‘Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo’ del geniale normalista Georgios Katsantonis

Georgios Katsantonis, nato a Patrasso nel 1987, è studioso di teatro e letteratura. Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Grecia) portando a termine un percorso completamente strutturato sulla drammaturgia europea, antica, moderna e contemporanea.

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Il suo ultimo lavoro dal titolo Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo (Metauro, 2021) ha vinto la XXXVII del Premio Pier Paolo Pasolini come tesi di dottorato. Tra le motivazioni si parla di un’opera contrassegnata da un “notevole spessore culturale”, in grado di fare accostamenti non comuni, di collegare le opere di Pasolini al pensiero di Deleuze sul masochismo, alle riflessioni sul potere di Foucault e di Spinoza, alla concezione degli animali di Derrida.

L’analisi condotta studia i seguenti temi:  1) il  corpo  in  preda  al  desiderio  sadomasochistico (Orgia), 2) la  zooerastia  (Porcile),  3) il  corpo recluso  tra  scissione  e  visionarietà (Calderón).

Ma allo stesso tempo c’è anche un’ulteriore analisi: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della polis (Porcile), la  società intesa come un mondo concentrazionario, come il  Lager (Calderón). L’autore riesce a scorgere un “fil rouge” nelle opere pasoliniane Orgia, Porcile, Calderón.

Il saggio è un’eccellente analisi interdisciplinare e comparata in grado di cogliere nessi originali senza mai forzare troppo la mano.  Katsantonis è in grado di fare collegamenti mai rilevati con pertinenza, acutezza, rigore filologico, senso critico assolutamente fuori del comune. Originalissima l’idea di non trattare del potere istituzionale come hanno fatto Weber, Parsons, Machiavelli, Pareto.

Il potere nel saggio di Katsantonis è analizzato anche da un punto di vista antropologico e psicosessuale. È studiato, per dirla alla Foucault, sia il micropotere (le dinamiche psicologiche per esempio) che il macropotere; inoltre l’autore molto intelligentemente fa capire che per Pasolini  l’immaginario collettivo è già omologato totalmente.

Un’altra caratteristica innovativa del saggio è che altri hanno descritto il masochismo morale freudiano o il masochismo politico (come Bruno Moroncini) in Pasolini, ma Katsantonis come nessun altro riesce a scrivere del sadomaschismo pasoliniano come filosofia, come estetismo, infine come vera ragione di vita. Suo cugino Nico Naldini aveva scritto in  “Come non ci si difende dai ricordi”: “

Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”.

L’opera è densa, ma mai troppo concettosa; è un lavoro accademico, ma che trascende lo specialismo; inoltre non è mai oracolare ed è provvisto di chiarezza espositiva. Il libro è suddiviso in tre capitoli. Nel primo viene accostata Orgia di Pasolini alla filosofia del boudoir di Sade.

Il boudoir è un luogo situato tra il soggiorno e la camera da letto, per intenderci. In tale contesto viene analizzato il corpo come vittima e la corporeità come assoggettata al potere; vengono considerate la dicotomia dolore/piacere, il passaggio dal culto religioso al culto feticista, la donna seduttrice in Sade, la questione femminile nelle opere pasoliniane.

Viene messo in evidenza che per Sade la vera schiavitù è l’accettazione della morale. Per quanto riguarda la questione femminile, per Pasolini le donne sono “vittime e marionette” nelle mani del sistema, ma a livello autoriale probabilmente l’intellettuale trascendeva i suoi limiti come uomo, che amava solo la madre e vedeva nelle altre donne delle rivali troppo emancipate, che gli rubavano i ragazzi di vita: forse nell’intimità Pasolini, come ebbe a dire Dacia Maraini, era moralista con tutti tranne che con sé stesso.

Il capitalismo viene considerato da Pasolini come nuova religione. Viene citata anche  l’ideologia del consumismo, il cosiddetto edonismo neo-laico. Per Pasolini “il sadomaso è soppressione di ogni limite”, andare oltre i propri limiti, cercare di non porseli.

Anatomia del potere ha una grande forza dialettica ed è in grado di far riflettere qualsiasi lettore, anche quello meno creativo. Se forse c’è un discrimine tra sadomaso come patologia e trasgressivo gioco di ruolo nell’ambito della normalità è la conoscenza dei propri limiti e non superarli. Per Pasolini invece il sadomasochismo forse è una via per il martirio.

Non a caso il titolo della tesi di dottorato di Georgios Katsantonis è “Drammaturgia del corpo patetico” pasoliniano. Viene da chiedersi se è lecita la libertà di opprimere o di essere schiavi. Il sadomasochismo per Pasolini è l’unica valvola di sfogo, l’unico modo di avere piacere in questa società.

Katsantonis ottimamente evidenzia la distinzione tra godimento e piacere, sottolineando il sadomasochismo pasoliniano come impasto di Eros e Thanatos. Per Pasolini soffrire significa uscire da sé per poi ritrovarsi. L’autore dà per scontato naturalmente che sia Pasolini che Sade sono dei nichilisti attivi, cioè vogliono distruggere la morale comune e la borghesia perché poi qualcuno in futuro ricrei una nuova società. Il sadomasochismo pasoliniano, come evidenziato nel saggio, è espressione della volontà di potenza neo-capitalistica.

Pasolini vorrebbe andare contro, ma anche lui deve comunque adattarsi alla società. Se per Karl Kraus “le perversioni sono metafore dell’amore” nelle opere di Pasolini il sadomasochismo è al contempo metafora e metonimia del fascismo.

Le pagine di questo libro generano molti dubbi e questo è naturalmente un merito del saggista. Forse uno dei limiti intrinseci di Sade e Pasolini è stato quello di aver dato sfogo a tutte le loro fantasie, di aver detto l’indicibile, di aver rappresentato l’impresentabile, ma a forza di eccessi si sono discostati troppo dalla realtà umana, in cui invece i sadomasochisti comuni si pongono delle restrizioni per disgusto, per morale, per dolore.

In una delle sue lettere alla moglie, Sade scriveva: «Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino».

In Pasolini e in Sade il sadomaso è anaffettivo, non è mai in funzione dell’amare e dell’essere amati, del soddisfare o dell’essere soddisfatti.  Inoltre in Pasolini e in Sade non viene mai pronunciato alcun “I can’t” dagli schiavi, come di fatto in pratica avviene. Viene da chiedersi se si può davvero liberarsi della morale come in Pasolini e in Sade oppure se restano sempre dei residui atavici, magari sotto forma di sensi di colpa.

Tuttavia bisogna ricordare anche che il  sadomasochismo pasoliniano scaturisce dalle limitazioni delle rappresentazioni del sesso all’epoca.  Come scriveva Pasolini in “Le belle bandiere“: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media, per esempio”.

Nel secondo capitolo viene studiato Porcile. Vengono messi in relazione il nazifascismo e il nuovo capitalismo. Non è un caso che i vecchi ex nazisti nel dopoguerra in America vennero messi ai vertici dei servizi segreti.

L’autore descrive il carattere di alterità del protagonista Julian. Spinoza discute con Julian della sua Etica, ma alla fine il filosofo abiura la sua opera perché ha prodotto come umanista il padre del protagonista e come tecnocrate il suo socio. Spinoza ammette che la Ragione è sempre ragione del più forte.

