‘Amore negli Stati Vaticani’, il romanzo storico-giallo di Diomede Milillo

Il pensiero reazionario conosce la sua compiuta manifestazione intellettuale nella prima metà del XIX secolo. Di “reazione” in termini filosofici e politici si comincia a parlare durante la Rivoluzione francese, quando essa diviene sinonimo di controrivoluzione. La carica reazionaria del tradizionalismo filosofico è in primo luogo, e pressoché esclusivamente, un rabbioso rigetto degli ideali dell’Illuminismo che ruotano attorno a quattro concetti di fondo: individuo, ragione, natura e progresso. La critica a questi ideali fa tutt’uno con la condanna senza appello della loro concreta espressione storico-rivoluzionaria. Nei più diversi campi, dalle scienze naturali alla filosofia morale, “reazione” diventa la risposta a una stimolazione, a un’alterazione di stato, a una rottura di equilibrio o combinazione di elementi.

Nel nuovo libro dell’ex top manager Diomede Milillo, Amore negli Stati Vaticani, pubblicato da Il Seme Bianco, emerge tale assunto: C’è nella Rivoluzione francese un carattere satanico che la distingue da tutto quello che si è visto fino a quel momento. I discorsi di Robespierre contro il sacerdozio, la solenne apostasia dei preti, la profanazione degli oggetti di culto, l’inaugurazione del culto della dea Ragione: tutto ciò esce dall’ambito ordinario del crimine e sembra appartenere a un altro mondo. E, nello stesso tempo in cui la rivoluzione si è assopita, i maggiori eccessi sono scomparsi, ma i principi sono rimasti.

Dalle più grandi istituzioni che hanno segnato la storia fino alla più piccola organizzazione sociale, dall’impero fino alla confraternita, tutte hanno una base divina, e la potenza umana, ogni volta che se ne è distaccata, non ha potuto dare alle sue opere che un’esistenza effimera e fasulla.

Se le nostre moderne costituzioni devono anche alla Francia degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione l’idea stessa di una Carta costituzionale scritta come legge fondamentale dello Stato, il pensiero controrivoluzionario – cui il movimento del tradizionalismo francese appartiene – esalta l’idea di un ordinamento frutto della tradizione storica, dove la permanenza di antichi retaggi e costumi non è che il segno tangibile di un assetto sociale e politico di stampo feudale, con le sue gerarchie, i suoi privilegi, le sue “libertà”. La lotta al razionalismo “astratto” del pensiero illuministico, prima, e rivoluzionario, poi, e l’attaccamento al mondo feudale (fondato sulle istituzioni naturali, a partire dall’autorità paterna fino a quella religiosa, passando attraverso il potere del monarca e del ceto della nobiltà e dell’alto clero) prendono le forme dell’organicismo politico, una concezione secondo la quale una comunità è un organismo vivente, la cui messa in forma è compito della Provvidenza che agisce tramite il suo inviato, il monarca, che assume le caratteristiche del pontefice.[1]

È esattamente questa la cornice storica e politica entro la quale Diomede Milillo inserisce le vicende del suo romanzo.

La Restaurazione in Italia non fu una reazione ma una terza edizione del dispotismo illuminato, indebolito moralmente, intellettualmente e praticamente. Indebolito moralmente perché le riforme settecentesche ebbero l’appoggio morale entusiastico del fior fiore della cultura militante italiana, e il dispotismo illuminato napoleonico, se incontrò l’opposizione liberale e democratica del Foscolo e dell’Angeloni, trovò in Cuoco e Romagnoli coloro che seppero dargli ancora una brillante formula giustificativa, ma il dispotismo illuminato della Restaurazione fu considerato dalla cultura militante italiana come un’imposizione estera.[2]

Dalla Restaurazione, la Chiesa cattolica, nella sua dimensione giuridico-istituzionale, si identificò prevalentemente nelle posizioni delle gerarchie ecclesiastiche, e in primo luogo della Santa Sede. La crescente spinta verso una prospettiva interiore nell’approccio alla religione doveva essere respinta nel nuovo contesto post-rivoluzionario come una forma di individualismo religioso, analogo al protestantesimo, che finiva per minare non solo la dimensione comunitaria della Chiesa e l’influenza delle gerarchie ecclesiastiche, ma anche la stessa obbedienza nei confronti delle autorità politiche. Già con Pio VII si ebbe la proposta dello Stato pontificio come visibile modello di organizzazione statuale in cui si era realizzata una compiuta restaurazione.[3] Leone XII, poi, si impegnerà molto nella valorizzazione dei più importanti siti archeologici romani, dei resti delle basiliche paleocristiane e di quant’altro nella Diocesi di Pietro sia in grado di dimostrare la millenaria presenza del cristianesimo. Così pure, in un breve periodo, egli svilupperà una vera e propria opera di restaurazione dell’autorità sovrana sulla capitale e sulle province rimodellando l’intero assetto amministrativo impostato dal Consalvi, segretario di Stato con Pio VII, durante quella che fu la restaurazione in senso classico nel decennio precedente il pontificato leonino. Con Leone XII la città di Roma velocemente recupera il suo ruolo di centro della cristianità e di faro di un nuova cultura che voleva tornare a leggere le testimonianze del passato per ricavarne energie nuove per l’avvenire.[4] Eppure il pontificato di Leone XII è sempre stato visto come uno dei periodi più oscuri della storia della Chiesa, durante i quali il papa era visto alla stregua di un semplice esecutore delle volontà dei cardinali zelanti e della cancelleria viennese.

Ed è proprio all’ombra di questi misteri e intrighi che si sviluppa il romanzo giallo di Milillo, lungo i “bui” corridoi dello Stato Vaticano.

Il dispotismo successivo al Congresso di Vienna fu molto diverso da quello settecentesco. Esso divenne reazionario, cercando cioè di reagire ai cambiamenti introdotti dalla rivoluzione francese, combattendoli e rifacendosi a un quadro di valori tradizionali. L’aristocrazia, un tempo élite delle monarchie europee, passò a rappresentare i resti di un mondo ormai superato, fatto di privilegi e disuguaglianza. La lettura reazionaria della rivoluzione francese fu affidata a Joseph de Maistre, che vedeva nel cristianesimo l’ultimo baluardo contro la diffusione delle idee atee e illuministiche e nella rivoluzione un castigo voluto da Dio per punire la Francia del suo malefico clima intellettuale.  Il diffondersi in tutta Europa di un clima poliziesco e di repressione di idee contrarie alla restaurazione favorì la nascita e la diffusione di moltissime società segrete. Al concetto di nazione venuto fuori dalla rivoluzione francese si affiancò un secondo e differente concetto di popolo-nazione, nato in Germania dal pensiero di autori quali Johann Gottfried Herder: esso faceva riferimento a un’unità assoluta e inscindibile di territorio, lingua, razza, costumi e religione. Si tratta della concezione che più influenzò la temperie culturale che caratterizzò l’Ottocento europeo: il romanticismo.[5]

Nobiltà e clero guardavano con livore ai moti rivoluzionari e ai loro promotori, considerati dei miscredenti, dei sovversivi. In effetti l’ordine che essi volevano “sovvertire” era proprio quello che questi volevano, al contrario, “restaurare”. Una condizione politica e sociale carica di tensioni che va a costituire  la tela su cui Milillo ha intessuto la sua trama, modellando i personaggi in base al loro ceto di appartenenza. Persone per le quali il mantenimento dello status quo, e dei relativi privilegi che ne conseguivano, aveva maggiore importanza delle libertà e dei diritti altrui.

