‘La Madre’, il thriller di Marco Lugli, ambientato in un Salento arido ed emozionante

Marco Lugli è uno scrittore e fotografo emiliano che da alcuni anni vive in Salento. “La Madre” (2020) è il terzo romanzo giallo della serie dedicata al commissario Luigi Gelsomino, dopo “Nel Tuo Sangue” (2015) e “Ego Me Absolvo” (2017).

La Madre racconta il parto di una ragazza madre, l’innesco del caso di omicidio che riporta il commissario Luigi Gelsomino al centro dell’azione investigativa dopo mesi di aspettativa. Nella sua Lecce, la città dove ha vissuto, dove si è sposato e dove ha sempre lavorato, alcuni fantasmi sembrano materializzarsi e interferire nell’indagine con i loro messaggi provenienti dal mondo dei morti.

E se il periodo di riposo lo aveva illuso di essersi liberato della zavorra del suo doloroso passato e di averlo preparato a spiccare un salto verso il futuro, è un intreccio di morte e nuova vita a tenerlo ancorato a terra. Un Salento arido eppure generoso di emozioni, fa ancora da sfondo a questa terza indagine di Gelsomino e sospinge il lettore tra Lecce e il Capo di Leuca, in balia dei venti di Scirocco e Tramontana.

Da qualche anno a questa parte ci sono sempre nella società occidentale i soliti film gialli o romanzi thriller con il serial killer che ha una personalità multipla. In questo periodo la correlazione tra omicida seriale e sindrome di personalità multipla nei film e nei romanzi  thriller americani è molto sopravvalutata.

Diciamo pure che questi film americani adoprano alcune nozioni della moderna psichiatria per riprendere il topos de “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, scritto da Stevenson. Nei film e nei romanzi gialli americani inoltre viene dato grande spazio ai cosiddetti profilers; è innegabile che in America esistono professionisti, che fanno questo mestiere. Ma spesso nei film viene dato grande spazio al profiler perché è più accattivante un esperto che fa ipotesi sulla personalità del killer piuttosto di un anatomo-patologo, di un medico legale o di un esperto di balistica, che utilizzerebbero termini incomprensibili ai più.

Gli sceneggiatori dei film gialli e dei thriller rischiano sempre di scadere nel già visto, nell’ovvietà, nella banalità. Rischiano di utilizzare luoghi comuni abusati. Questa premessa era doverosa per dire che è  difficile trovare una trama  originale come nel caso di questo romanzo di Lugli.

Oggi scrivere gialli e thriller è molto più difficile di trent’anni fa: un giallista si trova di fronte ad un bivio: consultare esperti della scientifica e coroner oppure sfoggiare la sua creatività nel modo più spontaneo e meno artefatto possibile, che è quello che fa Lugli. In molti gialli di oggi la documentazione ha nettamente la meglio sull’ispirazione, sulle trovate, sull’inventiva, ma non in questo caso. Spesso in fondo ai libri gialli vengono rivelati tutti i debiti contratti dagli autori, che ringraziano esperti del crimine e poliziotti consultati.

Lugli lavora più che altro in proprio per quello che è possibile. È un ottimo artigiano del giallo. Il suo ė un giallo procedurale ma è più incentrato sul commissario che sul suo team. Gelsomino è un piccolo commissario Maigret, pur con sostanziali differenze, nel senso che accentra su di sé l’attenzione del lettore.

La madre è un romanzo corposo ma mai noioso. Sono 352 pagine dense ma avvincenti. Un genuino sottofondo di ironia pervade il libro e lo rende divertente.  L’ambientazione lo aiuta. La scelta del paesaggio pugliese si rivela azzeccata. È una scelta logica ed appropriata. L’autore è anche un promotore della bellezza del Sud. Non vanno discusse in questa sede le  ragioni ma c’è tutta una narrativa che descrive un Meridione in modo negativo, diciamo pure col segno meno.

Non è questo il caso. Viene da chiedersi se lo scrittore mette al centro del romanzo il parto di una ragazza madre per porre l’accento sulle culle vuote, sulla denatalità, sul fatto che gli italiani facciano sempre meno figli. Secondo alcuni studiosi delle linee della mano sembra che della gravidanza indesiderata resti una traccia nei palmi, sembra che sia somatizzata.

Per gli psicologi di certo è un trauma psicologico, spesso rimosso. Ma nel romanzo le vicende portano il lettore a riflettere ad ampio raggio sulla procreazione e sulla genitorialità perché il commissario Gelsomino ha perso una figlia e la moglie. Tutti i suoi progetti di padre sono terminati. La perdita di un figlio è il lutto più tremendo per una persona, è il lutto più difficile da elaborare perché è quello meno prevedibile e più contro-natura di tutti.

Gelsomino è un protagonista solitario ed ironico,  che suscita nel lettore simpatia ed empatia. Lo scrittore lo ha definito in una intervista un antieroe, è una figura complessa e complicata,  un uomo mai pienamente risolto. La vena ludica emiliana, la cifra lunatica nel senso migliore del termine  dell’autore hanno fatto sgorgare dalla penna un personaggio chiave ben delineato e allo stesso tempo ricco di sfumature, contraddittorio e contraddetto, in una parola sola sfaccettato, così come indefinibili e polisemiche sono le figure di donne che si avvicendano nel libro.