L’autore Georgios Katsantonis

Katsantonis sottolinea che per Pasolini la società capitalistica è un macello per uomini e animali. La domanda che sorge spontanea è quale sia il porcile vero? Quello di Julian o quello della società là fuori? Vengono citati anche Derrida, Deleuzee, Guatari, Artaud e il suo corpo senza organi. Quest’ultimo è un concetto filosofico apparso per la prima volta in Logica del senso di Deleuze, opera del 1969, che ha la sua prima espressione in una performance radiofonica di Antonin Artaud, intitolata “Per farla finita con il giudizio di Dio”.

Il corpo senza organi è il rimosso del corpo, una sorta di ambiente dinamico e informale, un campo di forze in cui si contrappongono tensioni diverse che determinano il desiderio. Il corpo senza organi è, in altre parole, un corpo senza organizzazione e di conseguenza assolutamente libero e fluttuante, eversivo, anti-istituzionale.

Nel terzo capitolo vengono paragonati il Calderón di Pasolini, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Un sogno di Strindberg. Si analizzano la prima Rosaria e l’incesto, la Rosaria prostituta, quella sottoproletaria, la medioborghese, infine quella prigioniera di un lager. La protagonista è succube del Potere: “obbedisce senza essere obbediente” in un ribellismo confuso ed è al contempo un “vaso semivuoto da riempire con il Bene borghese”.

Compare anche Enrique, studente sessantottino, che chiede asilo a casa dei borghesi. L’autore rimarca ancora una volta che tra il corpo e il potere c’è di mezzo un immaginario omologato. Non solo ma viene descritto “il concentrazionamento del mondo” e Katsantonis dimostra tutta la sua cultura citando l’istituzione totale di Goffman, autore conosciuto dai sociologi in Italia più per il suo rituale dell’interazione e per la perdita di faccia.

Bisogna ricordare che nel 1960 anche Bruno Bettellheim nel Prezzo della vita aveva paragonato la società capitalistica ad un sistema totalitario e nel 1964 Paul Goodman in La gioventù assurda aveva paragonato la civiltà dei suoi tempi a una corsa dei topi in una stanza chiusa.

Ma perché Pasolini vedeva nel neo-capitalismo un inferno terreno? Una coscienza politica non era possibile perché la televisione aveva imposto l’ideologia del consumo. Ciò che preoccupava Pasolini non era il centralismo dello stato né le istituzioni repressive ma il neolaicismo imperante e il nuovo edonismo propinato dai mass media.

Lo scrittore friulano aveva già capito che la televisione era un agente di socializzazione, capace di influenzare con i suoi messaggi le idee delle persone e dunque era anche la causa primaria dell’omologazione, grazie a cui il potere produceva una standardizzazione dell’immaginario. I giovani di borgata avevano iniziato a vestirsi, a comportarsi e a pensare come “i figli di papà”: non era più possibile distinguere un proletario da un borghese oppure un comunista da un fascista.

Tutto questo era frutto della “mutazione antropologica”, termine preso a prestito dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata prima dalla variazione e quindi dalla fissazione di alcuni caratteri. Nel caso della “mutazione antropologica” la variazione delle mode e degli stili di vita era decisa nei consigli di amministrazione delle reti televisive e poi fissata con i messaggi subliminali della pubblicità.

Pasolini sapeva perfettamente che i codici imposti dalla televisione diventavano subito comportamenti collettivi. La sottocultura di massa diventava interclassista. Tutti aspiravano agli stessi status symbol. Non si trattava più di appagare semplicemente dei desideri, il nuovo uomo di massa doveva soddisfare dei falsi bisogni. I disvalori del consumismo nel giro di pochi anni impoveriranno l’Italia.

Già allora stavano scomparendo le tradizioni di un tempo e non esistevano più le classi sociali. Tutti ormai erano diventati piccolo-borghesi.  Infine è creativo davvero l’accostamento in Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg nel ritenere la nascita una colpa.

Dopo la lettura di questo eccellente e acuto saggio ci si domanda se Pasolini, il quale considerava il potere come dominatore del corpo e della sessualità, se avesse ragione Marcuse con la sua teoria della desublimazione repressiva: il potere che concede libertà sessuale per ridurre le probabilità di critica e rivoluzione.

Anatomia del potere è una lettura doverosa per pasoliniani e profani, per comprendere meglio anche il nostro tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

‘Il crepuscolo del sogno’: atmosfere oniriche e suggestioni nel nuovo libro di Costanza Marana

Il crepuscolo del sogno, pubblicato da Erudita Editore, è il nuovo libro di Costanza Marana.

Classe 1978, Costanza Marana è nata nella città dal respiro eterno, Roma, ha vissuto nell’eterogeneità e nella contraddizione che la accompagnano. Seconda patria, Firenze, dove l’armonia primigenia e composta conserva l’animula, vagula, blandula di sua nonna.

Ha conseguito dapprima una laurea  in scienze politiche con indirizzo storico, concludendo con una tesi concernente la tematica delle aspettative di ruolo. L’attesa e la coscienza di formare un’identità e un’individualità hanno orientato i suoi interessi verso una laurea magistrale in storia medievale e moderna.

La sensazione di sentirsi inserita in un continuum con la memoria e in continua dialettica con il passato l’ha portata ad eseguire un lavoro storiografico su alcuni carteggi di metà del seicento, ricostruendo la vita della duchessa Giovanna della Tolfa Frangipane Orsini attraverso il suo stilema, il suo respiro tra una parola e l’altra, la sua punteggiatura emotiva.

In seguito alla pubblicazione di questa ricerca in una miscellanea (“Papa Benedetto XIII Orsini. Studi e testi.”, Adda editore, 2017) avente ad oggetto il personaggio di papa Benedetto XIII Orsini, ha collaborato con alcune riviste di settore storico-artistico.

La storia e la letteratura si compenetrano e ogni storico ha un suo impianto immaginifico. La tensione costante che anima la scrittrice, l’ha portata a scrivere un manoscritto di narrativa, intitolato “Rêverie di una vita in terza persona”, pubblicato dall’Erudita Editore (2020).

Un testo in cui la protagonista, abbandonandosi allo stato precosciente della Rêverie, si affranca dall’ordine del tempo e ritrova la sua tonalità primaria costruendo un sistema di pensiero ideale. Il romanzo “Il crepuscolo del sogno” è animato dalla stessa tensione, costante e vitale che cerca di contrastare i compromessi della contingenza dell’esistenza, seppur, in questa seconda opera, il legame con il reale è molto più sentito, stimato e assecondato.

Dopo il primo libro Rêverie di una vita in terza persona uscito lo scorso anno, sempre per Erudita Editore.  Costanza Marana torna sul panorama editoriale con Il crepuscolo del sogno

Il crepuscolo del sogno: Sinossi

Il crepuscolo del sogno- Copertina

Era una di quelle giornate in cui il sole appariva severo, senza amore. Si mostrava in cielo, offuscato da una piccola coltre, che ne spegneva l’ardore. Si poteva scorgere l’ombra di Fetonte, impossessatosi del carro di Apollo, che, accecato dalla vanagloria, cadeva e giaceva al suolo, senza il perdono della luce. Aurelian guardava dalla sua finestra. Lo faceva ogni mattina, alla stessa ora, come fosse la prima volta. Un rituale ossessivo in cui egli si consacrava terreno, terrestre.
Compulsivamente, dava uno sguardo al palazzo di fronte e, tra i lembi di tende, rubava gli inizi e i risvegli delle persone. Come il vecchio maresciallo vedovo che non conosceva il risveglio poiché non conosceva l’abbandono. Viveva in uno stato di veglia costante, in cui la notte e il giorno erano privi d’identità. Oppure la sposa fanciulla che mai girava il capo, senza volto, senza espressione, della quale solo la nuca poteva scorgersi, con una lunga treccia composta, rigida, immobile

 

Il crepuscolo del sogno descrive l’orma di una vita, contemplata nelle sue suggestioni, nei suoi meccanismi inconsci e automatismi, profusi nel contesto reale.