Leone XII fin da giovane si era messo in luce, oltre che per le doti intellettuali e per l’origine sociale, per certe qualità che, pur rimanendo in un ambiente ovattato e presumibilmente sensibile alla trascendenza come quello della capitale del cattolicesimo, non erano passate inosservate: qualità come la solennità della figura, la fierezza del portamento, l’eleganze innata e la bellezza dei tratti fisici. Si narra che Stendhal avrebbe insinuato che proprio Annibale della Genga, futuro papa Leone XII, non sempre aveva saputo resistere alle seduzioni alle quali veniva esposto da questa sua qualità. Di buon grado coltivava il piacere della vita di società e delle conversazioni salottiere, nel corso delle quali i suoi modi aristocratici accentuavano agli occhi del pubblico presente, e a quanto sembra soprattutto di quello femminile più volte ricordato nella sua corrispondenza privata, il fascino di un personaggio che, come lui, non si privava mai del piacere di stimolarne curiosità e frivolezze.[6]

Anche a Monaldo, protagonista del libro di Milillo, piace lasciarsi stimolare da dette curiosità e frivolezze.

Ancora oggi, nella Chiesa cattolica romana l’amore tra un prete e una donna è severamente vietato. Non sempre però, oggi come in passato, la promessa del celibato viene rispettata e spesso nascono amori proibiti e relazioni clandestine. Di fronte al bivio “o la donna o il sacerdozio” alcuni scelgono l’amore per la propria compagna, riconoscendole un ruolo fondamentale nella loro vita, altri non si sentono pronti a rinunciare alla vocazione e, pur di continuare a esercitare il ministero sacerdotale, sono disposti a vivere in segreto la propria sessualità e le relazioni sentimentali.[7]

Quella combattuta dalla Chiesa contro l’incontinenza e il concubinato clericale è ed è stata una lunga e aspra battaglia: le sue radici affondano nell’esaltazione della verginità, condizione preferibile al matrimonio secondo gli scritti patristici che contribuirono a costruire la separazione tra sacro e profano.[8]

Anche se da un punto di vista fenomenologico il celibato potrebbe venire analogato alla continenza, alla castità, all’astinenza sessuale, alla rinuncia o all’impossibilità a contrarre matrimonio, a una condizione sociale, irreversibile o transitoria, di celibe/nubile, a situazioni psicopatologiche di sessuofobia o di altre condizioni morbose, antropologicamente se ne diversifica in modo sostanziale. Non è facile intendere il celibato né da un punto di vista umano né tanto meno da un punto di vista delle scienze del comportamento. Per un cristiano cattolico, celibato vuol dire celibato apostolico. Significa essere come Gesù.[9]

In quel mondo claustrofobico, chiuso, autoritario e tutto maschile che è il clero cattolico tornerebbe molto utile comprendere quale sia realmente la natura del legame tra il sesso e la formazione clericale, indagare sul motivo per cui i membri del clero sono, nei confronti del sesso, tanto disinteressati in pubblico quanto ossessionati in privato, chiarire se per caso sia proprio quella della sessualità una delle chiavi per comprendere la natura dell’istituzione millenaria che li ha con molta cura allevati e forgiati.[10]

Per certo quella della sessualità è stata una “chiave di indagine” utilizzata da Milillo per raccontare i personaggi, in particolare il protagonista, e il loro agire.

 

[1]U. Eco, Storia della Civiltà Europea, EncycloMedia Publishers, 2014 (L’Ottocento – Filosofia, vol.64).

[2]G. Santoncini, Appunti per una bibliografia critica sulla seconda Restaurazione pontificia, in Proposte e ricerche, fascicolo 32 (1/1994).

[3]G. Vian, La Chiesa cattolica dalla Restaurazione e Francesco, in G. Vian, (a cura di): Alessandro barbero Gustavo Corni, Storia dell’Europa e del Mediterraneo, vol. 14, Salerno, Roma, 2017.

[4]G. Piccinini (a cura di), Il pontificato di Leone XII. Restaurazione e riforme nel governo della Chiesa e dello Stato, Atti del Convegno, Genga, 1 ottobre 2011.

[5]F. Benigno, L’età moderna. Dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, Laterza, Bari, 2005.

[6]G. Monsagrati, Leone XII, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 64 (2005), Treccani100.

[7]A. Fiore, Uomini proibiti (documentario), Maxman Coop Società Cooperativa, Italia, 2015.

[8]S.T. Salvi, Diabolo Suadente. Celibato, matrimonio e concubinato dei chierici tra riforma e controriforma, Giuffré Editore, Milano, 2018.

[9]F. Poterzio, L’espressione celibaria dell’affettività, Pontificia Università della Santa Croce – Centro di Formazione Sacerdotale.

[10]M. Marzano, La casta dei casti. I preti, il sesso e l’amore, Bompiani, Milano, 2021.

‘Lo scultore di uragani’. L’esordio narrativo di Carlo Tortarolo

Un libro di rottura. Un alibi, un oltraggio al pensiero unico, allo spirito dei tempi, che esplora quelle verità delle quali è troppo rischioso parlare per primi. L’hanno già scritto altri, alibi perfetto. Dal 18 aprile sarà in libreria la raccolta di racconti Lo scultore di uragani, l’esordio narrativo di Carlo Tortarolo (Coniglio Editore, 2025,), con prefazione di Gian Paolo Serino promette malumori tra gli alfieri del politicamente corretto.

Carlo Tortarolo (Ancona, 1978) scrittore e giornalista letterario, caporedattore di Satisfiction, collabora con il quotidiano Il Giornale dove affronta tematiche di politica internazionale e attualità.

Nella quarta di copertina il monito è chiaro: “C’è chi scrive per i posteri e chi scrive per i contemporanei. Io scrivo per i postumi. I miei nemici sono tutti morti. Perché con alcuni morti si può ancora dialogare dato che, almeno una volta, sono stati vivi”.

Si è senza nemici nel campo della cultura, in un presente che non è più nulla. Perché non può esserci dialogo senza Logos ma quel nulla in un istante esplosivo può diventare tutto.

