dalla ricercatezza formidabile. Oggi la rivista è quasi introvabile e sono pochissime le biblioteche italiane che conservano l’intera collezione. Essa ebbe tra i suoi collaboratori Adolfo De Carolis e Franco Oliva, Eugenio Baroni e Adolf Wildt, Emilio Mantelli e Giovanni Governato, Primo Conti e Francesco Gamba insieme a molti altri. Parallelamente alla rivista, Cozzani diede vita ad una casa editrice omonima ispirata ai suoi principi etico-politici ed artistici che pubblicò molti volumi.

In una calda domenica estiva, il 30 luglio 1911, il primo numero venne distribuito in edicola; alcuni giorni prima Ettore Cozzani e Franco Oliva ne preannunciarono l’uscita con una lettera alla stampa:

“Si afferma da ogni parte che l’Italia non ha più poesia, che povera di poesia è la vita, poverissima l’arte: l’età nostra è della critica. I nostri artisti maggiori sono sfibrati; non appaiono ancora i nuovi o già traviano per imitazioni, flaccidezze, falsità: non ci resta che chiedere consolazione alla filosofia. Noi crediamo invece che la poesia viva in Italia la sua vita perenne: gli artisti maggiori non sono decaduti nella nostra venerazione, i nuovi preparano e lavorano. E’ bene cercare con un’ardente aspettativa, che sia amore per gli artisti esemplari, simpatia per le aspirazioni dei giovani: e frattanto operare noi stessi. Se la critica pur avesse sincera coscienza d’un temporaneo decadimento della poesia nella nostra vita e nella nostra arte, dovrebbe provocare la rinascita con il rispetto per chi fa e non con l’astio, con la fiducia verso chi tenta e non con il dileggio. La nostra rivista si occuperà quindi con uguale ardore di letteratura, pittura, scultura, architettura, musica: ma soltanto in quanto siano espressioni dell’unica poesia. Avrà una parte creativa e una parte critica: nella critica si studierà di costruire piuttosto che di distruggere, di comprendere piuttosto che di limitare; nella creativa, pur non costringendosi nell’ambito di speciali scuole, tendenze, tecniche, seguirà tutti i più arditi e seri movimenti moderni. Il titolo sarà L’Eroica. Eroica è invero la Poesia: unica espressione del divino nella vita umana”.

Il 27 giugno 1911 Ettore Cozzani si era premurato di scrivere a Gabriele D’Annunzio comunicandogli la novità:

“Maestro! Contro l’indegna baraonda di critici che hanno invasi i predii della poesia, spargendo per ogni dove la loro sozzura, si leva una rivista, L’Eroica, che si propone di annunciare, divulgare, esaltare la Poesia, comunque e dovunque essa nobilmente si manifesti, nelle cinque belle arti cioè, e nella vita. L’edizione sarà magnifica: ogni scritto ed ogni riproduzione o gruppo di riproduzioni avrà il suo frontespizio decorato di xilografie originali; il formato sarà molto grande, le tavole fuori testo d’una delicatezza unica: ovunque il respiro e il sospiro della Poesia. Vuole esser con noi, Ella che sa bene apprezzare il valor dell’entusiasmo e della fede nella gioventù nuova, che non è tutta inaridita e inebetita, e spersa per gli sterpeti della critica? Noi lo speriamo”.

E il venerato pontefice dei culti dell’Eroico Inimitabile dal volontario esilio di Francia rispose a Ettore Cozzani, inviando un messaggio di consentimento e di simpatia ai giovani “compagni di volontà e di speranza”. Nel suo libro Come giungemmo alla Sagra dei Mille, pubblicato soltanto nel 1963, l’intellettuale spezzino descrisse gli avvenimenti che portarono all’erezione del celebre monumento in bronzo sullo scoglio di Quarto, opera dello scultore Eugenio Baroni (1888-1935) e voluto dal Comune di Genova per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Il contributo di Ettore Cozzani per rinverdire l’Epopea dei Mille fu notevole: egli si occupò in prima persona della cerimonia di inaugurazione del monumento e riuscì a convincere D’Annunzio a lasciare il suo esilio francese per pronunciare il 5 maggio 1915 uno dei suoi più memorabili discorsi, l’Orazione per la Sagra dei Mille, connotata da un tenacissimo ed incalzante richiamo rituale-ben note sono le vibranti e blasfeme beatitudini dannunziane ivi presenti di evangelica memoria, rovesciate in chiave interventistica-e da una commossa tensione patetica, che spingeranno lo scrittore francese Romain Rolland (1866-1944) a definire D’Annunzio dopo quella giornata, con l’intento di insolentirlo ma porgendogli invece un grande encomio, “un incrocio tra Robespierre e Tallien”.