Il romanzo è ricco di peripezie e capovolgimenti di fronte. Il lettore rimane spiazzato, spesso deve cambiare prospettiva. Lugli adotta uno stile originale, il quale, pur avendo riferimenti, non soffre di epigonismo ed occupa un posto a parte tra I bastardi di Pizzofalcone, I delitti del BarLume e i romanzi di Carlo Lucarelli.

La madre è un romanzo in cui entra in scena prepotentemente il soprannaturale senza però utilizzare immagini, simboli e linguaggio esoterici. Si perdono i punti di riferimento. Si rimane spaesati. E poi lo sfondo del bel Salento è un omaggio alla Puglia.

È un giallo scritto bene, cosa non comune e che non dovrebbe lasciare indifferenti. Lugli è la riprova ennesima che si può fare della pregevole narrativa senza recarsi per forza nelle metropoli ma rimanendo ancorati alla provincia, in città a misura di uomo. E poi chi l’ha detto che nella provincia apparentemente sonnolenta e sorniona non possano accadere crimini efferati? .

Il romanzo di Lugli è un congegno ben pensato: un ottimo incastro di situazioni, circostanze, atmosfere,  stati di animo, enigmi, paesaggi: molto di più di quello che si trova in un comune romanzo giallo.

 

Davide Morelli

 

 

‘Almanda’ di Ennio Maria Petruzzella: il realismo magico che descrive una città ideale tra sogno e realtà

Il desiderio di sopravvivere alla morte lasciando una traccia terrena della propria esistenza è da sempre l’ambizione di tutti i grandi uomini, che per merito delle loro opere vorrebbero ottenere fama imperitura. Ed è di questo che tratta “Almanda, il viaggio” dello scrittore Ennio Petruzzella (Les Flâneurs Edizioni), raccontando la storia della fondazione dell’omonima città e della sua condizione un secolo dopo l’edificazione.

Stridente in Almanda, è il contrasto tra l’entusiasmo dilagante che ha condotto alla nascita di Almanda rispetto all’atmosfera grigia come il suo cielo funereo soltanto cent’anni dopo. Una città destinata a grandi fasti e nota in tutto il mondo per le sue manifatture esportate ovunque, anche nel Vecchio Continente, ritrovarsi improvvisamente al buio e senza più speranza.

Agli antipodi sono anche i protagonisti: da un lato, Giulio Flaiano, il ricco avventuriero patrizio che si imbarca in quest’impresa folle e convincendo i più talentuosi della sua epoca a seguirlo; dall’altro Julius, il giovanissimo ragazzo che vuole scoprire il mistero del sole e donare nuova luce alla città, mettendo a rischio la sua stessa esistenza. Entrambi curiosi e aperti al nuovo, sono disposti a tutto per Almanda: un luogo magico dove tutti sarebbero stati liberi di essere se stessi, sognare e amare senza limiti o condizionamenti.

«Questo era il segreto di Almanda.  Questo velo di impalpabile follia che teneva uniti gli sforzi di tutti per consentire ai sogni dimenticati del mondo di affrontare ancora il mare e raggiungere gli uomini per i quali erano stati sognati. La convinzione che aveva spinto tutti a seguire Giulio, che la grandezza di ogni uomo abita nei propri sogni, nella semplice e immateriale fuga che compie quasi ogni giorno nelle sfumature della vita».

Profonda è l’introspezione sui personaggi, di cui l’autore delinea sia gli umori che gli affanni, descrivendone a pieno l’anima, le ambizioni e le sofferenze con uno stile a tratti onirico, che riecheggia il realismo magico del premio Oscar Gabriel Garcia Marquez con le sua “prosa immaginifica”.

«… Questo prima che sorgesse il suo nuovo sole, e prima che una mano invisibile la disegnasse nei suoi confini circolari e la posasse sulla terra… come un’opera visionaria a lungo cercata, nelle pergamene del pensiero, e ideata e fissata nelle pietre del mondo”. Almanda era già lì, dipinta in forma di città onirica e perfetta, attraversata dal taglio luminoso del fiume Dieng che dall’alto delle montagne scendeva lentamente al mare. Era lì, concepita dalla mente di un uomo che si era scoperto visitatore notturno di mondi fantastici e impossibili».

 

Casa Editrice: Les Flâneurs Edizioni

Collana: Lumière

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 202

Prezzo: 15,00 €

 

Contatti

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https://www.lesflaneursedizioni.it/product/almanda/

 

 

 

‘Bruciati vivi’: Daniela Stallo torna in libreria con un noir atipico

Bruciati vivi, edito da Arkadia Editore, è il secondo libro di Daniela Stallo. La scrittrice, nata a Taranto nel 1966, ha studiato giurisprudenza e ha vinto il concorso per la cattedra di diritto nelle scuole superiori presto.