Ad Arles, “ove Rodano stagna”, cellula, esistente e allo stesso tempo immaginaria, dell’iter narrativo, si compone il selciato percorso da Aurelian. Nella rappresentazione simbolica del testo il vero protagonista rimane il manto argenteo del Rodano. Dalla bocca alle sue foci, esso costituisce rifugio e antro di un altro universo parallelo, dove vige la legge del mondo delle acque, ingannevoli, senza memoria e senza tempo.

L’esistenza di Aurelian si rivela nel contesto familiare, in quello sentimentale e nei rapporti d’amicizia; nel perdersi nel Creato, militando nell’imbrunire, perseguendo, affiancandola alla realtà, una causa immaginaria. Al medesimo tempo si sovrappone la realtà della tenerezza e del grottesco dei sentimenti vissuti negli aspetti più concreti, in cui all’affetto per l’estrema delicatezza di una donna, Adele, corrisponde la volontà di autocondannarsi a “un sorriso di chi nasconde”, Ambre.

Aurelian filtra ogni aspetto della vita con l’intelletto. Egli prende consapevolezza del Bene e del Male attraverso l’arte, contemplando il giudizio universale della cattedrale di Saint Trophime, battezzato alla religione dell’infinito sul ponte di St. Bénézet. Egli stesso vuole far parte del giogo simbolico come nell’attimo in cui si ferma ad ascoltare il canto languido di Titone oppure si ammanta del giallo isterico della pittura di Van Gogh. Lo scenario è mobile: una piattaforma onirica; la Camargue immersa in una nuvola rosa di fenicotteri; una locanda-teatro in cui si rappresenta il paradosso della vita.

Ad Arles, “ove Rodano stagna”, cellula, esistente e allo stesso tempo immaginaria, dell’iter narrativo, si compone il selciato percorso da Aurelian. La sua esistenza si rivela nel contesto familiare, in quello sentimentale e nei rapporti d’amicizia. Lo scenario è mobile: una piattaforma onirica; la Camargue immersa in una nuvola rosa di fenicotteri; una locanda-teatro in cui si rappresenta il paradosso della vita.

Nel contesto narrativo organico, reale e immaginario si compenetrano in uno stilema quotidiano che associa e rimanda a riferimenti culturali, letterari e artistici, immergendo i vari personaggi nell’eterogeneità delle vicissitudini.

“Ho scritto Il crepuscolo del sogno perché credo nella continuità dell’idea di letteratura e scrittura che propongo fondata sulla ricerca della bellezza e della poesia nelle malie del quotidiano, edificata sul potenziale immaginario, non esclusivamente autoreferenziale, e che consideri la memoria e il passato poiché tutti noi siamo parte di un continuum – ha dichiarato l’autrice Costanza Marana.

Provengo da studi di storia medievale e moderna e da un’esperienza nell’ambito letterario-scientifico e credo profondamente nel connubio tra letteratura e storia poiché l’astrazione e l’immaginazione fanno parte del tessuto reale. Il libro è nato al crepuscolo. In quel momento che succede al tramonto in cui la luce è incerta che io amo chiamare insulare poiché si può percepire vivo il contatto con la parte più intima di noi stessi, il nostro inconscio, il nostro pensiero. Il significato del mio libro è racchiuso nella parola ‘tensione’. La tensione verso la propria tonalità primaria. Il rapporto tra la finitezza dell’uomo e il creato che lo circonda, il rapporto tra la contingenza e ciò che è eternabile”.

Da lettrice Costanza Marana ha sempre creduto nel potenziale visivo della lettura e lo si percepisce nitidamente anche quando indossa le vesti di scrittrice.

Leggere è entrare in un’atmosfera e nell’esperienza di autrice, attraverso lo scambio con i lettori, ha creato un circolo virtuoso, un gioco di rimandi, accedendo, insieme, a quel piccolo mondo antico che descrive la poetica del quotidiano.

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‘Cella’, i rapporti ossessivi secondo Gilda Policastro

“Cella” (Marsilio, 2015) di Gilda Policastro implica prima di tutto una riflessione attenta sul linguaggio, sulla narrazione, sulla struttura del libro.

In poesia recentemente l’ italianista si è distinta per le eavesdropping da cui ha ricavato le cosiddette “epifanie del quotidiano”. Allo stesso tempo la sua poesia è poesia di ricerca e un nuovo tipo di poesia aforistica.

Perché il titolo “Cella”? La protagonista a tale riguardo così si è espressa: “Perché mi chiamano Cella, chiedo al cane. Forse perché sto chiusa in casa, perché non vado al di là del cancello, tranne che per la spesa, le necessità. O forse perché amo un uomo che in cella, in effetti, dovrebbe finirci, anche se nessuno ha ancora trovato il modo. La colpa non coincide con la punizione quasi mai. Sarebbe bello se la sofferenza avesse quel risarcimento. Lui mi ha lasciata e ora paga. Invece a rimanere dentro, sconfitta, sono io. Cella».

In verità come afferma Giulio Mozzi il romanzo può essere interpretato in vari modi: 1) come la storia di una donna sottomessa ad un medico potente. L’intera storia è lo sfruttamento sessuale di questa donna 2) come il racconto di una ex brigatista, che viene curata dal medico. La storia tratta della competizione con un’altra donna, ovvero l’amante ufficiale del dottore. Gilda Policastro ha dichiarato nell’intervista a Mozzi che i brani attribuibili con certezza all’ex brigatista sono stati scritti anni prima rispetto al resto del romanzo 3) come la storia di una donna, inventata da Giovanni Principe, amante della protagonista.

Il risvolto di copertina descrive il romanzo secondo la prima interpretazione. La Policastro gioca con il lettore e con i critici. L’io narrante non fa altro che aprire e chiudere parentesi, saltare da una età all’altra o da un luogo all’altro. Si perde in digressioni, in flashback impietosi, in aneddoti. Tutto questo va a costituire il suo vissuto. Non le importa sapere se la sua storia interesserà qualcuno oppure no. Non le importa sapere se ciò può essere più o meno insignificante. Vuole comunque raccontarsi, anche se forse è bugiarda. Forse alcune bugie le dice a fin di bene, cioè per stare meglio con sé stessa. Ma non è questo l’importante.

L’importante è il senso complessivo del suo racconto, il quale, frase dopo frase ci confessa che dal suo quotidiano scaturiscono noia e mancanza dell’amato. La donna ci racconta che è stata torturata sia dalla vita che dai suoi amanti. Con questo romanzo la Policastro ha analizzato le dinamiche psicologiche che sottostanno ad un particolare tipo di relazione di tipo sadomasochista.

Il sadomasochismo non è fisico (se così fosse il dolore sarebbe anche l’anticamera del piacere e ci sarebbe almeno un rilascio di endorfine da parte della sottomessa). L’amante è un sadico dal punto di vista psicologico. Potremmo classificarlo come un narcisista perverso. Non prova empatia per gli altri, che tratta come oggetti.