Pochi giorni dopo, il 24 maggio, la nostra Nazione entrò in guerra e Cozzani scelse evidentemente di schierarsi dalla parte della barricata occupata dagli interventisti, “per la più Grande Italia”. Egli tenne discorsi e conferenze a sostegno della guerra molto efficaci e penetranti, caratterizzati da una oratoria travolgente e trascinante, talora indulgente ad una ingenua retorica, ma sempre sincera, pura ed appassionata, come ebbe a riconoscere Giuseppe Prezzolini. Nel 1916 Cozzani fondò “La Giovane Italia”, associazione nazionale di temperamento mazziniano con fini puramente patriottici, avulsa da qualsiasi legame con i partiti; il 10 giugno 1917 uscì un numero unico di saggio dallo stesso titolo, dedicato alla propaganda degli scopi dell’associazione, in un periodo molto difficile, mentre gli attacchi delle truppe italiane agli ordini di Luigi Cadorna sull’Isonzo provocavano gravi perdite umane e preludevano alla futura disfatta di Caporetto (ottobre-novembre 1917).
“La Giovane Italia”, ricordava Cozzani, “era sorta per rafforzare nell’animo del popolo la virtù della resistenza, poiché è nella resistenza l’anima della Vittoria”. Sempre del 1917 è l’orazione più famosa declamata dal ligure, che venne anche pubblicata dall’Editrice “L’Eroica”: il volumetto Orazione ai giovani sul Golfo dei Poeti riprendeva per l’appunto il testo di un discorso letto agli studenti delle scuole medie di La Spezia per la commemorazione del martirio di Guglielmo Oberdan. L’invocazione intensa ed accalorata alle giovani generazioni nella quale l’oratore sottolineava l’importanza del fronte interno così principiava:

“Io non vi dico parole sonanti per amor d’un bello stile. Io vi rammento un preciso dovere. Di quanti restano in patria, in quest’ora tragica che le sorti delle nazioni liberatrici pendono in bilico sulle bilance del destino con le forze del nemico usurpatore, e che sebbene il sacrifizio fosse voluto, sebbene l’ardore sia intenso, sebbene la fede rimanga intatta, non si può resistere a un brivido che di quando in quando ci coglie, voi siete della vita civica la parte più fresca, più sana, più ardita. Tocca a voi formare la colonna vertebrale della resistenza interna: voi siete i giovani sottotenenti di questa milizia che combatte sulla fronte meno curata, meno studiata e pur come l’altra lassù pericolosa ed importante. I guerrieri adolescenti, gli imberbi dalla voce non ancora virile, comandano lassù l’attacco alle schiere dei veterani e le portano alla vittoria; voi imponete qui la chiara vostra volontà e la vostra conscia certezza a queste altre schiere domestiche, che guai a noi tutti se titubassero, se si sbandassero, se si accasciassero un’ora sola!”

Dopo la Vittoria, nel primo dopoguerra Ettore Cozzani ritornò alla propria attività intellettuale ed editoriale; relativamente alla sua produzione, lo spezzino non verrà mai meno al filo rosso dell’adesione agli ideali eroici, che lo accompagneranno per tutta la vita, a partire dai suoi primi brevi scritti, come “Per un Eroe. A Giacomo Bove” (1909), nel quale egli, ispirato da un monumento realizzato ad Asti l’anno precedente dallo scultore Eugenio Baroni, rievoca la figura dell’esploratore che tentò la ricerca del mitico passaggio a Nord-Est tra i ghiacci dell’Artico, a bordo della nave Vega, nel 1878, nonché più tardi indomito perlustratore delle foreste del Congo, morto suicida nel 1884. All’epoca furono da molti ritenuti notevoli i suoi versi, improntati ad una velata vena di malinconia secondo stilemi tardo-romantici e decadentistici, come “I Poemetti Notturni” (1920), dedicati alla sacra e venerata memoria dei genitori, Valdemira Ricco e Leonardo Cozzani, e il più noto suo lavoro, “Il Poema del mare” (1928).