La difficoltà di abitare l’esistenza -«Vivere è indossare quello spazio che non ha paura di confinare con la morte in cui respiriamo la nostra libertà»- si incrocia a nuovi modi di affrontare le antiche paure: “La Morte ci terrorizza perché chi muore non consuma”.

“Guai ai vinti” è il grido di chi sa che non è mai finita tranne quando ci si arrende. Tortarolo racconta l’umanità che resiste e che non si rassegna a diventare merce e la quantità dei temi affrontati fa sì che ogni lettore possa trovare un posto scomodo.

Lo fa con un modo personale di intendere il mestiere di scrivere: “La letteratura è rivoluzione eterna che plasma il tempo, scolpisce la quarta dimensione, e induce mutamenti nello spazio per gli anni che verranno.”

Ogni parola qui è scolpita controvento, plasma il caos con la forza della provocazione, costringe il lettore a scegliere se restare immobile o farsi travolgere.

I racconti sono frammenti di un realismo che non consola: schegge impazzite di ironia e lucidità, dialoghi che esplodono in duelli verbali senza prigionieri.

Secondo Gian Paolo Serino, autore della prefazione, Tortarolo: “Appartiene ai nostri tempi, ad esempio per ritmo e modernità di scrittura, ma il suo respiro letterario ha il rigore e l’ironia di quando la letteratura era ancora Letteratura”. Secondo lui fa parte non dei Pasolini o dei Bassani ma dei Leo Longanesi, Ennio Flaiano, Gesualdo Bufalino che hanno incontrato sul ring della vita Luciano Bianciardi o Giancarlo Fusco.

Tortarolo costruisce un ponte tra il passato e un presente che pare già futuro distopico. I racconti sono specchi frantumati: chi guarda dentro rischia di ferirsi senza sanguinare.

Ma la letteratura vera, quella che resiste agli uragani, non è mai stata roba per pavidi. E quando la troppa polvere della Storia soffoca il respiro della vita è allora che serve qualcuno che sappia ancora scatenare gli uragani.

Il complesso dei pesci balena 

Stavamo guardando il cielo insieme per la prima volta.

«Credi nell’esistenza di Dio?».

«Abbastanza».

«Se fosse stato Dio a creare l’Universo secondo te sarebbe in grado di trovarci?».

«Certamente, se ci ha creato sa anche dove siamo».

«E se si fosse scordato saresti in grado di spiegargli dove siamo in modo da venirci a salvare?».

«Vuoi provare?».

«Ok».

«Tu fai Dio?».

«Va bene».

«Hai presente l’Universo?».

«Tutto?».

«Sì tutto l’Universo».

«Che debbo farci?».

«Prendi una parte, la più grossa, al centro, noi la chiamiamo “Complesso dei superammassi dei pesci Balena”».

«E poi?».

«Poi avventurati lì dentro e punta il superammasso di Laniakea detto “dei cieli immisurabili”».

«Una volta lì che dovrei fare?».

«Dovresti spingerti ancora al suo interno verso il Superammasso della Vergine».

«E quindi?».

«Lì dentro c’è un gruppo di Galassie che per comodità noi chiamiamo locale, in mezzo a quelle si trova la Via Lattea».

«Finalmente! È finità?».

«Veramente no, al suo interno ci sono diverse braccia, devi prendere quello di Orione».

«Poi ci siamo?».

«Non ancora. Una volta lì devi arrivare alla cintura di Gould, cercare una nube dentro una bolla e con un po’ di fortuna alla fine vedrai un piccolo sistema solare con alcuni pianeti. Il terzo in orbita a partire dal Sole è il nostro, la Terra».

«La strada è un po’ lunga però».

«Ma ti ci ho portato alla fine».

«Non sono convinta, ci sono troppi nomi da ricordare, se uno non li sa come ti riesci a spiegare?».

«Per quello posso sempre spiegarmi a gesti» e la bacio.

Mi abbraccia «Se penso a quanto siamo così piccoli mi chiedo se i nostri problemi li hanno anche oltre la cintura di Gould».

«Non tutti di certo ma questo bacio sì. Si merita di essere citato nelle cronache di mondi morenti e di quelli appena nati e di viaggiare oltre lo spazio-tempo».

«Fino a dove?».

«Fino all’origine di tutti gli universi osservabili» e la ribacio.

Poi la guardo silenzioso.

«Perché mi fissi? Cosa c’è?».

«Invidio il cielo e i poeti perché riescono a mostrare l’assoluto a chi fa anche fatica a capire il relativo».

«Mi fai ridere lo sai?».

«Mi piace parlare con te e farti ridere».

«Di cosa vorresti parlare?».

«Parliamo degli uomini e dell’amore. Che cosa siamo noi?».

«Secondo te cosa siamo?».

«Forse giocattoli rotti».

«Spiegati meglio». Lei mi guarda pensierosa.

«Troppi amori vissuti in planata, troppe storie finite forse?».

«E quindi?».

«Riusciamo ancora a concepire quella malattia irrazionale che ci stringe uno verso l’altro senza sentire ragioni?».

«E cosa sarebbero i rapporti per te?».

«Erano bisogni pulsioni e slanci che univano chi si accoppiava per tutta la vita. Era diventare parenti senza esserlo mai stati».

«Un po’ inquietante ma bello».

«E in mezzo c’erano le forme, gli odori, gli odii e le lotte di chi sta assieme per sempre».

«Sempre è una parola difficile».

«E c’era un’identità condivisa da due che nel loro rapporto decidevano o accettavano uno dei tanti modi di essere famiglia».

«E ora questo non c’è più?».

«Allora anche i matrimoni tra i ricchi duravano tanto!».

«Ti manca quel tempo?».

«Mi manca quello che c’era, che andava oltre il che emaniamo naturalmente e che ci gira attorno senza trovare chi possa impegnarsi a riceverlo e accudirlo».

«Davvero?» mostra interesse.

«E se non trova a chi donarsi ci si rivolta contro».

«E cosa fa?».

«Ci toglie il necessario, ci dona il superfluo e ci lascia nudi».

«E questo surriscalda l’ambiente immagino». Lei mi guarda e provoca.

«Nudi senza il senso del Noi».

Gli sguardi si incontrano di nuovo.

Quando ho amato una ragazza, ogni volta, in quei momenti in cui gli occhi si incontrano e ridono rispecchiandosi di pura gioia, ho sempre visto trasfigurarsi la stessa donna, sempre Lei, sempre lo stesso volto uguale, colmo di gioia, che mi guarda.

E quando ricambio quello sguardo ogni volta non so se sto guardando una donna o sto guardando Dio.

Se Dio fossi io le volte che mi metto dopo tutto il resto, dopo gli altri?

E se quando mi chiedo perché Dio permette che i bambini soffrano non lo vedessi soffrire proprio negli occhi dei bambini. Come posso alleviare le sofferenze di Dio, dargli gioia e vederlo sorridere in un bimbo?