Ha iniziato a insegnare a 26 anni, in un professionale, in un paese del tarantino, dove già aveva incominciato a mettere da parte ricordi di colleghi e vita scolastica.
Giornalista pubblicista prima nel giornale diocesano, già dal liceo scriveva di libri e, poi, in un quotidiano cittadino, a Taranto, si occupava di questioni amministrative e sindacali. Vive a Pisa, dove insegna diritto, dopo molti anni di pendolarismo. La sua opera prima è La città sul mare  una raccolta di racconti per ragazzi e ragazze, ispirati a Taranto.

 

Bruciati vivi: Sinossi

Copertina

Bruciati vivi, uscito il 28 gennaio 2021, per la collana Eclypse, è un noir dove fatti di sangue e indagini si intrecciano a un racconto di scuola, di donne, di desideri e ricerca della felicità. Un libro in cui convivono la forma diaristica, tipica di autori come Italo Svevo e le atmosfere misteriose e cupe proprie di scrittori come Conan Doyle e Edgard Allan Poe.

12 settembre, giovedì
Ventinovesimo anno che spiego l’argomento, non certo la ventinovesima volta, perché le volte, in effetti, sono il doppio o poco
meno. Più classi prime in ogni anno scolastico, così lo ripeto anche
a distanza di un giorno, se non l’ora successiva. Stesse parole da ventinove anni.
Primo argomento, primo giorno di scuola, non faccio tante storie,
loro non hanno il quaderno, dico di strappare un foglio, che poi lo ricopieranno, niente presentazioni né conoscenza della classe, nessun augurio, nessuna frase di circostanza. Neppure il mio nome, dico, si informeranno. Nessuna confidenza.
Vado alla lavagna, loro guardano, per il momento in silenzio.

 norma giuridica → regola obbligatori

   ↓
precetto → comando o divieto → è vietato fumare

dobbiamo pagare le tasse

  +
sanzione → pecuniaria, detentiva, accessoria

Copiano, qualcuno strabuzza gli occhi, qualche miope si sforza. Copiano e non chiedono spiegazioni.
Non si sentono ancora autorizzati a commentare, devono osservare l’ambiente, noi insegnanti siamo estranei e loro non si fidano,
non sanno se alle superiori funziona come alle medie. Chiedono se preferisco un quaderno a righe o a quadretti, rispondo che sono liberi di scegliere, in fondo non me ne potrebbe fregare meno…

Protagonista del romanzo è Luisa, un’insegnante pendolare. Il suo diario, che copre dieci mesi, da settembre a luglio, è la cronaca quasi giornaliera dell’anno scolastico e della sua vita privata. Luisa racconta di un lavoro ripetitivo, che non la gratifica, per giunta malpagato. Spesso si ammala o finge di farlo per poter restare a casa. Con il marito Thomas i rapporti sono agli sgoccioli e la lontananza del figlio, che lavora all’estero, di certo non la aiuta.

Di pari passo crescono il malcontento, la diffidenza verso il prossimo, la solitudine e la noia. Così, lentamente, Luisa si convince che per anelare a un’esistenza migliore l’unica cosa da fare è eliminare le persone che ora gliela rendono difficile. Da questo momento in poi intraprende un personale percorso da serial killer, convinta che tutto questo le potrà donare una rinnovata serenità. E invece niente andrà secondo i suoi piani. Proiettata in una rincorsa ossessiva ed egoistica verso il proprio benessere, anche attraverso veri e propri crimini, ogni sua azione sembra votata al fallimento e a un epilogo drammatico.

“È un libro sulla scuola – ha dichiarato l’autrice Daniela Stallo. All’inizio volevo scrivere dei meccanismi burocratici nella scuola, domande, trasferimenti, assegnazioni, cose che neppure chi ci sta dentro capisce fino in fondo. Forse cercavo io stessa un senso, o solo una spiegazione, credevo che scrivendo si sarebbe sbrogliato il groviglio di norme, leggi, leggine, commi, eccezioni.                                                Poi, invece, la storia è andata per conto suo, è venuto fuori un racconto sul burnout dell’insegnante, sul loro stress, un diario di pendolarismo, non solo dei docenti.                                                                                                                                                                                              Ci sono una scuola, una strada tra nebbia e acqua, molta acqua, ondate d’acqua. Un appartamento in zona 167. Una malattia non ancora del tutto riconosciuta. Una scuola dura, a volte cattiva, e le persone non si amano a tutti i costi.                                                                    Qualcuno muore, non immediatamente, ma muore, qualcuno compie azioni muovendosi in un noir, qualcuno si pente, altri no.                         Luisa intanto si muove nella sua follia tra strada e camion e pioggia, spesso invisibile, tra tristi pastine al burro, bloster come arma di difesa, alla ricerca, qualcuno ha detto della felicità, forse solo di un’indicazione”.

L’autrice ha voluto, quindi, raccontare una storia dietro un caso, un delitto, dando al romanzo una struttura diaristica, con dialoghi brevissimi, quadri di interni di vita privata e scolastica, ripetizioni ossessive che fanno immergere il lettore nella cronaca di una vita lavorativa segnata dai sintomi e dalle manifestazioni tipici del burnout.

 

http://www.arkadiaeditore.it/bruciati-vivi/

 

‘Giada Rossa-Una vita per la libertà’: il romanzo-denuncia di Fiori Picco

Giada Rossa – Una vita per la libertà, edito da Fiori d’Asia Editrice, è l’ultimo romanzo della scrittrice Fiori Picco.