Cozzani non disdegnerà i tentativi nel campo della novellistica, con “I racconti delle Cinque Terre” e “Le strade nascoste”, entrambi del 1921, e del romanzo, con “Un uomo” (1934), “Ceriù” (1938) e “Destini” (1944).
Nel 1930 lo scrittore ottenne la cattedra di italiano e italianità al Politecnico di Milano e nel 1933 la stessa cattedra presso l’Università per stranieri di Perugia. Per i tipi de L’Eroica, frattanto, venne lanciata la collana “Vite di Artisti, di Pionieri e di Eroi”. Nel corso della sua vita, oltre alla capitale opera su Pascoli, la cuspide della sua complessa attività, egli pubblicò importanti saggi critici su Dante e Beatrice, Michelangelo Buonarroti, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Nazario Sauro. Venne la tempesta della Seconda Guerra Mondiale e il poeta spezzino, ispirato dai propri ideali eroico-nazionali, sostenne la Patria nello sforzo bellico. Alcuni numeri monografici della sua rivista furono dedicati alla giustificazione morale e politica dell’intervento italiano. Nel numero de L’Eroica del novembre-dicembre 1941, facendo il bilancio del trentennale della sua rivista, Ettore Cozzani poté a buon diritto rivendicare di aver contribuito alla “ascesa civile, sociale e politica dell’Italia” e rimarcò la propria immutata fedeltà alla “Grande Causa Italianista”, a cui aveva dedicato l’intera sua esistenza. Dopo il 1945, egli, in un clima ormai mutato, continuò nella sua attività di conferenziere e in virtù delle sue doti di oratore da tutti riconosciute proseguì fino all’ultimo in questo suo impegno, affrontando i temi, gli interessi, le passioni di tutta la sua vita animato dal nobile e romantico culto degli Eroi, sulla scia di Richard Wagner e di Thomas Carlyle, che caratterizzò il suo stile fin dalla sua ormai lontana militanza anarchica.

Egli morì a Milano il 22 giugno 1971, in casa di amici. L’amore per la Patria non lo abbandonerà mai, ma la Patria Ingrata si dimenticò di lui molto presto. I tempi ormai erano veramente cambiati: la prosa aveva preso il posto della poesia, il profitto aveva sostituito l’eroismo nei sogni di grandezza delle nuove generazioni, la civiltà materialista aveva spodestato l’amore della gloria cantato da Giacomo Leopardi ed Ettore Cozzani e i valori spirituali vennero messi in ombra dai disvalori liberal-capitalistici del denaro, del successo ad ogni costo e dell’arrivismo.

Fonti:

Gioacchino Volpe, Italia Moderna, Volume III, 1910-1914, Sansoni Editore, Firenze 1973, pagina 275.
Ettore Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, Giardini Editori, Pisa 1978, pagina 24.
Ettore Cozzani, opera citata, pagina 25.

Stefan Zweig, raffinato scrittore appartenente all’età d’oro della ragione, in cui è la psicoanalisi il motore delle sue opere

Scrittore, poeta, giornalista, biografo, drammaturgo e traduttore; Stefan Zweig, appartenente ad un’agiata famiglia ebrea, nacque a Vienna nel 1881 e morì suicida a Petrópolis, in Brasile, nel 1942. Famoso soprattutto per le sue novelle e le innovative biografie, Zweig è stato il primo scrittore ad inserire la psicanalisi nella narrativa. Negli anni Venti e Trenta fu uno dei massimi successi letterari, tra gli scrittori più letti e tradotti al mondo. Giorgio Kurschinski ci rivela che in Francia è oggi “uno dei due o tre scrittori di lingua tedesca mai dimenticati”, tanto da aver meritato nel 2003 un busto commissionato dalla presidenza del senato, collocato accanto a quelli di Verlaine e Stendhal nei giardini del Luxembourg. Dalle sue opere sono stati recentemente tratti i film Una promessa (2014), Grand Budapest Hotel (nomiantion agli Oscar 2015) e Stefan Zweig: Farrel to Europe, in corsa per gli Awards del 2016.