La Policastro tratta del sesso, ma non ne è ossessionata come molte altre scrittrici odierne, né affronta questo tema per vendere di più, secondo il modello delle tre s (sesso, sangue, soldi), né ammiccando al mercato, ai mass media. L’autrice non brama un posto nei talk-show.

La scrittrice non può esimersi dalla descrizione dei rapporti sessuali per far capire al lettore il tipo di relazione instaurato tra la protagonista e il medico. Quello che interessa mettere in luce alla Policastro forse è la forma di potere che viene esercitato sulla “reclusa”. Il sesso è solo uno degli aspetti per porre l’accento sul rapporto ossessivo che lega i due.

La protagonista è asessuata e allo stesso tempo anaffettiva. Per lei sua figlia è un’estranea. La donna è dipendente dal suo amante. La Policastro qui non si lascia mai prendere dal sentimentalismo, memore della lezione sanguinetiana sull’eccesso di effusioni nella letteratura moderna. La scrittrice non sarà mai una Liala postmoderna, in quanto non rientra certamente tra quelle che vengono definite “pornoromantiche”.

Non è infatti mai pornografica e neanche romantica. La sua reclusa non è una patita del sesso né del sadomaso. La protagonista non vorrebbe una relazione come quella. Non ha un bisogno inconscio di essere punita. Non prova piacere nel dolore fisico e neanche si compiace della sua sofferenza. Semplicemente sopporta tutto perché non ha avuto ottimi esempi da parte dei genitori. Suo padre è stato un “tiranno buono”. Ha lasciato la moglie. Si è indebitato per comprare una villetta. Sua madre ha lasciato fare, pur sapendo che il dentista presso cui lavorava la figlia le metteva continuamente le mani addosso.

Per dirla alla Jung il suo è un caso di ombra rimossa. Non riesce in questo senso a lavorare sul suo passato e neanche sulla sua parte oscura. La protagonista non riesce, nonostante gli sforzi, mai ad affrontare veramente sé stessa. Una vera relazione sadomaso per essere tale implica il consenso da parte di entrambi. Qui la vittima è obbligata alla sottomissione per fare in modo di non perdere l’amato ed è costretta a sottostare ai rituali di sottomissione e ai codici di autorità. Il suo amante vuole il controllo.

Non è un caso che quando la scrittrice descrive una delle sessioni di sesso estremo con il professore (non con il medico, suo amato) in realtà descrive soprattutto il doppio legame, cioè i messaggi contraddittori e l’ostilità del professore. Ancora una volta il senso di questa descrizione è quella che gli psicologi chiamano “la falsa autorità” insita nel doppio legame di Bateson.

I messaggi contraddittori generano incongruenza interna: sono dei cosiddetti “inquinanti” della psiche. Per Bateson esistono due modalità di comunicazione verbale: il discorso vivente ed il discorso morente. Il discorso vivente è caratterizzato da relazioni sociali autentiche, partecipazione attiva, reciproca comprensione. Nel discorso morente invece il linguaggio è imposto ed ogni partecipante è controllato e controllante. Il discorso morente crea un clima ricattatorio ed ostile.

Questo tipo di linguaggio porta all’abuso delle persone. Il discorso morente significa potere, controllo, obbedienza, prevaricazione. Il dito viene sempre messo nella piaga. Le critiche sono fatte ad arte per far perdere fiducia alla vittima. L’obiettivo a lungo termine in molti casi è quello di distruggere l’identità altrui. In questi caso c’è solo discorso morente ed alla protagonista non resta altro che subire. Lo psicologo del lavoro Spaltro, scrisse in un suo libro che “il conflitto non è una patologia relazionale, ma è la relazione in se stessa”.

In fondo la psiche può molto. La psiche può molto (sia nel bene che nel male). È statisticamente provato ad esempio che muoiono meno persone per le festività rispetto agli altri giorni ed anche che ci sono meno viaggiatori durante i disastri aerei o ferroviari (sesto senso? Forse. Ci sono comunque in quei giorni più persone che perdono il treno o l’aereo). Questi sono casi in cui la psiche è determinante nel bene.

Ma può avvenire anche il contrario. La psiche può molto anche nel male. In questo romanzo tutti fanno del male psicologicamente alla protagonista, che però commette un peccato comune a molti attualmente: quello di perdere la sua individualità e la sua autostima per raggiungere una parvenza di amore. Lo stesso Freud a riguardo scriveva che “l’amore è il passo più vicino alla psicosi”.

La Policastro fa dire al suo personaggio principale che “l’amore è sofferenza”. Infatti in questo caso è anche rinuncia, umiliazione, abbandono, perdita. Anche il linguaggio può molto. Esistono le terapie della parola. La parola può anche essere un’arma.

Probabilmente Gilda Policastro vuole descrivere questo particolare tipo di relazione ossessiva per evidenziare la conflittualità inevitabile presente in ogni relazione amorosa e il sadomaso diviene solo uno specchietto per le allodole, e magari portarci nell’inferno della comunicazione. La sua forse è una catabasi della parola e della relazione umana.

La stessa autrice ha dichiarato che voleva raffigurare l’amore come una prigionia. Inoltre la comparsa della brigatista rossa non è un modo per trattare della rivoluzione mancata o della resistenza tradita, ma è un espediente per sottolineare ancora una volta le conseguenze estreme di un rapporto ossessivo. Senza ombra di dubbio il legame tra la protagonista e il medico non può essere considerato una risorsa relazionale. Il medico è un donnaiolo impenitente, che usa e getta le sue amanti.

Quando si accorge di essere amato ecco allora che abbandona la donna.

Cella è anche il racconto di un corpo sottomesso, sfruttato e umiliato. Alla Policastro è sempre interessato il tema della corporeità. Ogni vita in fondo è storia di un corpo, dalla sua nascita al suo declino inarrestabile.

La scrittrice inoltre descrive anche il rapporto tra la “reclusa” e la figlia, che si potrebbe sintetizzare ricordando con le sue stesse parole che il dovere di una madre è quello di tacere e sopportare. Molto realistica è la descrizione degli adolescenti dei giorni nostri, che si filmano in ogni momento ed in ogni cosa che fanno. Molto divertente e parodistico è l’utilizzo da parte della protagonista del linguaggio psicologico.

La Policastro si avvale dell’uso del monologo interiore continuo, di un flusso di coscienza intriso di psicosi e psicologismi. È la storia di un soggetto senza nome e allo stesso tempo del sacrificio di una donna.

Gilda Policastro potrebbe anche scrivere un romanzo senza trama ed essere ugualmente avvincente. Ogni sua parola è ponderata. Il suo è un romanzo sperimentale e per nulla commerciale.

 

‘Recisioni e suture’, il melodramma in versi di Giuseppe Castrillo

“Recisioni e suture” è una raccolta di poesie scritte da Giuseppe Castrillo, docente di Lettere italiane e latine, originario di Pietravairano (Caserta), dove ha vissuto quasi ininterrottamente per più di cinquant’anni e, attualmente, residente a Piedimonte Matese (sempre in provincia di Caserta).