Si dice che siamo il cancro della Terra per far sembrare etico questo nostro continuare a sterminarci.

Ma a volte della Terra siamo il sale.

Sono andato troppo oltre, Lei se ne accorge ma non parla.

«Ti piaccio?» intanto mi avvicino.

«Sì» dice sfrontata.

«Vuoi fare l’amore?».

«Non ti posso dire no.

«Perché mi ami?».

Mi guarda divertita, avvicina gli occhi e sussurra dolcemente: «Perché sono il tuo robot».

Redazione Satisfiction

‘La Venere in Autoreggenti’, l’esordio di Giusy Agata Caff e Teresa Giulietti

Anche in letteratura, quando gli scrittori devono raccontare l’eros, di solito non lo sanno fare, soprattutto gli scrittori italiani; il gesto più naturale dell’uomo è così misterioso che quando lo si cerca di mettere in letteratura, si cade nel grottesco, nella noia, nello scontato, del banale. O si scade a volte nel pornografico. In tal senso il romanzo erotico La Venere in Autoreggenti di Giusy Agata Caff e Teresa Giulietti, il primo della nuova collana di letteratura erotica Anima Nuda della casa editrice Bertoni Editore, non brilla per originalità nel raccontare l’eros, ma perlomeno non vira facilmente sulla pornografia.

La Venere in autoreggenti affronta con delicata profondità il tema dell’amore impossibile, quello che arriva inaspettato e sconvolge ogni equilibrio, in questo caso le vite di due donne diverse tra loro, anche solo per area geografica. La narrazione si sviluppa attraverso l’intensa storia tra Claudia, manager farmaceutica catanese e Beatriz, giovane attrice madrilena, il cui incontro casuale in un aeroporto innesca una serie di eventi che scombineranno le loro vite. La storia si muove tra Catania e Madrid e tale aspetto probabilmente costituisce la parte più interessante del romanzo.

Attraverso la relazione delle due protagoniste, che sembrano delle vere e proprie estensioni delle loro città di provenienza, le autrici affrontano temi universali come il desiderio di rinnovamento, la distanza geografica ed emotiva, ma anche questioni più specifiche come l’identità sessuale, la sincerità nelle relazioni e il conflitto tra realizzazione professionale e vita sentimentale, soprattutto la tendenza di trattare la sfera personale come quella professionale, applicando i criteri di valutazione e di giudizio al proprio sentire, alle proprie emozioni.

Il sesso, di solito, si suggerisce senza descriverlo oppure lo si porta all’eccesso come ad esempio fanno Murakami, Isaac B. Singer e di Philip Roth. Nella La Venere in autoreggenti, si alternano momenti di intensa passione fisica a profonde riflessioni esistenziali, quasi a voler rappresentare artisticamente le contraddizioni e i movimenti che lo attraversano. Non a caso il Teatro Bellini di Catania diventa il palcoscenico simbolico di questa storia d’amore, dove musica classica e desiderio si fondono in una scena di grande impatto sulle note della “Casta Diva”.

Fondamentali sono poi le città di origine delle due donne per poter comprendere i loro caratteri e personalità e le loro professioni.

Madrid la conosceva piuttosto bene e la adorava. Era una di quelle città in cui, fin da subito, si era sentita a casa; così diversa dalla sua
Catania che, pur, non avrebbe barattato con nessun’altra città al mondo. Ma in quel momento non era tanto il fascino della capitale spagnola…

Madrid viene presentata con la sua costante forza misteriosa e inesplicabile grazie alla quale è riuscita mano a mano a imporre la propria individualità, che va di pari passo con quella delle due protagoniste, con la loro crescita personale e sentimentale, mentre Catania, speculare alla città spagnola, è una citta musicale che accompagna con il suo sguardo barocco vitale e ardente come la storia d’amore tra Claudia e Beatriz.

Le due autrici, con gusto per l’intrigo, l’introspezione e la leggerezza, senza scivolare nella lascivia kitsch, mostrano come i sentimenti siano imprevedibili e mettano in discussione il lato razionale dell’essere umano, che pensa di poter avere tutto sotto controllo e di poter governare l’amore come un’azienda.

Le autrici

“La Venere in autoreggenti” è il romanzo d’esordio di Giusy Agata Caff. l’autrice è nata a Catania nel 1976 e si diploma al liceo artistico per poi specializzarsi in restauro d’arte. Nonostante la vita l’abbia portata a fare scelte professionali diverse non ha mai smesso di alimentare la sua parte creativa. Invece per Teresa Giulietti, nata a Parma nel 1972, laureata in Lettere e filosofia, si tratta di una conferma del suo più lungo percorso artistico e letterario. Comincia la sua carriera come ghost writer (www.lasignorinawrite.it), pubblica romanzi e saggi per editori nazionali tra cui la Marsilio di Venezia, Edizioni della Sera di Roma, Bertoni editore di Perugia e realizza per privati biografie e romanzi di formazione. Come naturopata psicosomatico unisce in conferenze e serate benessere le tecniche di rilassamento corporeo alla scrittura emotiva per sbloccare emozioni congelate e riscrivere in maniera creativa la propria vita.

La Venere in Autoreggenti è un viaggio nella passione e nel desiderio di abbandono alle pulsioni più istintive, in cui i confini tra realtà e fantasia diventano sempre più sfumati. Esplora anche il tema della guarigione dopo un amore doloroso che lascia segni indelebili. Il processo di elaborazione di Claudia viene descritto con particolare sensibilità, culminando nella potente sequenza finale della scultura che si dissolve nell’acqua, simbolo di un necessario lasciar andare.

 

 

 

 

 

L’educazione emotiva, una rivoluzione culturale gentile. Due libri di Gabriele Plumari

Se possiamo insegnare l’inglese ai bambini delle elementari, perché non possiamo fare lo stesso con l’educazione emotiva?  Gabriele Plumari, manager e autore di narrative psicopedagogiche, ha ben chiaro il tipo di approccio che, al giorno d’oggi, sarebbe indispensabile tra giovani e adolescenti. Nei suoi libri, infatti, l’autore affronta i drammi adolescenziali per proporre una rivoluzione educativa e culturale, ma che possa essere alla portata di tutti. Si tratta di un’educazione non solo della mente, ma soprattutto del cuore racconta Plumari: i suoi libri, “Paolo e i Quattro Mostri” e “10 – La Perfezione dell’Imperfezione” fanno immergere i suoi lettori in un mondo vero e diretto, fatto di dolore, di sofferenza, ma anche di rinascita e speranza.