Zweig è considerato un epigono della Jungwien ed è noto soprattutto per l’opera autobiografica Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, libro apprezzato in Italia da scrittori e giornalisti come Piero Buscaroli, Giano Accame e Massimo Fini. Quest’opera sterminata – almeno per i contenuti – è, allo stesso tempo un romanzo storico, una biografia, una raccolta di ritratti, un romanzo generazionale, un libro sulla giovinezza, il racconto di un ebreo errante, la testimonianza dell’uomo di fronte alla Tecnica e alla modernità. Perché Zweig è come Jünger: scrive romanzi come fossero saggi e saggi come fossero romanzi. Ma Il mondo di ieri segna soprattutto il passaggio dalla pacifica Belle Époque al trauma della Grande guerra, che porterà alla nascita dei totalitarismi.

La sua infanzia fu agiata, cosa che gli permise di respirare appieno il clima artistico e letterario che si viveva allora nella capitale austriaca. Ma nonostante il dilagare della cultura nella città, la scuola fu da lui percepita come “una fredda macchina per apprendere, non regolata mai sull’individuo […] il carcere della nostra gioventù”. Costretto ogni giorno a varcare “l’odiata soglia”, il giovane Stefan trascorreva le ore di lezione leggendo poesie di Rilke o versi di Nietzsche (allora avanguardie culturali) di nascosto sotto il banco, mentre il professore recitava poesie arcinote. Tra la sua generazione e quella dei padri vi era un abisso. Tutto ciò che era nuovo era visto con estrema diffidenza. E il “largo ai giovani!” era ancora di là da venire.

“Accadde così quel che oggi sembra quasi inconcepibile, che la gioventù era ostacolo di ogni cammino, la vecchiezza un vantaggio”.

Quella appena descritta è invece, almeno per i giovani italiani, una condizione oggi assai nota. Per questo i classici non tramontano mai e vanno sempre riletti. Il mondo dei padri era lontano anni luce dal mondo nuovo in cui i figli si trovarono scaraventati come palle di cannone dalla Storia:

”Come erano lillipuziane le nostre preoccupazioni, che bonaccia regnava in quel tempo! Ha avuto fortuna la generazione dei miei genitori […] Essi infatti hanno vissuto al di là di ogni vera amarezza, delle perfidie e delle forze del destino, sono passati quasi dormendo accanto a quelle crisi e a quei problemi che torturano, ma insieme grandiosamente allargano il cuore. Hanno ignorato, adagiati nella sicurezza, nell’agiatezza […] che ogni giorno che albeggia alla finestra può sconvolgere la nostra vita”.

Cosa poteva saperne una generazione vissuta all’ombra della vita, sorda alle profezie di Zarathustra, delle scintille con cui la nuova epoca illuminava il mondo davanti ai loro occhi stanchi? Mentre per Zweig e i suoi compagni “ogni ora […] fu legata alla sorte del mondo”. Ogni novità nel campo delle arti, della letteratura e della musica passava tra le loro mani, che nulla si lasciavano sfuggire:

“D’un tratto l’antico ordine fu turbato [..] Noi giovani ci gettavamo con entusiasmo nelle onde, là dove si infrangevano più impetuose”.

Nuovi nomi e nuove idee si affacciano sul mondo: filosofi, politici e poeti si esprimono urlando. “Il nuovo secolo voleva un nuovo ordine, un clima nuovo”. È il tumulto dell’epoca: il Novecento ha avuto inizio.

A soli diciannove anni Zweig comincia a scrivere per il “Feuilleton” della Neue Free Presse diretta da Theodor Herzl, il grande teorico sionista autore de Lo stato ebraico, teoria che lo scrittore, da ebreo laico, considerava errata. Traduce in tedesco romanzi e poesie straniere, si iscrive a filosofia all’Università di Vienna, poi viaggia a Berlino dove continua i suoi studi, venendo a contatto con “il servilismo volontario della Germania” che prenderà forma vent’anni più tardi. Viaggia ancora per “far scorta di impressioni e di esperienze, quante ne poteva accogliere il cuore”. A Parigi fa conoscenza con Paul Valéry, suo “venerato amico”, mentre a Londra conosce W.B. Yeates e Arthur Symons. Scrive opere teatrali di immediato successo, soprattutto in Germania, ma è noto anche a sud delle Alpi. In Italia, Benito Mussolini è uno dei suoi primi e attenti lettori. E fu forse per questo che appoggiò la richiesta di Zweig quando questi – mosso dal dolore della moglie del condannato – inviò una lettera al “Duce” affinché all’uomo che portò in spalla la bara di Matteotti fosse alleviata la pena, tramutatasi poi in grazia.

