L’Andalusia e il Museo Picasso di Malaga

L’Andalusia è la parte più meridionale del continente spagnolo ed è una delle 17 comunità autonome del paese. Solo uno stretto, lo stretto di Gibilterra, largo 14 chilometri separa l’Andalusia dall’Africa e collega il Mediterraneo con l’Oceano Atlantico. Si dice che l’anima della Spagna vive qui: l’Andalusia, che è soleggiata dal sole, è la regione più meridionale del regno spagnolo ed è nota per il suo piacere nel celebrare, gustare, mangiare e bere. Sherry o vino, olive o prosciutto, pesce o tapas: puoi goderti la cucina andalusa. Le coste dell’Andalusia sono un vero paradiso per la maggior parte dei turisti: spiagge splendide e apparentemente senza fine, una natura mozzafiato e naturalmente l’esclusiva cultura spagnola.

Una delle principali attrazioni è il Museo Picasso di Malaga. Dal 2003, il Museo Picasso si trova nel Palacio de Buenavista, che risale al XVI secolo ed è un tipico edificio andaluso. Fu costruito per fornire a Pablo Picasso nella sua città natale un palcoscenico appropriato per i suoi lavori. In totale, i visitatori del museo possono vedere oltre 200 opere dell’artista dotato nella mostra permanente del museo. La maggior parte delle opere sono state messe a disposizione del museo da Christine Ruiz-Picasso e Bernard Ruiz-Picasso. Oltre a disegni e dipinti, il museo ospita anche sculture e ceramiche.

Il Museo è gestito dalla Fundación Museo Picasso Málaga. L’eredità di Paul, Christine e Bernard Ruiz-Picasso mira a garantire che l’opera di Pablo Picasso sia preservata, esposta, studiata e divulgata. Essa concepisce il Museo Picasso Málaga come un centro di proiezione e promozione culturale e sociale, al quale i cittadini si recano non solo per godere del patrimonio, ma anche per partecipare ad attività educative e beneficiare dei servizi culturali. Juan Manuel Moreno Bonilla, Presidente della Junta de Andalucía, e Christine Ruiz-Picasso sono i Presidenti Onorari. Il Ministro della Cultura e del Patrimonio Storico, Patricia del Pozo, detiene la presidenza del Consiglio di fondazione, che oggi è composto da ventidue membri, con Christine e Bernard Ruiz-Picasso e Juan Alfonso Martos come patroni a vita. I Patroni esercitano la loro posizione a titolo gratuito.

Pablo Ruiz Picasso è nato il 25.10.1881 a Malaga. Suo padre José Ruiz Blasco era un insegnante di disegno. Dal 1898 ha assunto il nome da nubile di sua madre María Picasso y Lopez. È stato un bambino che ha persino messo in imbarazzo suo padre con il suo talento e all’età di 15 anni ha completato l’esame di ammissione all’Art Academy di Barcellona. Dopo un anno suo padre vide che Picasso era sotto-sfidato e lo mandò a Madrid. Lì non solo andò a scuola, ma visitò anche musei e pub di artisti, dove trovò ispirazione. Anche allora ha avuto le sue prime mostre di successo.

Dal 1901 viaggiò regolarmente a Parigi, l’allora capitale dell’arte; un esercizio obbligatorio per giovani aspiranti artisti. Influenzato e ispirato dagli impressionisti Cézanne, Dégas e Toulouse-Lautrec, iniziò a osservare e dipingere estranei della società. Picasso ha iniziato a sperimentare con i materiali. Nel periodo successivo ha inventato il collage e ha realizzato anche sculture che non erano solo fatte di legno, metallo o carta, ma anche di tutti gli altri materiali e oggetti immaginabili.

Ravvivando periodicamente, e quindi rivedendo la propria collezione, il Museo Picasso Málaga segue le orma di Picasso, il quale non ha smesso di innovare la propria arte per tutta la vita. Attraverso un percorso tematico e cronologico, la nuova narrazione espositiva nel Palacio de Buenavista permette al visitatore di approfondire la conoscenza del percorso artistico di Picasso, raggruppando le sue opere in modo da renderne possibile la comprensione dei processi lavorativi.