Picco è nata a Brescia il 07 marzo 1977, è sinologa, scrittrice, traduttrice letteraria ed editrice. Dopo la laurea in Lingua e Letteratura Cinese conseguita presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è stabilita nella città cinese di Kunming, nella provincia dello Yunnan, dove ha vissuto otto anni insegnando presso il Dipartimento del Turismo della Yunnan Normal University e svolgendo ricerche di antropologia.

Durante gli anni di vita a Kunming ha iniziato a scrivere novelle e romanzi e dal 2007 è autrice SIAE.

Dal 2011 traduce romanzi di autori asiatici e di recente ha aperto Fiori d’Asia Editrice, una realtà editoriale multilingue specializzata in letteratura orientale.

Ha ricevuto diversi premi letterari, nazionali e internazionali, tra cui il Jacques Prévert 2010 per la narrativa, il Magnificat Libri, Arte e Cultura 2014 per racconti brevi, il Premio Standout Woman Award 2016 della Regione Lombardia, il Caterina Martinelli 2017, l’Argentario 2020.

Nel 2018, con scrittori di tutto il mondo, ha partecipato all’International Writing Program presso l’Accademia di Letteratura Lu Xun di Pechino, e al Congresso Internazionale degli Scrittori e dei Sinologi di Guiyang le è stato conferito il certificato di Friend of Chinese Literature.

Collabora con la China Writers’ Association e con la Japanese Writers’ Association

Giada Rossa – Una vita per la libertà: Sinossi

Giada Rossa- Copertina

Giada Rossa-Una vita per la libertà è uscito il 10 Aprile 2020. Il libro si è classificata superfinalista al Premio Città di Latina 2020 e finalista con merito al Premio Argentario 2020.

Avevo sei anni quando mi rapirono. Per sottrarmi alla mia famiglia
scelsero il modo più subdolo e meschino; il piano fu architettato da
due conoscenti di mia madre: persone intime, fidate, insospettabili. Fu
il primo episodio doloroso di una serie di avvenimenti drammatici che
mi segnarono profondamente nell’anima. I lividi che ancora oggi mi
porto dentro e le cicatrici visibili mi hanno consentito di diventare la
“Giada Rossa” del presente: una donna tenace e coraggiosa che ha visto
più volte la morte e che altrettante volte si è disperatamente aggrappata
alla vita. Non posso e non voglio cancellare le ferite, sarebbe assurdo
perché sono parte essenziale di me.

Ogni donna è preziosa come una giada, proprio come la protagonista di questa storia che, raccontando in prima persona, ripercorre tutte le fasi della sua vita travagliata: un’infanzia negata nelle campagne del Jiangxi, un’adolescenza segnata dalla violenza, il drammatico viaggio dalla Cina verso l’Europa, le difficoltà incontrate in Italia da clandestina.

Nonostante le avversità, ha sempre dimostrato un coraggio e una forza d’animo ammirevoli, si è ribellata alle ingiustizie, agli inganni e alle prevaricazioni, perseguendo il valore più importante: la libertà. La sua testimonianza vuole essere uno stimolo per tutte le donne che si trovano in situazioni simili e che si arrendono al loro destino.

Giada Rossa – Una vita per la libertà è un romanzo nato da un incontro avvenuto presso gli Spedali Civili di Brescia, dove ho svolto opera di mediazione culturale – ha spiegato l’autrice. È la storia vera e drammatica di una signora cinese che ho conosciuto e che ho assistito durante un intervento chirurgico. In ospedale mi ha raccontato tutta la sua vita, dall’infanzia trascorsa in Cina, fino al suo arrivo in Italia. Il suo carattere allegro, comunicativo e positivo mi ha subito colpita e ispirata.           Ho sentito il desiderio di scrivere questa storia per dare voce a tutte le persone che, come lei, hanno sofferto e sono state vittime di violenze, soprusi e discriminazioni.                                                                    Considero Giada Rossa un romanzo-verità e di denuncia, in quanto affronto tematiche forti, ricorrenti e attuali. Ho intervistato la protagonista per sei anni; il lavoro di approfondimento e di ricostruzione è stato lungo e costante. Pur parlando la stessa lingua, ovvero il cinese, la signora aveva una capacità di esposizione semplice, ma è stata collaborativa e desiderosa di raccontare le sue emozioni, che io ho reso mie. I sei anni sono serviti a recuperare dalla memoria tutti i fatti e le relative sensazioni. Di mio c’è la rielaborazione dettagliata con l’inserimento delle ambientazioni e dell’analisi psicologica dei personaggi”.

In un arco temporale che dal 1970 arriva ai giorni nostri, la storia narrata da Fiori Picco avvicina il lettore a temi delicati e meritevoli di una riflessione: dall’infanzia negata alla violenza domestica, dall’immigrazione clandestina al traffico di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione, dall’integralismo religioso al Buddismo e il Karma, dal concetto di matrimonio in Cina al riscatto sociale.