Luigi Pirandello, ammaliato dalla prosa di Zweig, chiederà proprio a lui di tradurre in tedesco la sua nuova opera teatrale “Non si sa come”, prima ancora che esca in patria. Poi, in seguito alla morte di tre grandi attori (Matkowsky, Kainz e Moissi) che vollero via via portare in scena le sue opere, convinto che una sorta di maledizione o scarogna penda su di lui, rinuncia per anni a scrivere altri testi per il teatro. Ma i suoi romanzi hanno successo pressoché immediato e vendono milioni di copie. Conosce intellettuali e scrittori come Sigmund Freud, Arthur von Hofmansthal, Romain Rolland, Rainer Maria Rilke, Émile Verahaeven, Herman Hesse, James Joyce, Thomas Mann, Richard Strauss e Benedetto Croce. Colleziona autografi e manoscritti originali di opere in prosa e in musica: Mozart, Bach, Beethoven, Goethe, Balzac…Poi, arrivato in America, contempla New York ammirando “il fantastico firmamento della città, che la notte sfida con miliardi di stelle artificiali gli autentici astri del cielo”. È l’uomo nuovo che sfida la natura: l’era della Tecnica è cominciata. Poi il tumulto:

”Ed ecco che il 28 giugno 1914 echeggiò la rivoltella di Sarajevo, la quale in un attimo solo mandò in frantumi, quasi fosse un vaso di coccio, il mondo della sicurezza e della ragione creatrice, in cui noi avevamo avuto educazione e dimora”.

L’attentato di Sarajevo lascia il mondo intero col fiato sospeso… E così dal “mondo di ieri” si passa al mondo senza sonno (titolo di una sua raccolta di racconti): “Più breve ora è il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni”. Così recita l’introduzione al racconto che dà il titolo all’opera. La Prima guerra mondiale fu una ferita troppo profonda affinché si potesse rimarginare. Seppure non vi abbia preso parte, per Zweig pare essere una vera e propria ossessione: ve ne è traccia in diverse opere. È il sottofondo tragico del breve e significativo racconto Mendel dei libri, o del romanzo amoroso L’impazienza del cuore, la cui vera protagonista n realtà è la compassione e la sua retorica, oltre che ai già citati Il mondo di ieri e Il mondo senza sonno. Mentre è la Seconda guerra mondiale il vero trauma che muove le fila della Novella degli scacchi, metafora della barbarie nazista. Maestro del genere biografico, i suoi ritratti non si contano: Balzac, Dickens, Hölderlin, Dostoevskij, Tolstoj, Nietzsche, Fouché, Montaigne, Maria Stuarda, Magellano, Maria Antonietta… tutte opere di successo stampate ancora oggi. E per un uomo che mise nero su bianco le fissazioni, le passioni, le paure e i traumi che hanno segnato la propria vita, non stupisce certo saperlo amico personale di Freud, a cui un giorno presentò Salvador Dalì. E la psicanalisi è infatti il tema portante di molte altre opere narrative. È il caso di Sovvertimento dei sensi, di Bruciante segreto, storia della crescita di Edgar e del suo amore viscerale per la madre, di Amok, o del racconto intitolato, non a caso, Paura. E, in maniera minore, tracce degli studi freudiani si trovano in Ventiquattr’ore nella vita di una donna o in Tramonto di un cuore. Da non dimenticare sono invece le “quattordici miniature storiche” contenute in Momenti fatali, opera in cui l’autore ritrae alcuni dei momenti più cruciali per la storia del mondo, dall’antichità alla trattato di Versailles.

Zweig, il cui stile elegante, denso e coinvolgente lo ha reso un autore raffinato e a tratti solenne ma mai pesante e non per pochi eletti,  è stato sì un giovane uomo pieno di vitalità e inquietudine, (tanto che molto spesso nei suoi libri luce e baratro coincidono), ma il militarismo non gli appartiene: aborrisce tutto ciò che è dogmatico e politico, tutto ciò che divide gl’uomini. Egli fu un cosmopolita, un pacifista che considerò “un anacronismo delittuoso essere addestrato nel ventesimo secolo all’uso di armi omicide”. L’unica sua guerra fu quella “contro il tradimento della ragione”. La Prima guerra mondiale pose fine alla primato dell’Europa sul mondo. Ma a essa seguirono nuovi tumulti: Lenin in Russia, Mussolini in Italia, Hitler in Germania. È il mondo dei totalitarismi.