Così, nella sesta trasformazione avvenuta nelle sale del Palazzo Buenavista da quando il museo ha aperto i battenti nel 2003, saranno esposte fino al 2023 un totale di centoventi opere, frutto della trattativa che sancisce l’impegno del Ministero della Cultura e del Patrimonio della Junta de Andalucía con la Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte (FABA), che è stata ulteriormente rinnovata con un totale di 162 opere di Picasso che verranno aggiunte in questo periodo a i 233 della propria collezione della pinacoteca. La nuova distribuzione che il museo espone dal 1 giugno 2020 deve la sua particolarità ad un innovativo layout scenografico degli spazi museali.

Si compone di 44 dipinti, 49 disegni, 40 opere grafiche, 10 sculture, 17 ceramiche, 1 arazzo e 1 foglio di linoleum. Così, tra le 233 opere di proprietà del Museo Picasso Málaga e queste 162 della Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte (FABA), la collezione conta quasi quattrocento opere di Pablo Picasso datate tra il 1894 e il 1972, di cui 120 le opere sono esposte nel Palacio de Buenavista. Le opere esposte compongono un racconto espositivo che parte dagli anni formativi e percorre i momenti più rappresentativi della carriera dell’artista.

Oggi la maggior parte delle sue opere, oltre 200 dipinti, 160 sculture, collage, disegni e ceramiche sono nel Musée Picasso di Parigi.

 

Fonte

Andalusien, Picasso und ein Golfresort / L’Andalusia, Picasso e un Golfresort

La guerra civile ucraina del 1917-21 vista dallo scrittore Bulgakov. Il caos di Kiev

Durante la guerra civile che imperversò in Ucraina tra il 1917 e il 1921 – ribattezzata dagli studiosi Ukranian-Soviet War – le sorti dei soldati, fossero essi “rossi”, “bianchi” o nazionalisti ucraini, erano nelle mani degli ufficiali medici che seguivano le eterne avanzate e ritirate di tutti gli schieramenti: alcuni di questi medici erano volontari, altri erano obbligati a servire per l’una o l’altra parte pena la morte. È quanto accadde allo scrittore Michail Afanas’evič Bulgakov nel 1919: com’è stato possibile che i Volontari arruolassero uno
scrittore? Come è possibile far coincidere la figura dell’autore del romanzo Il Maestro e Margherita con quella del medico reazionario dei Volontari di Denikin?

La più completa biografia su Michail Bulgakov uscì nel 1988 ad opera di Marietta Čudakova che vi lavorò incessantemente dal 1966, anno della prima pubblicazione sovietica de Il Maestro e Margherita. L’interesse e l’entusiasmo che seguirono alla pubblicazione del romanzo resero palese la totale mancanza di informazioni riguardo il suo autore: non solo non era conosciuto come letterato ma non si sapeva nemmeno chi fosse, dove fosse nato o cosa avesse fatto nella vita.

L’anonimato in cui visse e morì – nel 1940 – Michail Bulgakov affonda le sue radici negli anni ’30 del Novecento, anni turbolenti e pericolosi in un’Unione Sovietica alle porte delle purghe staliniane: in quel periodo, a seguito di numerosi problemi con la censura, Bulgakov scrisse una lettera al Governo dell’URSS chiedendo che gli fosse concesso di vivere pienamente e di scrivere – quindi di espatriare per poterlo fare – oppure che gli fosse dato un lavoro con cui sostentarsi, costringendosi di fatto al silenzio. Stalin stesso rispose a questa lettera con una telefonata, con la quale concesse al letterato un lavoro presso il Teatro dell’Arte di Mosca. Da quel momento in poi, Bulgakov sarebbe caduto nell’oblio fino al 1966.