 

Per acquistare il libro:http://www.fioridasiaeditrice.com/store/product/giada-rossa-una-vita-per-la-liberta-di-fiori-picco

 

Brunella Giovannini autrice dell’avvincente romanzo ‘L’essenza del tempo’

Brunella Giovannini è nata a Reggiolo (Re).  Nel 2015 ha  esordito con il romanzo “Un volo di farfalle” e si è aggiudicata il terzo premio nella 40° Edizione del “Premio Città di Fucecchio”. Nel 2016 sempre Edizioni Leucotea ha pubblicato il suo secondo romanzo intitolato “Tra i segreti di Villa Aurelia” e ha conseguito il terzo premio per la narrativa edita nell’ottava edizione del Concorso Letterario promosso dall’Associazione “Club della Poesia” di Cosenza.  “L’arcano degli angeli”, suo terzo romanzo, ha ottenuto una menzione d’onore nella XXI Edizione del Premio “Emozioni e magie del Natale” di Piacenza. “L’essenza del tempo” è il suo quarto romanzo. L’autrice ha conseguito anche numerosi consensi e premi in ambito poetico.

L’essenza del tempo: trama e contenuti del romanzi di Brunella Giovannini

Ombretta, la protagonista, dopo il dissesto economico della famiglia, che risiedeva in un podere nella bassa padana, è costretta a trasferirsi negli anni settanta nell’hinterland milanese. Qui suo padre lavora alle dipendenze di un conte gentile. La bambina fatica ad ambientarsi, ma trova due amiche piene di vitalità, originarie del Sud.

Ombretta con le amiche  nel giorno del suo ventitreesimo compleanno viene investita da una auto pirata, che la riduce per sempre invalida su una sedia a rotelle. Una di queste amiche perde la vita. E dire che tutto sembrava andare per il meglio ad Ombretta, che lavorava in una fabbrica di profumi grazie a quel galantuomo del conte Montenuovo!

Il titolo del libro prende proprio il nome da un profumo di quella ditta, ma è meglio non spoilerare troppo. Ombretta assumerà come badante una donna che è stata in carcere per un delitto, ma essa è una persona nuova ormai, ha capito i suoi sbagli, è avvenuta la sua redenzione etico-religiosa. Dopo tanti anni Ombretta ritrova un amico di vecchia data ed è amore. Penseranno insieme al futuro. Progetteranno insieme il futuro, nonostante alcune contrarietà.

Il romanzo ha una trama avvincente. È meglio non raccontarlo tutto. L’intreccio è complesso, fantasioso senza finire nel fantastico. Come in ogni trama avvincente non mancano i colpi di scena. Alcuni colpi di scena scaturiscono dai salti di luogo e di tempo. Perché una trama desti attenzione nel lettore secondo Todorov bisogna che ci sia una piccola perturbazione nel plot, un elemento che spezzi l’ordinarietà, il quotidiano.

Anche secondo Propp, sebbene lui tratti le fiabe, c’è in ogni trama che si rispetti la rottura di un equilibrio iniziale e poi le peripezie, le vicissitudini del protagonista. In questo romanzo abbiamo l’incidente stradale che causa la disabilità alla protagonista. È questo il cambiamento di rotta, il twist plot come direbbero gli americani.

Tutto è ben congegnato, ben architettato. Secondo alcuni studiosi si può scrivere un romanzo anche senza una trama e secondo altri studiosi una trama vale l’altra. Secondo questi letterati l’importante è l’invenzione linguistica, lo shock verbale, la narrazione. Secondo altri è inutile esercitare l’immaginazione perché la vita la supera sempre, ci sorprende sempre, è sempre più creativa della nostra mente.

Un romanzo avvincente

Secondo la recente critica letteraria un buon racconto deve essere straniante, mentre un romanzo deve essere polifonico (come scrive  Michail Bachtin). Questo romanzo, che è di pregevole fattura, rappresenta una eccezione alla regola. Esistono i capovolgimenti di fronte, anche se non ci sono rovesciamenti di punti di vista (straniamento), né rotazione o carrellata di punti di vista (polifonia). In questa opera non è importante la prospettiva, non ci sono i cosiddetti paradossi prospettici.

Qui è determinante invece la storia. La cosa più importante in prosa è avere una storia da raccontare. Un conto è tutta la teoria della letteratura. Un conto è disquisire sugli ingredienti che dovrebbero costituire un capolavoro ed un altro è scrivere un romanzo. Inoltre un altro pregio del libro oltre al fatto di non essere costruito a tavolino secondo certi canoni letterari è che non è assolutamente un romanzo saggio.

Il romanzo di Brunella Giovannini non è reale ma è realistico. Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale, ma tutto potrebbe essere vero. La scrittrice non vuole interpretare la vita, spiegarla, decodificarla, chiarirla, ma vuole solo raccontarla; è la cosa più difficile perché la Giovannini deve estraniarsi dalle congetture intellettuali ed aderire alla realtà, pur rimanendo giocoforza nell’ambito della fiction.

In questa opera si avvicendano i personaggi, che sono ben tratteggiati. Ogni figura ha la sua funzione nell’economia del libro. L’essenza del tempo è la dimostrazione che una trama molto interessante insieme ad una buona narratività possono rendere più che dignitoso un libro. È la dimostrazione che per essere romanzieri ci vuole una ideazione spiccata, bisogna anche sapersi inventare storie oltre che saperle narrare.