Con Hitler al potere, l’autore ebreo così tanto letto in Germania, vide bruciare i suoi libri e il popolo ridere davanti alla locandina dell’omonimo film tratto dal suo racconto Bruciante segreto. I nazisti, da sempre privi di umorismo, ritennero la cosa un atto di lesa maestà nei confronti del Führer. Vietarono il film, sequestrando locandine e bobine. Poi, nel ’36, i suoi libri “roventi” furono vietati in Germania. Ma il nazismo arriverà anche in Austria, deturpando per sempre il volto di Vienna, mettendo fine a quella “supernazionalità spirituale” che tanto aveva caratterizzato la capitale europea: “In nessun altro posto del mondo era più facile essere un europeo”, ricorda Zweig. Davanti alla barbarie nazista e alla seconda grande guerra dovette fuggire nuovamente, dire addio alla sua casa, alla sua patria, ai suoi amici. Poi, smarrito il passaporto, divenne apolide. E fu straniero ovunque.

“Come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono volta a volta trovato là dove le scosse erano più violente. Esse per tre volte hanno distrutto la mia casa e trasformato la mia esistenza, staccandomi da ogni passato e scagliandomi con la loro drammatica veemenza nel vuoto, in quel ‘dove andrò?’ a me già ben noto. […] Spesso mi accade, se dico distrattamente ‘la mia vita’, e di domandarmi poi: ‘Quale vita?’ […] Poi mi sorprendo a dire: ‘La mia casa’, e non so a quale delle mie case di un tempo alludo […] Oppure dico: ‘Da noi’, e mi accorgo spaventato che non faccio più parte della gente della mia patria”.

Il “mondo di ieri” è l’unico mondo a cui sentì di poter appartenere. Perché era un mondo estinto, tutto ideale: il mondo della Belle Époque in cui Vienna brillava ancora per la sua tolleranza e il suo spirito cosmopolita, che ne fecero per un secolo intero la capitale della cultura europea. Quel mondo ordinato e senza fretta, fu per Zweig “l’età dell’oro della sicurezza…l’età della ragione”. Ma “oggi, dopo che la bufera lo ha frantumato, sappiamo che quel mondo della sicurezza è stato un castello di sogni”. Di fronte al nuovo trauma bellico, “un miracolo” gli parrà ormai vedere “un essere umano capace di bontà”. Troppa differenza tra il mondo di allora e quello in cui era nato. Un trauma troppo grande da sopportare.

Se molti tedeschi, davanti alla capitolazione di Berlino, si uccisero per non saper immaginare di vivere in un mondo senza nazional-socialismo, Zweig scelse il suicidio perché non poteva immaginare di vivere in un mondo senza Europa. È uno di quei suicidi storici, come quello di Drieu La Rochelle o di Yukio Mishima, immolatisi per motivi differenti, ma tutti suicidi letterari. Per Zweig la cultura doveva fungere da ponte tra gli uomini, avrebbe potuto unirli, anziché farli scontrare su un campo di battaglia. Ed egli scelse proprio un’opera letteraria come testamento, come ponte tra la vita terrena e l’aldilà. Il mondo di ieri, uscì infatti nel 1942, anno del suicidio del suo autore. Nella prefazione alla sua grande opera, egli si presenta con una sorta di epitaffio, un addio più che una presentazione:

“Sono nato nel 1881 in un grande e possente impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta è ridotta in cenere, e proprio nel paese dove i miei libri si erano resi amici di milioni di lettori. Io ora non appartengo ad alcun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto, l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Contro lo mia volontà ho dovuto assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità. Mai una generazione – non lo affermo certo con orgoglio bensì con vergogna – ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale”.

Romantico, delicato, col viso rivolto a un passato che non può ripetersi e col cuore pieno di nostalgia, Stefan Zweig trovò rifugio in Brasile: ultima tappa. Stanco di scappare e di essere straniero ovunque, davanti al suicidio d’Europa, decise di porre fine alla sua esistenza tramite un’overdose di Veronal, insieme alla seconda moglie. Il 22 febbraio 1942, giorno precedente il suicidio, scrisse in una lettera ad Alfred Altmann quanto segue:

“Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”.

C’è però chi non crede a questa versione, pensando che si tratti di omicidio. Ma affianco ai corpi sdraiati sul letto si trovò un biglietto:

“Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo”.