Riscoprendo la biografia di Michail Bulgakov – nonostante i tentativi sovietici di presentarlo come uno scrittore in linea con il partito
– in aggiunta ad ulteriori opere che sono andate ad arricchire le pagine della letteratura russa e mondiale, sono venuti alla luce stralci
di una vita fuori dall’ordinario.

Il ritrovamento del primo articolo dichiaratamente “bianco” – pubblicato dallo scrittore nel 1920 – e delle Lettere al Governo dell’URSS (1930), ci possono far finalmente apprezzare appieno l’originale pensiero bulgakoviano, inserendolo nel giusto
contesto storico-politico; grazie inoltre alla ripubblicazione del suo primo romanzo La Guardia Bianca – dai tratti autobiografici – è stato possibile comprendere il caos che imperversò a Kiev negli anni tra il 1917 e il 1920.

Attraverso questi scritti è possibile illustrare la Guerra Civile Europea da un punto di vista inedito ma altrettanto vero poiché essi, nonostante siano il contraltare degli scritti rivoluzionari, giacché usciti dalla penna di un intellettuale “bianco” e quindi vinto, descrivono una realtà “diabolica” e mostruosa quanto quella descritta dai vincitori.

Il soggiorno a Groznyj portò con sè l’occasione per Michail Bulgakov di pubblicare su un giornale locale il suo primo articolo. Quest’ultimo cadde nell’oblio ancor prima del suo autore – e per mano di esso – dal momento che, trionfando la Rivoluzione, uno scritto estremamente anti-rivoluzionario avrebbe condannato definitivamente Bulgakov al confino o alla morte.

Egli stesso cercò in ogni modo di nascondere l’articolo reazionario alla vista dei commissari del popolo e agli occhi della polizia segreta: le ricerche della sua biografa, però, l’hanno riportato alla luce negli anni ’70, grazie alle testimonianze di un suo amico e della sua prima moglie che ben ricordavano lo scritto. L’articolo era rimasto sepolto e conservato nella Biblioteca Scientifica dell’Archivio di Stato che aveva tra il materiale raccolto tutti i numeri del giornale su cui era stato pubblicato.

L’articolo, pubblicato il 26 Novembre 1919 e firmato M.B., sintetizza crudamente gli ultimi due anni di guerra civile e il titolo – “Prospettive Venture” – non può che suonare come un ossimoro poiché, non solo l’articolo guarda al passato e alle disgrazie accadute – come fa l’Angelus Novus di Klee nelle tesi di Walter Benjamin – ma non esprime alcuna speranza per un futuro incerto nel quale le colpe dei padri ricadranno sui figli che dovranno pagare “[…] tutto con onestà [e serbare] eterna memoria della rivoluzione sociale!”.

Il testo è un’analisi lucida e consapevole della disgrazia occorsa all’Impero Russo, una catastrofe talmente grande “[…] che viene voglia di chiuderli, gli occhi e dalla quale non ha scampo nemmeno il futuro poiché – secondo Bulgakov – il popolo russo dovrà combattere
ancora per riconquistare tutte le città andate perse nello scontro con i bolscevichi: “Palmo a palmo gli eroici Volontari strappano la terra russa dalle mani di Trockij”, scrive Bulgakov per il quale nessuna delle parti in lotta è legittima se non quella dei “bianchi”.

Egli, infatti, abborre la “rivoluzione sociale” (“la nostra patria sventurata ha toccato il fondo nel baratro della vergogna e della sciagura nelle quali l’ha costretta la grande rivoluzione sociale”) e, allo stesso modo, non può appoggiare i nazionalisti ucraini colpevoli – forse ancor più dei bolscevichi – di voler staccare Kiev, la madre delle città russe, dall’Impero.

Bulgakov è russo e non può tollerare che un’insensato nazionalismo trionfi sull’ancestrale legame che tiene insieme Kiev e la Grande Russia. Non è disposto a compromessi nel momento in cui scrive:

“Ma dovremo combattere, e molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale./ Dobbiamo combattere. […] Pazzi e canaglie verranno cacciati, dispersi, annientati. / E la guerra finirà”.