Nel primo libro, Paolo cresce in un ambiente crudele, segnato da abusi sessuali, violenza fisica e bullismo. L’unico conforto è il cibo, che diventa il suo “quarto mostro”. Questi mostri, metafora delle sue dipendenze e traumi, lo accompagnano fino all’età adulta, trasformandolo in una persona che perpetua la stessa violenza subita. Ma grazie all’amore e al supporto, “le catene di odio” possono essere spezzate. Nel secondo libro, invece, si parla di Marta, un’adolescente brillante e disciplinata, che insegue la perfezione in ogni aspetto della sua vita: a scuola, nella danza e persino nel controllo del cibo. Cresciuta in una famiglia ossessionata dal successo e dall’apparenza, si trova schiacciata sotto il peso di standard irrealistici. È un viaggio tra pressioni sociali e complessità dell’adolescenza, ma che permette una profonda riflessione sul concetto di felicità.

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I miei libri non sono semplici racconti – spiega Plumari – ma degli specchi che riflettono la realtà di oggi. Gli adolescenti devono affrontare sempre più drammi, e spesso si ritrovano ad “affogare” nella loro solitudine. Vorrei davvero che ci fosse un cambiamento, che può avvenire solo attraverso l’impegno di noi adulti . Dietro le sue storie, infatti, c’è un progetto più grande: il sogno di una rivoluzione educativa.

Secondo Plumari, infatti, ci sarebbe la necessità di introdurre dei percorsi di educazione sentimentale nelle scuole, supportati dalla presenza di terapeuti che possano fungere da ponte tra insegnanti, genitori e alunni. La nostra società è sempre più connessa, ma sempre più fragile – sottolinea l’autore – e i nostri ragazzi si ritrovano soli, i genitori e i docenti sono spesso impreparati ad affrontare le nuove sfide emotive. Vorrei un mondo in cui i problemi fossero prevenuti attraverso un cambiamento culturale e scolastico, in cui ogni bambino possa essere accolto e guidato verso una crescita emotiva consapevole.

La scrittura di Plumari evidenzia come una maggiore consapevolezza emotiva potrebbe prevenire molti dei drammi che popolano le cronache: suicidi, violenze, isolamento e disturbi psicologici. Per Plumari, la chiave è formare una generazione capace di affrontare le difficoltà con empatia e resilienza, rompendo il ciclo di sofferenza che troppo spesso caratterizza la crescita.

L’anima creativa del manager, inoltre, ha uno stile ben preciso, basato sulla semplicità e la chiarezza. Vorrei raggiungere tutti, anche chi non legge abitualmente. Non mi interessa impressionare con lo stile. Mi interessa che il mio messaggio arrivi forte e chiaro, e che sia capace di sostenere i bambini più vulnerabili, di formare genitori più consapevoli e di aiutare gli insegnanti a gestire la complessità delle nuove generazioni. Dietro ogni tragedia c’è l’opportunità di riscatto, e dietro ogni difficoltà si nasconde una possibilità di crescita, aggiunge Plumari, convinto che una rivoluzione “gentile” sia indispensabile, ma perfettamente attuabile. Basta solo volerlo. Lo dobbiamo ai nostri ragazzi.

‘Purgatorio’, l’esistenza deragliata di Ilaria Palomba

Il canto XV del Purgatorio di Dante è un’eccezione. Si tratta di un canto di passaggio, dove la consueta narrazione si ferma per far posto a una parentesi meditativa. Il primo elemento incontrato è la luce, messa in rilievo, come spesso avviene nell’opera, da una precisazione astronomica. La luce attraversa l’intero canto, tiene assieme gli altri temi solo all’apparenza irrelati; e in questo frangente è sia quella del sole sia quella dell’angelo che indica l’uscita dal girone. Il lettore si confronterà con tre vicende: quella di Maria, che anziché rimproverare il figlio smarritosi nel tempio si rivolge dolcemente a lui mettendo a nudo il suo patimento; quella di Pisistrato che, malgrado l’avversione della moglie, perdona il ragazzo reo di aver baciato sua figlia; la sequenza culmina infine con Stefano – il martire che, lapidato, perdonerà i suoi carnefici.[1]

Anche la vita di Ilaria Palomba raccontata in Purgatorio è un passaggio: dalla morte alla vita. Dal buio alla luce. Ma non si tratta di una vera e propria resurrezione. Di sicuro non è stato un percorso facile. Iniziato con lunghi mesi di degenza ospedaliera durante i quali a farla da padrone è stato il dolore, provato fin dal primo risveglio in ospedale, nel «ventre del Leviatano», uno «spazio liscio tra terra e cielo, un Purgatorio».

La vicenda narrata da Alighieri dello smarrimento di Gesù ragazzo a Gerusalemme e della reazione dolce di Maria, propria della poetica e del linguaggio del Purgatorio dantesco, ricorda molto la relazione che Ilaria ha con sua madre, l’atteggiamento di quest’ultima la quale, in netta contrapposizione al comportamento del marito, è molto accondiscendente con la figlia, nonostante la sua riottosità e scontrosità. Anche se è con il padre che Ilaria ha lo scontro maggiore perché questi proprio non riesce a comprendere le ragioni delle sue azioni.

Nella società contemporanea stiamo assistendo, tra l’altro, a un ritorno in grande stile di un atteggiamento di stampo neo-romantico, caratterizzato principalmente da una sempre più diffusa rivalutazione degli aspetti affettivo-emotivi come valore fondamentale per l’essere umano.[2]

L’individuo delle “tribù” contemporanee è un enfant eternel, un bambino completamente assorbito in un suo universo affettivo-emotivo. Usciti definitivamente dalla cultura “eroica” giudaico-cristiana che ha caratterizzato la modernità, basata sulla concezione di un individuo attivo e padrone di sé e dell’ambiente circostante, si sarebbe entrati nell’universo del “vitalismo” delle tribù postmoderne, fondato non più sulla pianificazione e sulla realizzazione di determinati progetti ma prevalentemente orientato a lasciar godere del piacere di stare insieme, di condividere l’intensità del momento, di prendere il mondo per quello che è.[3]

Quello che stiamo vivendo oggi sembra dunque un processo di slittamento da un individuo dotato di un’identità stabile che esercita le sue funzioni sulla base di rapporti contrattuali ben definiti, a una persona fornita di molteplici possibili identificazioni, in grado di ricoprire indifferentemente svariati ruoli all’interno di “tribù affettivo-emotive”.[4]

Sulle spalle dell’individuo occidentale incombeva, circa un secolo fa, una patologia psichica definita clinicamente nevrosi. Oggi incombe la depressione. Se la nevrosi va considerata un “dramma della colpa”, la depressione è una “tragedia dell’insufficienza”. La conquista della definitiva emancipazione dell’individuo finalmente sovrano, il diritto di scegliere, il dovere di diventare se stessi, senza poter fare appello ad alcun ordine esterno, avrebbe imposto un pesante tributo, rappresentato appunto in una forma alternativa di dipendenza: la dipendenza da se stessi.[5]

Le peculiarità socio-psicologiche che caratterizzano l’attuale fase del processo di individualizzazione, sarebbero legate fondamentalmente alla paralisi dettata da una sorta di terrore: quello che l’uomo contemporaneo ha di scoprire in se stesso i motivi della sua dipendenza, la sua fragilità, la sua inevitabile mortalità, in breve tutto ciò che gli ricorda la sgradevole verità dei suoi limiti. Egli soffre della “malattia di non saper soffrire”.[6]

Per Ilaria il reincanto è l’amore, lo cerca senza neanche rendersi conto di farlo, lo rifiuta con la stessa intensità, inconsciamente, perché le forze lesioniste e distruttive hanno sempre o quasi la meglio. Anche l’amore per lei è dolore. Un dolore che spesso si trasforma in rabbia o in ossessione.