L’essenza del tempo è la conferma che una storia originale (senza scadere nel surreale, nel surrealismo, nel realismo magico, così abusato) può diventare esemplare. L’autrice ha qualcosa da raccontare a differenza di molti narratori, che sono soporiferi. La lettura è piacevole e non annoia mai.

La rielaborazione del reale

Inoltre ogni letteratura anche quella più fantastica si ispira al reale e ad essa è strettamente connessa. La scrittrice però ha saputo trasfigurare, rielaborare il reale. Di certo trattare anche della bassa padana è una scommessa, una sorta di sfida. Può essere a seconda dei gusti un punto di forza o un punto debole perché la bassa padana rievoca nella mente dei lettori le atmosfere magiche, lunatiche di Cavazzoni, Bevilacqua, D’Arzo, Delfini.

Ma ciò ricorda anche un celebre film come Novecento di Bertolucci. Di certo la Giovannini sa scrivere. È ancorata alla tradizione. Non cede alle lusinghe dello sperimentalismo. I personaggi, i fatti, i luoghi, le circostanze, le vicende sono descritte ottimamente. Niente è lasciato al caso.

L’autrice è esauriente e non si sofferma mai troppo. Non è mai sciatta per voler essere a tutti i costi scorrevole. I periodi sono elaborati ma mai involuti. Cura i dettagli, è attenta e scrupolosa nel linguaggio. Ha ottima proprietà di linguaggio. Non è nemmeno  troppo prolissa per far vedere quanto sa padroneggiare la lingua italiana.

Un romanzo come questo necessita di una buona mano e anche di qualche stesura. Probabilmente diversi sono stati i ripensamenti, le aggiunte, i tagli. Ma alla fine tutto è stato calibrato e ponderato. È stata soppesata ogni parola, ogni frase. Viene da chiedersi perché una scrittrice talentuosa non sia assurta alla cronaca nazionale?

Ebbene moltissimi scrivono al mondo di oggi. Pochi leggono. Poi certe tematiche possono interessare ed altre no. Sono molteplici i fattori in gioco. Un tempo gli scrittori avevano consensi e popolarità. Come scrisse Stanisław Jerzy Lec un tempo gli dei erano immortali. Oggi nessuno è più immortale.

L’aspetto più rilevante del L’essenza del tempo è la possibilità di riscatto della badante, che ha avuto dei precedenti penali, ha addirittura commesso un omicidio, ha pagato il fio e viene presa a lavorare, nonostante iniziali perplessità, dalla protagonista Ombretta. Sorge spontanea una domanda cruciale: come rapportarsi di fronte ad una persona che ha sbagliato? Sarebbe saggio riconoscere le nostre fratture che ci potrebbero portare anche noi a sbagliare e poi cercare di dare un’altra possibilità alla persona che si è macchiata di una colpa.

Secondo una regola di vita condivisa l’importante è non fare favore né ricevere favori da chi delinque, ma allo stesso tempo non bisogna discriminare chi ha già sbagliato e pagato. Una cosa che viene da chiedersi, dopo aver letto il libro, è se la vita si riveli di più nel suo svolgimento lineare, nel solito tran tran oppure in alcune anomalie straordinarie.

Forse la Giovannini ci vuole ricordare che nel corso di ogni vita c’è qualche incrinatura, qualche punto di rottura. Bisogna farci i conti. Infine un’altra cosa fondamentale è lo spiraglio finale che apre. La protagonista è speranzosa, può ripartire, può ricominciare. Alla base di tutto come in ogni storia che si rispetti c’è un trauma, così come di solito è un trauma che spinge a scrivere, a sublimare la propria sofferenza. Jung nel “Libro rosso” scrisse: “Le cose che accadono sono sempre le stesse”.

Non è sempre uguale invece la profondità creativa dell’essere umano. Le cose di per sé non significano nulla, assumono un significato soltanto dentro di noi. Siamo noi a dare significato alle cose. Il significato è ed è sempre stato artificiale. Siamo noi a crearlo”.

Secondo Adler, fondatore della psicologia individuale, l’uomo per dare un senso alla propria vita deve risolvere il problema occupazionale, il problema sociale e deve trovare l’amore. Infatti la protagonista del libro si realizza soltanto dopo aver risolto queste problematiche. Questo libro è una buona lettura, per i più piccoli potrebbe essere edificante, per cui non si potrebbe parafrasare la celebre espressione di Baudelaire “ipocrita lettore, mio simile, fratello”.

In ogni caso questo libro può comunque riguardare ognuno di noi perché ad ognuno di noi possono accadere queste cose: come dicevano gli antichi “de te fabula narrator”.