Si tratta di una raccolta di versi che diventano incontri, ricordi e sensazioni di diversi momenti della vita, rimpianti e dolori che attraversano il corpo e i pensieri, ma sempre tendenti alla ricerca di una nuova meta, una pace interiore. Tagli che vengono ricuciti – come suggerisce il titolo dell’opera – per favorirne la cicatrizzazione.

E proprio riguardo al nome dato alla raccolta delle liriche, pubblicata nella collana “I Diamanti” della Aletti editore, l’autore confessa che il titolo «è frutto del legame con suo padre che è stato per più di quarant’anni medico condotto, come si diceva un tempo».  «Credo infatti – precisa Castrillo – che la vita, a volte, sia un’operazione chirurgica: qualcuno e qualcosa vengono recisi dal proprio cuore, dalla propria mente, ma poi il ricordo e la memoria suturano le ferite e fanno riaffiorare quelle persone, quei fatti, quelle cose che furono recisi, tagliati, asportati».

La poesia diventa, allora, il culmine di un percorso passato dalla lettura dei fumetti ai classici e alla narrativa, plasmato, poi, nella scrittura di saggi critici e poetici. Un “taccuino del trito sentire” – come recita il sottotitolo del libro. «Per me – racconta l’autore – è un gioco di memoria, di raccolta di luoghi visti e ripresi, di persone abbondonate dentro di me e riportate in vita.

La poesia mi viene incontro come una compagna che non cerco, un ospite inatteso con i quali comincio una conversazione che non vorrei mai interrompere, di cui ho bisogno perché volendo parlare sempre più di rado con le persone fisiche. Grazie alla poesia parlo con le cose che vedo e che ricordo di aver visto, con i paesaggi e con chi mi appartiene».

Nella sua prefazione Cosimo Damiano Damato parla della raccolta dei versi come di un «melodramma napoletano», dove ogni addio, ogni esplosione di libertà, ogni perdizione, pentimento e la morte, come ultima fotografia da scattare, vengono scattati «con gli occhi, occhi meridionali, occhi capaci di cantare come solo gli occhi napoletani sono capaci di tanto melodramma epico e per sempre».

Un continuo susseguirsi di luoghi e memorie, che si alternano e formano il vissuto. «La mia raccolta – afferma Castrillo – è stata scritta ascoltando l’invito/ammonizione di Montale: “Non recidere forbice quel volto”, evitando che i segmenti del tempo di una vita cadano nel fango. Per me  il “tagliare e ricucire” è non solo la metafora della vita, ma la lezione del vivere: in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Io aggiungerei al “si trasforma” di Lavoisier tutto si reintegra, tutto si riplasma».

‘La Commedia secondo Dante’ di Chiara Donà: un approccio inedito al Sommo Poeta

La Commedia secondo Dante, edito da Il Prato, è il nuovo libro di Chiara Donà.

Allieva di Giorgio Padoan, Donà ritorna con questo libro alla prima passione: gli studi danteschi. Attiva da oltre vent’anni nel mondo della cultura, lavora alla valoriz­zazione del patrimonio storico e linguistico del proprio territorio. Ha pubblicato, sempre per Il Prato, Spero di venire a casa al tempo del vino nuovo. Pietro Donà da Sambruson alla Grande Guerra. Lettere e Diari (2018).

Chiara Donà, grande appassionata ed estimatrice del Sommo Poeta e del Suo Poema si riaffaccia sul panorama editoriale. La Commedia secondo Dante è proprio il frutto di questa passione. A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, la scrittrice con il suo libro offre nuovi spunti di riflessioni e  inedite chiavi di lettura, che senz’altro arricchiranno il nutrito patrimonio  della critica dantesca.

La Commedia secondo Dante: Sinossi

La Commedia secondo Dante- Copertina del Libro

La Commedia Secondo Dante, uscito nel 2021, per la collana Letterature,  è corredato dalla prefazione del Professore Giuseppe Ledda.

 

La critica dantesca italiana degli ultimi due secoli ha visto un dominio della cultura laica, che ha generato dapprima la
lettura romantica e quella patriottica risorgimentale, poi nel Novecento quella estetica e quella stilistica, attente principalmente ai valori formali del testo poetico, a cui si aggiunse nel dopoguerra una forte tendenza “realistica”. La dimensione religiosa della poesia di Dante è stata sostanzialmente ignorata e trascurata nonostante le geniali e seminali intuizioni di Foscolo. Più che negata, nella critica novecentesca
essa veniva rimossa e marginalizzata in quella che veniva considerata crocianamente la struttura del poema oppure in
ciò che storicisticamente si considerava il contesto culturale in cui Dante era immerso.                                                                               

Dante è ovviamente un poeta cristiano, ma questo sarebbe solo un dato di partenza obbligato, un’identità originaria non suscettibile di valutazione o di interpretazione, mentre la sua poesia, la sua originalità e il suo messaggio starebbero altrove. Nel corso del Novecento si incontrano le luminose eccezioni di alcuni grandi maestri che hanno saputo prendere sul serio e approfondire la complessità della dimensione religiosa e di quella visionaria della poesia dantesca. Oltre a grandi dantisti stranieri come Auerbach e Singleton, fra gli studiosi italiani paiono particolarmente rilevanti, pur con accenti e interessi fra loro assai diversi, le figure di Bruno Nardi, Ezio Raimondi, Nicolò Mineo, Giorgio Padoan.

Lontano dall’approccio didascalico, letterario o estetico di tanti studi, questo piccolo libro ha il grande pregio di restituire alla Commedia l’interpretazione che Dante stesso ci ha fornito della propria opera.

Partendo direttamente dai testi, dalle fonti, con un approccio di tipo storico, l’autrice punta i riflettori sulla pregnanza, sulla “carica esplosiva” di un’opera troppo spesso ridotta a pura finzione letteraria e arriva a degli esiti che sono a dir poco sorprendenti.

Dante, infatti, rivendica in tantissime occasioni la veridicità letterale del proprio racconto che assume così un’altissima connotazione spirituale e visionaria. L’autore non applica alla sua opera maggiore gli schemi dell’allegoria poetica, bensì la pone sullo stesso piano delle Sacre Scritture.

E dedicando il Paradiso a Cangrande della Scala, signore di Verona, egli non parla di un viaggio immaginario, frutto della fantasia, anzi, lo propone come il frutto di un rapimento” mistico, realmente avvenuto, vissuto col corpo oltre che nello spirito.

Paragona la propria esperienza a quella concessa dalla Grazia divina a san Paolo, a Ezechiele, a Nabuccodonosor, all’estasi che troviamo descritta nei trattati di sant’Agostino, di san Bernardo, di Riccardo da San Vittore (Ep. XIII).

Emerge, allora, potente, tutto l’ardire dantesco.

Il clima generale di forte attesa escatologica e le dolorose vicende personali dell’esilio forniscono poi le coordinate storiche entro cui collocare le precise indicazioni di Dante, che si andava via via identificando con il poeta-vate, con il profeta ispirato. Ciò non vuole significare che l’approccio mistico debba essere l’unica chiave di lettura da applicare al poema né tanto meno sostenere che il viaggio dantesco attraverso i tre regni ultraterreni sia realmente avvenuto.

La vocazione poetica rimane in Dante sempre fortissima ed egli dimostra una consapevolezza e un orgoglio delle proprie capacità creative del tutto assenti negli uomini contemplativi: è in qualità di poeta, anzi di poeta incoronato, che egli sperava di rientrare a Firenze.