«Essere ossessionati è vivere il pensiero come un doppio mostruoso, farselo scivolare dentro senza nessuna forma di erotismo. È uno stupro. Io non volevo sognare, ogni volta sognavo qualcuno che mi assediava, erano le persone che avrei ucciso se non avessi deciso di uccidere me. Il suicidio è un omicidio mancato».

In tutto il mondo, quasi 800.000 persone si suicidano ogni anno. Le evidenze suggeriscono che per ogni persona che muore suicida, vi sono molte più persone che tentano il suicidio. Circa l’85-95% delle morti per suicidio si verificano in persone con una malattia mentale diagnosticabile al momento del decesso. Il disturbo più comune che contribuisce al comportamento suicidario è la depressione. Le esperienze infantili traumatiche, tra cui soprattutto l’abuso fisico e sessuale, aumentano il rischio di tentato suicidio. L’isolamento, quasi tutte le malattie mentali e alcune malattie croniche pongono i soggetti a rischio di suicidio.[7]

Ilaria non ha malattie mentali eppure, secondo lo psichiatra che la segue, una volta fuori dall’unità spinale potrebbe essere a rischio suicidio. Ancora. Per lei «vivere è un Purgatorio senza uscita, neanche la morte è vera, non si può fuggire da nessuna parte. Ogni porta è sbarrata. Vivere è un obbligo cui non posso sottrarmi, devo solo scegliere se farlo da cadavere o da persona».

Si è tentati di pensare che un incidente possa restituire senso a una vita dilaniata, come quella di Ilaria che non voleva vivere ma neanche morire: sospesa nel mezzo di tutti i mondi, sospesa tra le dimensioni. Sospesa in quel pensiero dissociato che diventa realtà, verità. Ella considera il deragliamento una feritoia attraverso cui il reale si mostra. E invece l’incidente può rappresentare solo la luce che illumina il buio, il nascosto, l’incompreso.

Una scelta difficile da comprendere quella di Pisistrato nel già citato canto del Purgatorio. Dante lo scelse come esempio di mitezza d’animo, riprendendo un episodio raccontato da Valerio Massimo: un giovane, innamorato della figlia del tiranno, l’abbraccia e la bacia in pubblico suscitando l’ira della madre della ragazza che chiede vendetta per l’offesa subita. Ma Pisistrato risponde con atteggiamento pacato e contenuto, dimostrando grande temperanza e dominio di sé.

L’episodio rimanda a quanto narrato nel libro da Palomba anche se nel lettore rimane il dubbio se riferirlo al comportamento di Ilaria, la quale non riesce a contenere se stessa oppure a suo padre il quale sembra non vedere e non capire le reali e profonde ragioni alla base degli atteggiamenti di sua figlia. Oppure ancora nell’atteggiamento remissivo di sua madre, laddove diventa ella stessa una contemporanea Pisistrato e, nonostante gli incitamenti del marito, non riesce a dare addosso alla figlia perché in fin dei conti sembra proprio questo ciò che Ilaria vuole. Prendersi la colpa. Di tutto. Farsi del male. Sentirsi vicina al suo faro oscuro: «Sono una suicida, la diagnosi più consona è suicida, perché è sin dalla nascita che faccio l’amore con la morte». E che la ricerca. Nello scontro con i genitori come nelle storie d’amore: «Gli uomini che ho amato erano tutte le manifestazioni della morte».

Esattamente come il canto XV del Purgatorio dantesco, anche il libro di Ilaria Palomba è un’eccezione. Una narrazione di passaggio che racconta il percorso di un’esistenza deragliata la cui protagonista comunica con il e al lettore la sua esigenza meditativa e riflessiva senza uno scopo prefissato se non quello di capire e dare risposta ai tanti interrogativi che attanagliano la mente e il corpo di Ilaria. È questa la luce che ella rincorre per l’intero libro.

 

Il libro

 

Ilaria Palomba, Purgatorio, Alter Ego Edizioni, Viterbo, 2025

[1]M. Renzi, Dal tenue allo straziante: Purgatorio XV, L’Indiscreto, 11 marzo 2021.

[2]G. Pecchinenda, Il coinvolgimento tecnologico: il Sé incerto e i nuovi media, in Quaderni di Sociologia, 44/2007 – la società contemporanea / Giovani e nuovi media.

[3]M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano, 2004.

[4]G. Pecchinenda, op.cit.

[5]A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 2010.

[6]H.E. Richter, Il complesso di Dio, Ipermedium Libri, S.Maria C.V (CE), 2001.

[7]C. Moutier, Comportamento suicidario, in Manuale MSD.

‘Come la neve nessun rumore’, il thriller ad alta quota di Marco Lugli

Trecentosessantacinque pagine intrise di sentimenti con un’unica costante, la vita. E’: ‘Come la neve nessun rumore’, un’indagine ad alta quota per il commissario Gelsomino, il nuovo libro di Marco Lugli.

Reduce dai precedenti successi, tornano le indagini del commissario Gelsomino, alla sua sesta avventura. Il romanzo, scritto da Marco Lugli, è preceduto infatti da diversi episodi: Nel Tuo Sangue, Ego Me Absolvo, La Madre (romanzo finalista Amazon Storyteller), Le Sepolture, È solo il mio nome.

Il romanzo, ambientato in Val di Fassa, presenta fin dalle prime pagine le prodezze naturalistiche delle Dolomiti. Il commissario Gelsomino, trovatosi in vacanza, si trova coinvolto in un’indagine surreale, dove il malcapitato protagonista è il giovanissimo Ivan, figlio di Tiziano Detomas. Il testo di Lugli fotografa con precisione la realtà cui chi vive in montagna si trova a districare: da un lato vi è la voglia di non deteriorare le bellezze naturali, dall’altra vi è l’esigenza di far soldi e poter sopravvivere con la stessa. Una contraddizione che ben viene raccontata nel romanzo di Lugli, la stessa che vede contrapposti in due visioni differenti Ivan e suo padre. Il testo racconta storie veraci e personaggi ben costruiti. Nuovi e vecchi volti si mescolano insieme, creando con Gelsomino un dream team capace di andare a capo della verità assoluta. Sullo sfondo una storia avvenuta vent’anni prima, che vede protagonisti Livio Pederiva e Piero Bernard, la cui amicizia si interruppe “per il taglio di una corda”. Stesso taglio che Lugli utilizza per raccontare la storia di Ivan, le cui vicende regalano al lettore un thriller avvincente e sensazionale. Marco Lugli è uno scrittore indipendente che vive e lavora tra l’Emilia e il Salento. Ai noti romanzi gialli dedicati alle indagini del commissario Luigi Gelsomino affianca titoli di narrativa contemporanea. Il suo ultimo romanzo è adatto agli amanti del thriller e ancora una volta, attraverso il personaggio di Gelsomino, regala al suo pubblico un’indagine senza pari. Una tragedia in alta quota.