L’ultimo saluto di un uomo di ieri. Sdraiato sul letto, insieme alla donna amata, tramonta un cuore d’Europa, avvelenato dalla guerra.

 

 

Gianni Celati, l’outsider della letteratura italiana che è diventato un classico

Nessuno sarà più incredulo di Gianni Celati nell’accogliere il corposo Meridiano che raccoglie la sua narrativa (Celati. Romanzi, cronache e racconti, Mondadori, pagg. 1854). La preziosa collana dà sistematicità a classici anche contemporanei, ma una sistematica di Celati ha l’aria di una fantasticheria editoriale. I curatori non potevano che essere quei due. Marco Belpoliti, critico e studioso di letteratura e da decenni seguace di Celati, gli ha dedicato corsi di laurea, convegni, studi e, nel 2008, un ricco numero della rivista-libro Riga che Belpoliti dirige assieme a Elio Grazioli, per Marcos y Marcos (più un altro numero che ricostruisce le vicende progettuali della rivista Ali Babà, che Celati aveva pensato insieme a Italo Calvino e altri alla fine degli anni 1960).

Per il Meridiano Belpoliti ha scritto un saggio introduttivo di 60 pagine («La letteratura in bilico sull’abisso»), quasi un libro nel libro. Nunzia Palmieri è, come Belpoliti, docente di letteratura all’Università di Bergamo (ha pubblicato per Quodlibet una monografia su città e letteratura dal titolo fortemente celatiano: Visioni in dissolvenza), ha curato alcune opere recenti di Celati e occasionalmente è stata anche in scena con lui, nella parte della moglie dell’attore Vecchiatto. Con la «cronologia» del Meridiano, Palmieri ha scritto la biografia più completa dell’autore; con le «notizie sui testi», ha dipanato la matassa di edizioni, varianti, riscritture che fanno di quasi ogni libro di Celati una nebulosa di scrittura. Anna Stefi ha compilato una bibliografia altrettanto strenua, inseguendo la firma del nomade autore in una jungla di riviste e iniziative editoriali disperse ovunque. Ed ecco qua – pur delineata tanto sommariamente – la sistematica di Celati, con il suo irriducibile paradosso.

Nel Meridiano è definito: «un outsider della letteratura». Celati si è infatti sempre ben tenuto ai margini (o fuori) dell’istituzione di cui i Meridiani sono accurata glorificazione. L’ha anzi assediata con spirito avventuriero, scagliando contro le mura del Canone la sintassi e lo sguardo della follia, della bagarre, del comico da torte in faccia o distillando, più di recente, nuovi contravveleni all’odiato «romanzesco»: la scrittura del silenzio appena increspato, dei paesaggi, del tempo che scorre, della banalità che delude e smorza le nostre aspettative di stati d’eccezione. Nato nel 1937 a Sondrio, edito dal 1971, Celati non è stato solo narratore, traduttore, saggista, ma anche saltimbanco, professore, attore, regista, camminatore, capocomico, editor, poeta, esploratore. I minuziosi apparati ora consentono di seguire meglio le evoluzioni che normalmente vengono semplificate in due periodi, separati da sette anni di silenzio editoriale, dalla fine dei ‘70.

Il primo Celati è quello in continuo dialogo con l’amico Italo Calvino, qui rappresentato dai quattro romanzi pubblicati tutti da Einaudi (Comiche, 1971; Le avventure di Guizzardi, 1973; La banda dei sospiri, 1976; Lunario del paradiso, 1978). Con la parziale eccezione dell’ultimo, sono testi segnati da una concitazione che giunge alla farsa parossistica, dove la scrittura tallona l’oralità (fino all’onomatopea), il corpo e le sue smanie, la mente e i suoi deliri, l’infanzia, la cinetica dell’adolescenza, l’ariostesco furore dell’amore infelice. È il Celati che dichiara a Calvino che a lui interessa solo arrivare alla perversione completa dell’ordine delle cose, la bagarre. Ma non si pensi a una selvaticità incolta, è il contrario: nello stesso periodo Celati ha scritto i saggi delle sue Finzioni occidentali, frutto di letture profonde e tempestive dei massimi filosofi e teorici della letteratura del periodo, e ha tradotto tra gli altri Swift, Balzac, Céline, Twain, Barthes, Carroll, Joyce (contemporaneamente al Meridiano, esce ora da Quodlibet la raccolta di saggi più recenti Studi d’affezione per amici e altri, con saggi sul Novellino, su Ariosto, su Manganelli).