Queste parole riportano alla mente quelle di un altro russo dalla parte opposta del fronte, il rivoluzionario Victor Serge, che nel suo Ville en danger – pubblicato anch’esso nel 1919 – descrive i meccanismi di questo “annientamento del nemico”:

“Guerra a morte senza ipocrisia umanitaria, in cui non c’è Croce Rossa, in cui non sono ammessi i barellieri. Guerra primitiva, guerra di sterminio, guerra civile. […] La legge è: uccidere o essere uccisi”.

 

Caterina Mongardini

Sulla solitudine, tra sociologia e letteratura del ‘900. Calvino, Pavese, Pasolini, Beckett, Weil, Camus

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire.

Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: “E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente”.

Solitudine: tra sociologia e letteratura

Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale,  si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come l’inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l’illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.

Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini.

Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel Mantovano e in provincia di Padova è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone.

Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell’antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. “Beata solitudo” dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i  giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer.

Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia,  ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l’io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L’amore innanzitutto,  poi l’amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione.

Amore e solitudine

Tuttavia oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: “Porci con le ali” (anni’70), “Altri libertini” (anni’80)  e “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (anni’90).

Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l’università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni’ 90 in poi si avvertiva che l’unica cosa che accomunava la generazione era l’autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro di Isabella SantacroceRimini”, il primo della serie.

Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l’amore possono imbattersi nell’insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall’impersonalità e l’anaffettività.

Come è difficilissimo avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d’amorosi sensi. L’abbraccio è sconosciuto a molti. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un’iniezione.

I grandi mistici e pensatori

C’è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell’anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio.

Anche per Santa Teresa d’Avila l’auto-perfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione.

Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l’anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante.

Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch’essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l’isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull’interdipendenza degli individui.

Calvino, Pasolini, Beckett

In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest’ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un’ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente.

C’è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine,  come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni hanno espresso questa inadeguatezza.

La società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un’omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch’esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un’illusione effimera e momentanea.

Pavese, Bassani, Camus, Pascoli, Lolli

La propria identità sociale si basa sull’appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch’esso un modo per non sentirsi soli. Sartre ne “La nausea” ci comunica che il mondo, l’esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura personificata dall’autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest’ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione.

Thomas Bernhard ne “L’origine” tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L’unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l’orrore inenarrabile e inesprimibile del lager.

Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma fu proprio “la mania di solitudine”, che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Bassani tratta dell’emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne “Gli occhiali d’oro” determinata dall’omosessualità.

Ne “Lo straniero” di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all’assurdo, che sfugge alla nostra logica.

Anche Moravia portò tutto alle estreme conseguenze con il romanzo “1934″. Il protagonista, un intellettuale vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita.

Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Giuseppe Ungaretti scrisse sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale:

“Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia  con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.

Pascoli si sentiva abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrisse: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è “un coltello sporco puntato alla gola”.  Si possono avere molte amicizie e l’amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c’è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

Claudio Lolli, negli anni Settanta cantava questo brano sul suicidio:

 

“Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quante ore, quante ore che ho passato,

Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,

Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

 

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,

Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.

Quanto amore, quanto amore ho riversato.

Nelle cose più impensate e più banali,

Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

 

Le persone che ho fermato per la strada,

Sinceramente possono testimoniare,

Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,

Ieri, prima di essermi impiccato.

Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …”

 

 

 

Corrado Oddi proclamato “Ambasciatore della lettura”

“Ambasciatore della lettura“; è questo il prestigiosissimo titolo conferito all’attore abruzzese Corrado Oddi dal  Centro per il libro e la lettura.

Il Cepell, istituito dal Ministero della Cultura, ha scelto come ogni anno i suoi Ambasciatori tra coloro che si sono maggiormente distinti nelle attività divulgative delle buone pratiche di lettura.