Cos’è allora la Commedia secondo Dante?  Bene la descrivono le parole di Paradiso XXV: è il “Poema Sacro al quale ha posto mano e Cielo e terra”.

“La forte personalità dell’autore e il valore monumentale della sua opera maggiore ci appaiono spesso lontane e inaffrontabili e la scuola non sempre aiuta ad avvicinare e ad amare questo ‘mostro’ della letteratura italiana – ha dichiarato Chiara Donà.

Ad accendere in me la scintilla è stato un grande maestro di vita oltre che di studi: il professor Giorgio Padoan, dantista eccellente, prematuramente scomparso nel 1999 e a cui ho voluto dedicare questo mio lavoro proprio nel 7° centenario della morte di Dante.                 

Da lui ho imparato a partire dai testi, dalle fonti, dal contesto storico e culturale in cui il Poeta operava. Questo approccio mi ha consentito di riportare alla luce un Dante inedito, una Commedia dalla straordinaria e arditissima forza spirituale e visionaria”.

Nel mare magnum dei libri che riguardano Dante, alla scrittrice è sembrato sensato, non senza trepidazione, raccogliere in un piccolo volume il risultato dei suoi studi per due motivi. Prima di tutto restituire alla Commedia l’interpretazione che Dante stesso ci ha fornito della propria opera, il valore poetico e profetico, letterario e mistico che è egli venuto via via ad attribuirle.

In secondo luogo aprire questo nuovo squarcio interpretativo a un vasto pubblico di lettori, ovvero, far uscire il dibattito dagli ambienti accademici in modo che tutti possano apprezzare pienamente il profondo significato di una Commedia per troppo tempo “evirata” della sua vis sacra.

 

https://ilprato.com/libro/la-commedia-secondo-dante/

 

“La legge del cuore” di Claudia Conte, una storia di mafia e legalità da far leggere in tutte le scuole

Dopo aver conseguito la maturità classica e il diploma teatrale, la giovane Claudia Conte segue corsi e seminari di Recitazione Cinematografica in Italia (Metodo Costa e Stanislavskij) e alla New York Film Academy (Metodo Strasberg). Consegue la Laurea Magistrale in Giurisprudenza. Nonostante la giovane età ha alle spalle tournée teatrali con testi classici e teatro sacro.

Claudia Conte ha preso parte a fiction televisive e film per il cinema.

La scrittrice possiede un forte spirito imprenditoriale, che la porta a costituire “Far from Shallow”, società di organizzazione e produzione di eventi esg di cui è amministratore unico. È producer e volto di Women in Cinema Award, premio internazionale patrocinato dal Ministero della cultura.

Appassionata di scrittura, ha pubblicato la silloge “Frammenti rubati al Destino”, il romanzo “Soffi Vitali. Quando il cuore ricomincia a battere” e il saggio-romanzo “Il vino e le rose. L’eterna sfida tra il bene e il male” per Armando Curcio Editore.

Claudia Conte è stata l’autrice più giovane ad aver presentato un’opera al Salone Internazionale del libro di Torino. Nel dicembre 2021 è di nuovo in libreria con “La legge del cuore”, storia di mafia per Armando Curcio Editore in occasione delle celebrazioni dei trent’anni dalla strage di Capaci con la prefazione del Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero De Raho.

Tra gli innumerevoli riconoscimenti ricevuti per il suo impegno in campo culturale, l’”Oscar dei Giovani” in Campidoglio, il Premio Eccellenze Italiane in Senato.

La legge del cuore si svolge durante un trentennio ed ha come protagonisti le vite di due bambini del Sud: Domenico, nato a Magalo, che raccoglie i pomodori e a cui muoiono  la madre e un amico in tenera età,  e Vito, nato nel quartiere Zen di Palermo, a cui muore il padre. Vito viene mantenuto agli studi da un boss mafioso.

Domenico diventa un magistrato e Vito un commissario di polizia. Si susseguono i colpi di scena. L’opera è ben architettata, e congegnata;  l’autrice sa mescolare sapientemente realtà e fantasia. Queste pagine intense ci ricordano che ognuno può essere ricattato, ognuno ha un punto debole e poi come fa dire ad un personaggio la scrittrice spesso “la vita è stronza”, ovvero si fa ingarbugliata o addirittura rivela il suo lato oscuro.

È bene non anticipare il finale, che è a sorpresa. Si può solo scrivere che il boss mafioso vuole che venga onorato il debito da Vito. Il boss, ovvero Don Angelo, vuole un’informazione riservatissima, ovvero vuole sapere la data, l’orario, il tragitto della scorta. C’è bisogno di un libro così in un’Italia in cui il malaffare imperversa, gli imprenditori si adattano (volenti o nolenti), la corruzione diventa la regola e la legalità l’eccezione. Siamo vittime tutti di antichi retaggi?

Quali e quanti sono i burattinai? Cantava anni fa De Gregorilegalizzare la mafia sarà la regola del duemila”. Eppure il circo mediatico giudiziario e l’opinione pubblica si occupano d’altro. Sarà forse per il mimetismo dei cosiddetti uomini d’onore? Eppure la guerra esiste tra Stato e antistato.

Ci sono uffici bunker dei magistrati e ville bunker dei mafiosi, con tanto di telecamere e picciotti a fare da vedette per controllare tutto e tutti. Leggendo questo bel libro viene da chiedersi se la “mafia è patologia del potere”, come scriveva Giovanni Falcone oppure se è un epifenomeno del capitalismo, come secondo alcuni marxisti. In questo romanzo Claudia Conte rende bene l’idea dei soprusi e delle prevaricazioni esistenti in Italia. Però non si può condannare a prescindere purtroppo. Bisogna anche cercare di capire e mettere in conto “il disagio sociale” presente in Italia di cui parla l’onorevole Caterina Chinnici nella prefazione.

Come ben descritto da Claudia Conte i mafiosi hanno le mani in pasta dappertutto o quasi e le loro contraddizioni spesso sono le stesse o simili alle nostre. Sono in prima fila alle processioni. Sono sempre temuti e rispettati. Sono sempre più uomini d’affari. Sono disposti a tutto per la famiglia. Sono ormai degli eroi negativi. Fanno parte di un sistema. Sono false identità alla frontiera. Sono il possesso illegale d’armi. Si arricchivano con  il cemento depotenziato. Erano la lupara.

Oggi possono essere  il tritolo. Sono l’intimidazione e l’estorsione. Odiano pentiti e testimoni. Odiano giudici e giornalisti. Hanno prestanome incensurati. Mantengono le famiglie dei carcerati. Risolvono pure le controversie. Gestiscono ospedali e ospizi. Ridono quando vengono arrestati. Comandano anche dalla prigione o latitanti dalle loro tane. Credono ciecamente nei santi, ma anche nel codice cavalleresco. Sono dappertutto. Sono ovunque. La paura chiude occhi e bocche.

Le mafie compenetrano lo Stato. Questa è una guerra secolare, ma qui quasi tutti parlano d’altro. Sono pochi i sopravvissuti e molti i morti e gli scomparsi. Ecco in estrema sintesi chi sono i mafiosi, riflettendo su questo avvincente e scorrevole romanzo da far leggere in tutte le scuole. La  tematica trattata è importante, di capitale importanza per l’Italia e suscita nella mente di ogni lettore degli interrogativi incessanti.