Il secondo Celati è quello che ha sostituito a Calvino, come interlocutore, il fotografo Luigi Ghirri e con lui si è immerso in viaggi, lungo la via Emilia e lungo il corso del Po, da cui le novelle e cronache, pubblicate da Feltrinelli (Narratori delle pianure, 1985; Quattro novelle sulle apparenze, 1987; Verso la foce, 1989; Cinema naturale, 2001, oltre a tre film documentari). Il rapporto con l’oralità si fa meno concitato e più profondo, alla follia si sostituisce la banalità del vivere e passare il tempo, l’energia non si acquieta ma si sposta nei territori ampi dell’osservazione e della registrazione dell’ordinario. È il Celati che fa dire a Belpoliti, nell’informata e rivelatoria introduzione: «Dar vita a un racconto significa per Celati restituire alle parole il loro valore in rapporto all’esperienza, privilegiare le apparenze rispetto alle interpretazioni». Celati è quindi arrivato in Africa (Avventure in Africa, 1998 Fata morgana, 2005; il libro-film Passar la vita a Diol Kadd) per tornare, nell’ultimo scorcio della sua attività, a narrazioni padane (Vite di pascolanti, Nottetempo 2006; Costumi degli italiani I e II, Quodlibet 2008). Nel frattempo ha fatto i conti con i suoi studi di anglistica firmando con Daniele Benati un’importantissima antologia (Storie di solitari americani, Bur 2006) e finalmente pubblicando la sua traduzione, quasi cantata, dell’Ulysses joyciano (Einaudi, 2013).

Il Meridiano registra così, con affetto e ammirazione, come la narrativa di Celati (nonché ogni altra sua forma di espressione) è un epifenomeno, una reazione del corpo, qualcosa che accade come conseguenza di una certa posizione nel mondo (studio, sguardo, movimento, discorso, lettura, ascolto) e a una certa gamma emozionale (amore, furore, memoria, sprezzatura, accudimento, noia, curiosità). Per questo leggendolo non si capisce mai bene da dove venga quella sua inimitabile scrittura, capace com’è di passare da effetti di spontaneità a effetti di costruzione meticolosissima a volte in pochi giri di frase: «Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo» (explicit di Verso la foce).
Grati a lui e ai curatori di tante avventurose esplorazioni di un piano diverso da quello della letteratura ordinaria, ci accorgiamo che questo di Celati – qui il paradosso – è certo un Meridiano, però parallelo: incrocia gli altri, li costeggia, se ne distacca, ci porta altrove.

Le opere di Gianni Celati insomma, soprattutto quelle degli anni ’70 hanno avuto un notevole successo soprattutto grazie al loro essere caratterizzate da un linguaggio sperimentale e trasgressivo, fondato sulla lingua parlata attribuita a personaggi al limite del verosimile. La prosa di Celati, solitamente asciutta e disadorna riproduce con efficacia il contrasto tra vecchio e nuovo, tra mondo contadino e mondo moderno, ma il nuovo assetto non riesce a sostituire del tutto il nuovo. L’impressione che ne deriva, basti far riferimento a Narratori delle pianure è quella di un ambiente povero e degradato privo di equilibrio e di una precisa fisionomia. Al centro di Narratori di pianure infatti vi è una realtà dimessa e quotidiana che lo scrittore descrive in prima persona attraverso un linguaggio semplice ed essenziale, quanto più possibile obiettivo e preciso, dal tono quasi cronachistico, con accostamento paratattico di brevi periodo. Ne emerge il quadro di una realtà ambientale degradata piena di asfalto, di strade dissestate, di grigi capannoni, di edifici scrostati e disadorni in stile dopoguerra, di case abbandonate, ecc…

Il viaggio lungo il Po del narratore si configura come la ricerca delle radici (alla ricerca del paese dove è nata mia madre); ma è una ricerca difficoltosa, che mette il evidenza il senso di estraneità del protagonista a quei luoghi (senza saper bene dove andavo; non riuscivo a immaginare che fosse esistito qualcosa diverso dallo spazio della mia epoca)

 

Fonte: http://www.doppiozero.com/materiali/un-meridiano-parallelo-non-ortodosso-che-ci-porta-sempre-altrove

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