 

Davide Morelli

 

 

‘Il tradimento dei chierici’ di Benda. Quando intellettuale vuol dire cialtrone

La gracilità del pensiero, la sua debolezza, consiste soprattutto nell’acritica uniformità al reale, nella resa incondizionata al sopruso del presente. La sua inanità si palesa col grido strozzato per convenienza e opportunismo, per quello che la vile bruzzaglia chiamerebbe il “tirare a campare”. In questo tempo in cui finanche stringere la mano di un amico è considerato un atto sconveniente, in cui il contagio virale sembra aver avvolto ogni cosa di ombre o da un precoce crepuscolo, l’intellettuale ha adeguato la sua retorica all’innocenza e le sue esibizioni allo spensierato passatempo; lo scienziato ha vestito la livrea del lacchè per fare inchini e salamelecchi in programmi televisivi di terz’ordine e lo scrittore, infine, ha condito delle solite facezie i libercoli che si vanta di presentare a questa o a quell’altra fiera estiva della vacuità.

Il chierico, invece, ossia l’intellettuale, colui che con accanito sprezzo della modernità e disgusto per la gregaria dipendenza dall’accolita dei tromboni, purtroppo appartiene a un evo lontano. Questo guerriero che un tempo si serviva delle asprezze del pensiero come testuggini lanciate contro la mediocrità dell’imbelle marmaglia, oggi, come direbbe Julien Benda, ha tradito il suo mandato e si è seduto alla ricca mensa del compromesso. Il chierico, scriveva Max Weber in La politica come professione,

“[…] era estraneo alla dinamica dei normali interessi politici ed economici e non cadeva nella tentazione di aspirare per sé e per i suoi discendenti a un potere politico autonomo di fronte al signore, come invece avveniva nel caso del vassallo feudale”.

Il chierico, insomma, non lustrava le scarpe ai potenti, né blandiva gli scranni della politica. Egli si piegava, sì, ma soltanto a colpi di frusta o a beveroni di cicuta. Il suo perenne stato di avversione per la mostruosa canea di coloro che si azzannavano per un titolo o una prebenda, lo proteggeva come un’impenetrabile armatura.

L’intellettuale dei nostri tempi, un uomo da corvée dominato da meschine passioni, si concede invece a qualsiasi tribuna o arena in cui, per lo più, ogni amena conversazione sfocia in lite o nel volgare tafferuglio da trivio. Per un vitalizio, una pubblicazione o una cattedra invaderebbe la Polonia.

Dove un tempo Erasmo si difendeva dalle lusinghe dei suoi adulatori con il concedo nulli, il motto che era diventato la sua panoplia, e Michelangelo bruscamente ordinava al papa di uscire dalla Sistina nella quale disturbava il suo lavoro o Spinoza rifiutava con garbato sdegno la cattedra di filosofia offertagli dall’Elettore del Palatinato, questi miserabili figuri non aspettano altro che qualcuno schiocchi le dita per dare prova del loro infimo giullarismo. Uno spettacolo indegno, una mostruosità assoluta.

La vile trahison perpetrata dai chierici che hanno abdicato al loro ruolo di fustigatori di coscienze, di assoluti servitori dell’intelletto e dello spirito, di accusatori dell’ignominia e del sopruso, per sedersi invece dalla parte degli oppressori, dei malfattori, ruffiani e malversatori, sarà ricordata come la pagina più triste di questo periodo di contagiosa ossessione pandemica.

Il loro vergognoso silenzio, la colpevole afasia, l’incomprensibile balbettio, accenderà una luce di lugubre vergogna sui loro pensierini vaccinati, sulle azioni sterilizzate, sui loro libriccini innocui, sulle loro esistenze inutili e parassitarie. L’urlo di quei pochi esempi di resistenza intellettuale, invece, è vox clamantis in deserto.

Intanto, il discorso para-sanitario, come una ciarla, domina le nostre giornate angustiate dai bollettini medici e dai protocolli di sicurezza. Del metodo della scienza, ossia ciò che fece di Cartesio e di Galileo i padri putativi della modernità, si sono perse le tracce. Oggi, così ci viene detto, “della scienza bisogna avere fiducia” perché la sua verità è nei dati, nelle statistiche, nei risultati. Eppure, si dimentica facilmente ciò da cui Benda nel Il tradimento dei chierici ci mise in guardia:

“[…] il valore morale della scienza non è nei risultati, che possono fare il gioco del peggiore immoralismo, ma nel metodo, proprio perché questo insegna l’esercizio della ragione in spregio a ogni interesse pratico”, giacché “[…] la scienza è un valore clericale solo nella misura in cui cerca la verità per se stessa, prescindendo da ogni considerazione pratica”.

 

Vincenzo Liguori

‘Un negro voleva Iole’, le fantasie allucinate di Marcello Barlocco

Oltre a scoprire nuove voci, letterarie e non, fare editoria dovrebbe significare anche provare a recuperare quelle provenienti dal passato che, per un motivo o l’altro, non sono note o vengono dimenticate. In questo, la Giometti&Antonello – piccola casa editrice di Macerata, creata da Gino Giometti e dal compianto Danni Antonello – continua a riservarci piacevoli sorprese, come Un negro voleva Iole, libro che presenta una selezione di racconti, editi ma rimasti ignoti ai più e aforismi, totalmente inediti, di Marcello Barlocco (1910-1972), scrittore dall’esistenza tumultuosa e che, in vita, è sempre rimasto ai margini della letteratura italiana, come si ricorda nella nota degli editori.