Lugli riflette sui pericoli dell’alpinismo, unendo le sue osservazioni a riferimenti cinematografici che arricchiscono ulteriormente il contesto.
“Come la neve nessun rumore” è un romanzo imperdibile per gli appassionati di thriller, che riesce al contempo a celebrare la sublime bellezza della natura. Con uno stile narrativo chiaro e avvincente, l’autore costruisce un’intensa storia di comunità divisa tra la conservazione del suo patrimonio naturale e le pressioni economiche.

“Haiku- Centomila stagioni di cuore”, la nuova raccolta poetica di Lisa di Giovanni

“Haiku- Centomila stagioni di cuore” di Lisa Di Giovanni (Edizioni Jolly Roger) è una raccolta poetica che ci trasporta in un viaggio attraverso le stagioni e l’amore, utilizzando l’antica forma poetica dell’haiku. Con una struttura divisa in cinque sezioni — una per ciascuna delle quattro stagioni e una dedicata all’amore — il libro esplora i cambiamenti ciclici della natura e i momenti fugaci, ma profondamente intensi, dell’esperienza umana.

La scrittura di Lisa Di Giovanni è delicata e contemplativa, evidenziando una raffinata capacità di osservazione affinata dalla sua carriera nel giornalismo. Attraverso i suoi haiku, in soli diciassette sillabe, riesce a catturare l’essenza di paesaggi naturali e sentimenti, offrendo una finestra aperta su mondi ricchi di dettagli. La semplicità dello stile si unisce a un tocco personale e moderno, trasformando ogni componimento in un piccolo capolavoro di chiarezza ed emozione. Le stagioni vengono dipinte con immagini vivide e dettagliate: l’autunno è caratterizzato da foglie dorate, nebbie avvolgenti e crepitii del camino; l’inverno è il silenzio della neve, il gelo e la magia dei cristalli di ghiaccio; la primavera risveglia i sensi con boccioli, piogge tiepide e voli di rondini; l’estate brucia con il sole, il mare e le melodie dei grilli. Queste descrizioni non solo mostrano il cambiamento della natura, ma anche i riflessi emotivi che tali cambiamenti suscitano nel cuore umano.

La sezione dedicata all’amore approfondisce le sfumature delle emozioni amorose: dalla gioia alla nostalgia, dalla passione al conforto. Attraverso le immagini poetiche, l’amore emerge come un’esperienza multiforme e universale, intessuta con le stagioni della natura e della vita. Di Giovanni dipinge momenti di intimità con grande delicatezza: baci sotto la pioggia, mani intrecciate, vecchie lettere cariche di ricordi che riemergono, testimonianza di un sentimento che, nonostante il tempo, continua. La struttura del libro mira a creare un’esperienza di lettura condivisa: mentre una persona legge i versi, l’altra può concentrarsi sull’immagine correlata, immergendosi nel profondo legame tra parola e arte visiva. La stessa poesia si sviluppa in un ambiente rilassante e multisensoriale, potenziata dall’uso di incenso e tisane, come suggerito nella quarta di copertina.

 

 Sinossi

L’Haiku è un tipo di espressione poetica breve fiorita in Giappone intorno al 1600 e si compone, nella sua forma canonica, di tre versi suddivisi in diciassette sillabe (che poi sarebbero “more”, ma per semplicità chiamiamole pure sillabe). Beneficiò del suo massimo splendore durante il periodo Edo con i versi del celebre Matsuo Bashō, ed è giunto ai nostri giorni attraverso una serie di contaminazioni che ne hanno fatto una forma di espressione poetica tra le più ricercate. Dallo schema sillabico 7-5-7 siamo approdati a configurazioni più duttili, dettate dalle esigenza comunicative che prevedono la reciprocità di flusso tra parola scritta e lettore, così che la moderna arte dell’Haiku – pur rispettando la filosofia che ne guida da sempre il componimento – si gratifica di un respiro più ampio svincolandosi dai rigidi schemi metrici ai quali la poesia dei Maestri giapponesi era assoggettata. L’interazione che si viene a creare, inoltre, tra parola e immagine, plasma un nuovo approccio interpretativo al componimento, permettendone la godibilità anche come lettura di coppia. Gli Haiku presenti in questo volume, infatti, sono composti da tre versi e un’immagine ciascuno, proprio affinché ci si possa alternare tra la lettura del testo e la contemplazione dell’illustrazione, affinché chi si concentra sulle immagini possa assorbirne il profondo legame con i versi senza dover distogliere occhi, attenzione e anima dalla figura che completa l’Haiku. L’alternanza tra narratore e spettatore, magari vissuta in un ambiente rilassante e impreziosito dall’aroma leggero di un incenso non troppo aggressivo, crea così un rapporto profondo che fonde poetica e immagine generando un vincolo super sensoriale tra i protagonisti di questa esperienza condivisa.

L’autrice

Lisa Di Giovanni, originaria di Teramo e residente a Roma da oltre vent’anni, è una figura poliedrica nel panorama professionale e culturale italiano. Laureata in psicologia con un master in HR Executive Manager presso la RBS, lavora per una società di telecomunicazioni. Dirige inoltre un ufficio stampa che si occupa di editoria, pubbliche relazioni e organizzazione eventi: PR & Editoria. È consigliere nel direttivo dei Lions Valle Siciliana-Isola del Gran Sasso e portavoce dell’ANAS, dove si occupa di pubbliche relazioni e progetti di inclusione sociale. Come giornalista, dirige il semestrale “La finestra sul Gran Sasso” e la rubrica “Echi di Psiche” per Fix on Magazine. Ha pubblicato diverse opere con Edizioni Jolly Roger e ha co-creato la serie di fumetti “Human’s End” con Marco Sciame. Dal 2021, fa parte di un team di eccellenze italiane supportato dalla Confederazione AEPI ed è cofondatrice del marchio ‘Sinapsi 180’. Per Edizioni Jolly Roger è anche responsabile della collana “Poesia”.