Alcuni servitori dello Stato sono costretti a vivere sotto scorta e a spostarsi con auto blindate. Molti sanno e non parlano perché hanno paura di ritorsioni, di rimanere uccisi. Fino a qualche decennio fa molti sostenevano addirittura che la mafia non esistesse. Ma anche dire che tutto è mafia in fin dei conti è puro disfattismo. Nessuno sa come e perché siano nate le mafie. Nessuno sa con certezza se le mafie siano state determinate dalla povertà, dal familismo amorale, dal fatto che ognuno tiene famiglia, dallo scarso civismo oppure no. C’è chi dice che la mafia sia dovuta alla particolare storia del Sud: ad una pessima unità d’Italia, alla repressione del brigantaggio (anche se diversi studiosi tendono ad escluderlo oggi).

C’è chi dice che la mafia si respiri come l’aria. C’è chi dice che sia stata causata dalla mancanza di acqua. C’è chi dice che tutto nasca dai gabellotti. C’è chi dice che la colpa è dello Stato che è assente e latita. Nessuno sa con certezza. Molti studiosi hanno fatto molteplici ipotesi e dato le più svariate interpretazioni. Una cosa che bisogna tener presente è che i cosiddetti uomini d’onore non sono mostri di malvagità. Non sono assolutamente altro da noi. Non sono un corpo estraneo.

Se non teniamo presente ciò non andiamo da nessuna parte. I cosiddetti uomini d’onore hanno solo una mentalità differente, una storia differente e compiono azioni differenti, credono in valori diversi, rispettano regole diverse. Ma sono uomini come noi. Nella loro testa conciliano codice cavalleresco (Osso, Mastrosso, Carcagnosso) e imprenditorialità spregiudicata.

Nell’immaginario di alcune persone i mafiosi un tempo difendevano i più deboli e rispettavano le mogli. Molti uomini di onore ancora oggi pregano ed hanno fede, nonostante fin dalla tenera età siano stati abituati a trasgredire le leggi dello Stato.

Fin dalla giovinezza sono costretti a crescere in fretta, ad estorcere denaro, a rapinare, a rubare, a spacciare ed altro. Alcuni diventano mafiosi perché si ritrovano disoccupati. Se ci fosse meno disoccupazione nel Sud saremmo già a più di metà dell’opera! Ma che dire comunque di chi nasce mafioso? Quanto è difficile dire no alla mafia per loro?

In fondo vorrebbe significare dire no ad un sistema che ha dato e riesce a dare da mangiare alle loro famiglie. Vorrebbe significare rinnegare tutti i propri famigliari. Pochi riescono a pentirsi. Come fanno a ribellarsi se hanno ricevuto una certa educazione e se appartengono ad un determinato contesto? Alcuni allora compiono azioni illegali e nonostante ciò vorrebbero avere un cuore puro. Vorrebbero cambiare, ma la loro vita procede per inerzia. Dire no alla mafia vorrebbe dire sfuggire ai propri amici che vorrebbero uccidere i pentiti.

In genere i mafiosi sono amorevoli padri di famiglia e premurosi mariti. Se non si prende in considerazione anche questo aspetto non si può capire il consenso sociale di cui godono le mafie. Che cosa può spezzare questa catena? Apparentemente niente sembra efficace. Forse bisogna sperare che domani i mafiosi riescano a riciclare tutto il denaro (pecunia non olet...dicevano gli antichi) e diventino a tutti gli effetti imprenditori, che rifiuteranno di usare i loro antichi metodi?

Dobbiamo davvero sperare in questo? Sarebbe giusto forse per coloro che sono sempre stati onesti? Forse bisogna considerare l’antropologia e la psicologia, che ci insegnano la debolezza umana, lo spirito di autoconservazione, ma dobbiamo considerare a tutti i costi non solo l’essere ma anche il dover essere,  ovvero l’etica e la legge.

Probabilmente la risposta è più semplice di quella che possiamo immaginare e scaturisce immediata senza starsi a lambiccare il cervello: quasi tutti sappiamo distinguere il bene dal male e quasi tutti possiamo cercare di agire di conseguenza. Forse bisognerebbe cercare dentro di noi semplicemente e partire dalla “legge del cuore” di cui parla Claudia Conte e cercare di approdare alla verità umana. Solo allora si ritroverà il significato della parola eroe.

 

 

“Racconti di storie irrilevanti”, l’essere se stessi secondo Matteo Deraco

Lo scrittore romano classe 1984 Matteo Deraco, con la raccolta Racconti di storie irrilevanti, EditLab edizioni (realtà editoriale che promuove l’interattività), 2020, si misura con una scrittura cinematografica, che è stata sua materia di studio. Il desiderio di essere se stessi e di dare il ben servito alle convenzione, costituiscono i topics principali della raccolta di Deraco, il quale si chiede e chiede al lettore se sia più semplice rispettare e assecondare gli altri e la maschera che ci siamo costruiti oppure cambiare rotta, decidendo di accontentare noi stessi, disinteressandoci del giudizio altrui e di quello che molte persone si aspettano da noi.

Ma cosa vuol dire davvero essere se stessi? In effetti anche cercare di andare incontro a chi ci sta a cuore ed essere una persona diversa da quello che si è può voler dire diventare davvero se stessi. Cosa intende Deraco con “essere se stessi”?

Pessoa sosteneva che alla fine di una giornata rimane ciò che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani; l’ansia insaziabile e molteplice dell’essere sempre la stessa persona e un’altra. Per Deraco l’uomo, essendo un animale sociale non può esimersi dall’indossare ogni volta una maschera a secondo di chi ha davanti o del contesto in cui si trova. Questione di sopravvivenza sociale e antropologica, non tanto esistenziale come la intendeva Pessoa.

Racconti di storie irrilevanti è un piccolo affresco sull’insofferenza umana che spesso di traduce in sarcasmo. Deraco si avvale di un linguaggio semplice, chiaro, “metropolitano”, atto a mostrare le cose per quello che sono e spesso ricorre ad un divertito turpiloquio.

Gli episodi descritti da Deraco ammoniscono il lettore del pericolo che può correre ricorrendo al travestimento sociale: una vita senza verità, basata sulla finzione significa morte.

Tuttavia anche essere se stessi senza paura vuol dire pagare un prezzo molto alto, ma ne vale pena secondo l’autore; per far riemergere quella parte di sé che si è dovuta sacrificare per diventare qualcun altro, ed essere accettati da tutti, è necessario rivelare la parte più vera, e si conseguenza creare dei problemi in primis a noi stessi e poi disagio e sorpresa negli altri:

<<Uno come me rimane sempre inculato da questo, per lo svelarsi, e tutti continuano a dirmi che mi mostro troppo, che spogliarmi e mettermi a nudo davanti al mondo, dà al mondo l’occasione di mangiarmi, di divorarmi, ma a me basterebbe sapere di essere morto integro, per sapere di essere morto felice>>.

I racconti di Matteo Deraco sono una piccola finestra sul nostro mondo, aprirla coincide con il dischiudere i nostri occhi e sentirsi un po’ a casa.