Poi, in tempi più vicini a noi, qualcosa è riaffiorato, ma sempre molto poco: un ricordo di Carmelo Bene, incluso nella sua biografia (1998); la ristampa di un romanzo breve dell’autore, Veronica, i gaspi e Monsignore, pubblicato da Greco&Greco e con l’utilissima curatela di Andrea Marcheselli (2005).

LA GRAN PARTE di Un negro voleva Iole ha come fonte I racconti del Babbuino, libro uscito nel 1950 e che ebbe una menzione al Premio Viareggio di quell’anno.

Dei testi in questione, ce ne sono due inclusi nelle loro versioni successive, Le mani e L’amante delle parabole. Del primo circola anche in rete una registrazione audio della sua lettura da parte dell’autore stesso; del secondo invece sappiamo che si tratta di una versione pubblicata per una rivista dell’epoca. E sempre per quella stessa rivista – Il delatore -, Barlocco pubblicò Un’avventura a Genova, storia non presente nel volume originario e che, con il titolo La formula, si può leggere nel volume stampato dalla Giometti&Antonello.

Ora, al di là dell’innegabile piacere del testo – la lingua usata è al servizio delle singole narrazioni, ma non mancano sottigliezze stilistiche che impreziosiscono gli orditi -, come definire la letteratura di Barlocco? Qui non si può che concordare con Daniele Giglioli, che nella puntata dedicata al libro del programma di Radio3 Fahrenheit, lo scorso 12 febbraio, riconosce la difficoltà dell’operazione, sottolineando il fatto che risulterebbe erroneo associare le fantasie dello scrittore a quelle di autori come Buzzati, Landolfi, Tozzi.

A questa sorta di impasse, Gino Giometti – l’altro ospite di quella puntata del programma – offre una possibile via di fuga, dal momento che suggerisce di pensare la prosa di Barlocco come quella di «un Landolfi americano che ha letto Lovecraft», e quindi un’esperienza vicina ad un filone che va oltre la tradizione italiana, specialmente quella di quando il nostro era in vita.

FRA I RACCONTI di Un negro voleva Iole, quello che forse mostra in modo più pronunciato l’intreccio di due caratteristiche presenti un po’ ovunque, cioè grottesco e violenza, è La mani.

Qui, c’è un protagonista che si trova a scontrarsi con i propri arti, in un crescendo di situazioni i cui estremi, con i loro correlativi oggettivi (la gogna per le mani; i binari per la doppia esecuzione) indicano l’immobilità umana come una specie di tendenza esistenziale generale, da cui poi, come nelle altre storie, sembrano alla fine scaturire per lo più sangue o ghigni.

«Molti animali inferiori, specialmente i vermi, putrefacendosi emettono una piccola luce; gli uomini invece puzzano». Da buon anti-umanista, Barlocco non sembra scrivere per il prossimo suo. O meglio, non è compiacente, né gli interessa esserlo. E per questo, in fondo, non possiamo che leggerlo con ammirazione.

 

https://ilmanifesto.it/tra-grottesco-e-violenza-le-fantasie-allucinate-di-marcello-barlocco/?fbclid=IwAR0mH_AhLwhIZz7DAOtS3_avRKRany6lj0Gj1i2Nx8JVmTDLCnQFlBq6yBQ

‘Il mio Zibaldone’. L’e-book leopardiano di Maria Iannotta

In un paesino dell’entroterra beneventano nasce un e-book “leopardiano” dal titolo Il mio Zibaldone, editato da IVVI Editore, che come editore, dà la possibilità a giovani scrittori emergenti, ove lo scritto venga ritenuto valido, di pubblicare un primo ebook che diventerà un cartaceo, successivamente.

La raccolta è si rifà ad un insieme di pensieri aforismi, storie e racconti messi in fila e fatti rivivere in forma narrativa.

L’autrice si chiama Maria Iannotta ha 33 anni ed è una giurista d’azienda, e ha sempre amato scrivere, nella scrittura “si rifugia” ha detto più volte la campana.

Il titolo è chiaramente ispirato allo Zibaldone del sommo Leopardi, ove lo stesso raccoglieva pensieri ed aforismi, che è anche l’autore in termini di letteratura del Romanticismo, che l’autrice dell’ebook preferisce.La raccolta racconta, storie, persone, visi, identità miste tra vero e non vero. Tali  storie sono frutto delle attese alle fermate di autobus, in stazione, in aeroporto, figlie i quelle attese, che non finiscono mai di essere.

Il titolo deriva dalla caratteristica della composizione letteraria, in quanto mistura di pensieri, come per l’omonima vivanda emiliana che è costituita da un amalgama di molti ingredienti diversi. Il vocabolo era usato come titolo di opere anche prima in un’accezione non dissimile, ovvero di raccolta disordinata di pensieri, testi e concetti.

Tuttavia proprio dopo la composizione di Leopardi il termine è utilizzato universalmente per indicare annotazioni su quaderni o diari, di pensieri frammentari.

L’opera è suddivisa in capitoli e sotto capitoli che compongono raccolte in raccolte.

L’autrice campana parla di arte in ogni forma all’interno di ogni sua storia, la sfiora, la vive e la usa attraverso i suoi personaggi.

 

 

https://www.ivvi.it/autori/iannotta-maria/

Il mio “Zibaldone”

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