 

‘Le donne di Maddalena’, il romanzo rurale di Giuseppina Mormandi

Edito Blitos EdizioniLe donne di Maddalena di Giuseppina Mormandi esplora un recente passato, fatto di dolore, segreti e donne che erano costrette a tacere. L’autrice affronta il tema della questione femminile nei primi anni del ‘900, quando la donna era un oggetto inattivo all’interno di una società patriarcale il cui utilizzo era solo al fine della procreazione. La maestria con cui Mormandi descrive le atmosfere rurali e semplici, tipiche di un piccolo paese in quell’epoca storica, trascina il lettore in un avvicendarsi di diapositive in bianco e nero, nel corso della lettura, in cui non si può fare a meno di sentirsi parte del racconto e di quel tempo non troppo lontano. Il romanzo è ambientato nell’immaginario paesino di Pietraia, intorno ai primi anni del ‘900; quando la storica levatrice viene a mancare sopraggiunge in quella piccola realtà contadina e semplice, come quasi tutti i paesi dopo la Grande Guerra, Maddalena: una ragazza bellissima discendente da una generazione di donne che aiutano a mettere al mondo bambini. La sua è un’entrata particolare: arriva a Pietraia a dorso di un asino con pochi averi ma con una sedia pulitissima.

 

Maddalena è la nuova Mammana: la donna che aiutava le altre donne a partorire, a celare una gravidanza indesiderata, o dava il suo sostegno a partorienti che avevano vergogna o timore del loro stato. Nonostante, all’inizio, il Paese la accolga con glacialità e indifferenza pian piano Maddalena diventa punto di riferimento per le donne di Pietraia. Confidente, amica e guida la sua figura appare essenziale per quelle donne abbandonate a una piccola e tacita realtà. Attraverso il personaggio di Maddalena ci si interfaccia con un’epoca storica che mette di fronte alle rapide trasformazioni della vita quotidiana e a quanto la donna fosse costretta ad affrontare sfide giornaliere al limite della sopravvivenza. Ma la protagonista del libro di Giuseppina Mormandi non è solo una Mammana, ma è anche una bellissima donna; alta, slanciata e con lunghi capelli neri acconciati per mezzo di lunghe trecce, la sua bellezza diventa fonte di fastidio per gli uomini di Petraia.

‘’Era nata verso la fine dell’Ottocento, di bella presenza, trecce nerissime che portava attorcigliate sulla testa a forma di corona. Di carnagione delicata, con occhi azzurri che contrastavano con la capigliatura corvina; sulle orecchie spiccavano un paio di orecchini d’oro molto particolari, raffiguranti un’ape con incisa sopra la lettera emme stilizzata’’.

Se da un lato don Alessandro, farmacista del paese, anela alla giovane quasi come fosse un sogno proibito e irraggiungibile, il parroco Don Luigi si accosta alla figura di Maddalena con aria supponente e superiore: il mestiere di Maddalena è un’ etichetta, a prescindere, e per via della sua professione, automaticamente, il parroco la considera priva di vergogna, impudente e spudorata.

Nonostante la trama segua le vicende di Maddalena, quello che colpisce del romanzo – oltre alla dovizia di particolari e all’estrema abilità descrittiva di momenti, luoghi, emozioni e atmosfere – è l’intersecarsi di varie storie nell’intero filone narrativo. La questione femminile si snoda attraverso vicende variegate che raccontano il dispiacere e il dolore di tante donne. Maddalena è ormai punto di riferimento per  la popolazione femminile di Petraia: la chiamano non solo per i parti ma per qualsiasi altro problema. La sua, però, è una missione delicata che non lascia spazio a questioni personali; spesso il suo lavoro significa anche raccogliere un fagottino, ben celato agli occhi altrui, e lasciarlo alla ruota del convento delle monache.

La grazia di Maddalena nella sua professione, fatta con discrezione, scoperchia un altro doloroso punto per le donne del passato: le ruote dell’abbandono, note come ruota degli esposti,  sinonimo di dolore, gravidanze indesiderate, povertà, violenza, miseria. L’autrice fa luce su un passato patimento che ha investito e travolto tante, troppe donne: la vergogna e la paura di una gestazione, le violenze subite da uomini di potere, un modo di vedere l’attività sessuale solo come dovere coniugale, la copulazione atta esclusivamente a scopo procreativo. L’imbarazzo di un argomento tabù come il sesso in un ambiente dominato dagli uomini; una società che marginalizzava il sesso femminile, relegandolo a una condizione di passività che le voleva come incubatrici  per la procreazione in un contesto di povertà e di eterna vergogna cucita addosso, solo per il semplice motivo di esser nata donna o di mettere al mondo altre figlie, donne, convivendo con un bruciante senso di mortificazione.

Il fulcro della trama è, però, legato alla sparizione di Maddalena; la sua scomparsa getterà l’intero Paese nella desolazione completa e nel senso di smarrimento.  Sarà proprio la sparizione della protagonista a recare un intenso colpo di scena all’interno della trama. La sua assenza segnerà la vita delle donne di Paese, facendo comprendere quanto invece la sua presenza fosse essenziale per la comunità intera. Le ipotesi sulla sparizione si avvicenderanno nei discorsi dei paesani che, attoniti, non sapranno cosa pensare di questo improvviso allontanamento. Fino a quando Maddalena farà ritorno, con un finale non scontato e sorprendente.

La trama complessa e avvincente induce il lettore a numerose riflessioni grazie anche alla narrazione in cui si intersecano diverse storie, quasi come fosse un romanzo corale. L’autrice evoca atmosfere di un passato che si intreccia a tematiche di sofferenza femminile attraverso una delicatezza narrativa ed elegante capace di cogliere sfumature di afflizione, resilienza e forza esplorando temi universali come le trasformazioni di una società, il supplizio consunto di anime mute, il potere della solidarietà femminile.

Le donne di Maddalena racconta la dura condizione femminile, l’epidemia di spagnola, l’ombra aleggiante delle ‘’ gestazioni del disonore’’, la mancanza di cultura e la povertà di ambienti rurali e semplici,  i sogni infranti di quelle donne del passato che parevano vivere solo attraverso la vita che davano ai figli. In alcuni tratti della lettura sopraggiunge, quasi involontariamente, un parallelismo con L’Amica Geniale:  in Elena Ferrante La maternità è presentata in tutta la sua complessità, non priva sentimenti negativi, angoscia e sofferenza. Le donne non hanno desiderio sessuale, ma devono subire quello degli uomini, il sesso è un dovere nei confronti dei mariti che non può mai essere negato e anche la procreazione, come nel romanzo di Mormandi, diventa l’unico appiglio alla vita.

Leggendo Le donne di Maddalena di Giuseppina Mormandi si ha come l’impressione di leggere un capolavoro tipico della poetica neorealista; riportando alla memoria antiche consuetudini dei piccoli paesi rurali, l’autrice  fa luce su un mondo dimenticato fatto di lacrime silenti e di donne che hanno combattuto portando nel loro intimo un tormento  muto ma pulsante.

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