 

Casa editrice: EdiLab Edizioni

Collana: Ciclo unico

Genere: Raccolta di racconti

Pagine: 242

Prezzo: 12,99 €

 

Contatti

https://www.instagram.com/matteoderaco/?hl=it

https://www.facebook.com/deracomatteo

www.edilabedizioni.com

 

 

Link di vendita online

https://www.amazon.it/Racconti-storie-irrilevanti-Matteo-Deraco/dp/8894536203/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&crid=147TBO7ZXH9FW&dchild=1&keywords=racconti+di+storie+irrilevanti&qid=1593687072&sprefix=racconti+di+storie%2Caps%2C170&sr=8-1

‘Storie irrilevanti’ di Matteo Deraco, EDILab Edizioni

Matteo Deraco, spinto dalla passione per la scrittura studia sceneggiatura cinematografica, per poi arrivare alla narrativa che è, ancora oggi, il suo strumento di espressione preferito.

Dopo anni di concorsi dedicati ai racconti decide di mettersi alla prova e raccogliere i suoi scritti pubblicando “Racconti di storie irrilevanti” con EDILab Edizioni.

A fare da sfondo a questa raccolta di racconti è la città di Roma. Dopo anni passati a bramare la solitudine Matteo si interroga su quanto il mondo intorno a lui sia cambiato, e cerca un posto in cui finalmente essere sé stesso, libero dai preconcetti e dai giudizi degli altri. Nel primo racconto l’autore si chiede giustamente quale sia il prezzo per diventare grandi. Il racconto “Pornoerotico” ha un ottimo finale a sorpresa. Il racconto “Puzza di inchiostro” è un’ottima descrizione dei premi letterari italici. Ma in ogni racconto vi sono cose molto interessanti ed aforismi,  che ricordano quello che Raboni scrisse della poetessa Vivian Lamarque, ovvero che le sue intuizioni erano delle coltellate oltre ad essere illuminanti.

Questo non è un libro ispirato dalla paura della morte, dalla precarietà dell’esistenza, da una cifra trascendente, ma in esso vi è sottotraccia, implicito  un autentico atto di fede nei confronti della vita. La vitalità trasuda da ogni pagina. Non è un libro filosofico sull’essere e il nulla, ma è un’opera che riguarda i problemi veri dei giovani. Deraco è un ottimo compagno di viaggio, che parla col cuore in mano. È una raccolta di racconti ben scritta, ma in cui Deraco non ricerca la letterarietà a tutti i costi. Non c’è la ricerca spasmodica della descrizione puntigliosa né dell’intreccio avvincente.

Le storie vengono definite “irrilevanti” dall’autore per modestia e non perché lo sono veramente. Ogni racconto è un exemplum. Roma non viene descritta ossessivamente, ma solo alcuni episodi della vita giovanile romana. Forse l’autore definisce le sue storie “irrilevanti” perché a Roma niente scandalizza e fa notizia, come sintetizzava egregiamente Flaiano con la storia dell’avvento di un marziano nella città eterna, che dopo qualche ora non se lo filava più nessuno.

Infatti le storie di Deraco non sono scritte tanto per stupire, ma per chiarire a sé stesso e al lettore certe dinamiche della vita. Sembra quasi che l’essenza stessa dell’opera stia nei fitti dialoghi e nelle considerazioni sempre interessanti sull’esistenza, che non diventano mai elucubrazioni cervellotiche. Lo scrittore rifugge da ogni intellettualismo e trova leggi generali della vita. Non ha retaggi nei confronti del “secolo breve”. Ha i piedi ben piantati nel duemila.

Non rispolvera il vecchio né lo rimpiange. Parla di sesso ma non in modo volgare. Il suo è un punto di vista maschile senza essere maschilista. Non è centrato su sé stesso, ma orientato verso gli altri. Il dettato è sempre trasparente. È sempre chiaro e se qualcuno volesse disquisire sul discrimine chiarezza/oscurità bisogna ricordarsi che lo hanno già fatto magistralmente Fortini e Parise sulle pagine del Corriere della Sera nel 1977.

Nei racconti di Deraco assistiamo ad una pluralità di voci. Se prendiamo i canoni di Alfonso Berardinelli riguardanti lo stile dell’estremismo  (retorica dell’oltranza,  ontologia, prevalere della teoria sui fatti) Deraco non si adegua al conformismo autoriale. È un libro equilibrato, agrodolce; le riflessioni in esso contenute hanno un certo spessore gnomico. È anche un libro sincero perché Deraco non ha mai paura di mostrare la sua baldanza né la sua vulnerabilità. Sicuramente sono sottintese due cose in questa opera: 1) la parola può risarcire quasi ogni ferita della vita, la può risanare. 2) il mondo è un teatro come in Pirandello e Schopenhauer.  L’autore mette in scena autenticamente sé stesso o gran parte.

Questa è una narrativa adeguata alla realtà,  ma che non si adegua ideologicamente ai tempi. Deraco non è figlio della sua epoca, la sua ricerca lo porta al di fuori del mainstream,  del pensiero dominante; si libera invece dagli idoli senza cadere preda di irrazionalismi.  Tondelli scriveva che leggiamo letteratura moderna per “ritestualizzare il nostro mondo” ed in effetti con Deraco ci aggiorniamo sul mondo italico, soprattutto quello giovanile. Inoltre il cristianesimo è Dio che si fa uomo ed allora perché non leggere un libro che diverte e allo stesso tempo tratta delle nostre debolezze umane? Concludendo, questo libro si può riassumere efficacemente con le parole di Antonio Machado, che diceva di cercare assieme a lui la verità.  Deraco vuole coinvolgere il lettore non solo emotivamente  ma anche dal punto di vista conoscitivo ed esistenziale. Alla fine con lui si approda anche a delle verità umane ed esistenziali. Ciò non è affatto poco. Ecco alcuni estratti molto convincenti del libro:

“Perché penso che diventeremo come tutte le coppie che parlano solo di lavoro e con l’andare del tempo smettono di sorridersi, ma si rifugiano nell’altra persona solo per vomitare rotture di coglioni. Poi, per non sentirci più, ci ritroveremo su un divano

ognuno con il proprio cellulare in mano a scorrere su e giù le pagine internet senza nemmeno vedere quello che stiamo guardando.”

“Non so per quale motivo, ma a un certo punto le persone semplicemente cambiano, per un periodo vesti di blu poi, di punto in bianco passi al verde poi, dopo un po’ di tempo passi al rosso, cose del genere. Fa parte della natura di ognuno. Perlomeno di chi è normale, perché poi c’è anche chi, semplicemente, passa da un estremo all’altro, senza coerenza. Rinnegare sembra essere la moda del 2020. Rinnegare la fede politica, rinnegare la fede calcistica, rinnegare la fede, rinnegare gli amici, rinnegare la famiglia, rinnegare l’amore, rinnegare l’odio, rinnegare i propri sogni. Alla fine si finisce per rinnegare se stessi.”

“L’aria di Roma mi schiaffeggia e io resto un po’ imbambolato. L’odore di schifo mi entra nelle narici. Sa di merda e di vomito, di smog e di cimitero.Mi stranisce. Mi fa vacillare.Eppure mi piace sempre.”

“Vado avanti così, un pezzo separato dall’altro, e io separato da tutto, cercando di tenere tutto insieme, ed è questo che rende la cosa logorante, estenuante. È questa

la parte dura: dover tenere tutto insieme, ed è dura proprio per la mia incapacità di legare le cose.Tutto assomiglia a un fottuto puzzle, con dei pezzi che creano il quadro generale solo quando sono separati. Non ci riesco a metterli insieme quei maledetti pezzettini, e renderli parte della mia vita, li vivo separatamente, in maniera disgiunta gli uni dagli altri.”

 

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