Per il 2021 è stato individuato anche Corrado Oddi per le sue molteplici attività di promozione della lettura a cui partecipa: lezioni mirate a stimolare l’interesse degli alunni verso le opere degli autori studiati nel programma didattico; narrazioni, con voce recitante, di storie, fiabe e leggende con il fine di sensibilizzare piccini e grandi alla lettura espressiva ed al racconto ma anche, e soprattutto, alla letteratura; realizzazione di Storytelling su Dante con il coinvolgimento degli studenti delle scuole superioriLecturae Dantis con l‘obiettivo  di rendere più fruibili ed immediati delle opere di Dante Alighieri, ed in particolar modo della Divina Commedia, quest’anno più che mai in occasione della ricorrenza dei 700esimo anno della morte del Sommo Poeta; e altre iniziative volte ad avvicinare studenti e famiglie al mondo della lettura

Il Ministero ha inteso così riconoscere a Corrado Oddi, laureato in Materie Letterarie, l’impegno profuso negli anni, in varie vesti ma sempre con la stessa professionalità, per la diffusione della cultura del libro a persone di qualsiasi età e di qualsiasi grado di istruzione.

“In un’epoca – scrive Angelo Piero Cappello, direttore del Cepell, nella lettera indirizzata ai nuovi Ambasciatori della lettura- in cui la diffusione delle informazioni trova nel web un formidabile acceleratore, la lettura può essere un antidoto alle false notizie, una palestra di pensiero critico un’opportunità di formazione continua dell’individuo. La lettura è tra l’altro, uno dei pilastri del diritto alla cultura affermato e tutelato dai principi fondamentali della Costituzione”.

Gli Ambasciatori designati, tra i quali Oddi, formeranno diverse comunità digitali, coordinate dal Centro. per promuovere in modo continuativo e strutturato la lettura e la conoscenza in tutte le sue forme. Saranno, inoltre, protagonisti di un evento annuale dedicato, dove potranno confrontarsi.

Sono onorato di ricevere tale riconoscimento. -ha commentato OddiCerco solo di condividere le mie passioni, tra le quali quella della lettura, con tutti: bambini, adolescenti e adulti. Leggere è un viaggio nel lessico, nell’immaginario nell’animo umano; apre orizzonti a mondi straordinari. Come diceva Proust ‘Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi’. Ecco la lettura ci da questi nuovi occhi, ci fa affezionare ai personaggi, alle storie e soprattutto alla vita”. 

 

Elogio dei Giochi Paralimpici, uno schiaffo all’edonismo e al narcisismo

L’estate è ai titoli di coda, e con essa tanti avvenimenti, più o meno curiosi, più o meno importanti in ogni campo sociale, economico, politico, scientifico, culturale e finanche sportivo. A seguito del campionato di calcio europeo che ha visto trionfare l’Italia dopo un digiuno di 53 anni e la splendida olimpiade di Tokyo 2020 – record di medaglie, con, tra gli altri, Tamberi, Jacobs e la staffetta 4×100 che hanno inciso a fuoco per sempre il nome del Belpaese nella storia – questi ultimi giorni e settimane ci hanno portato in dote i Giochi Paralimpici, che si svolgono tradizionalmente sempre dopo la fine dei Giochi Olimpici “tradizionali”.

Felice intuizione dei tempi recenti – a onor del vero una delle poche – i Giochi Paralimpici rappresentano l’equivalente dei Giochi Olimpici per atleti con disabilità fisiche e motorie. Nel 1960 sono nati quelli estivi, mentre nel 1976 si registra la prima edizione di quelli invernali, nel rispetto delle molteplicità degli sport e delle discipline riconosciute.

Sessanta anni fa, quindi, si è promossa la brillante e per certi versi rivoluzionaria idea di attribuire finalmente allo sport in generale quel carattere di universalità e inclusività da tutti sulla carta riconosciuto rispondendo a un tale semplice quesito: per quale motivo anche chi viene definito diversamente abile non può misurarsi in gare, Giochi e competizioni?

Questa domanda ha mosso fin da subito personalità e comitati organizzatori che hanno contribuito in modo decisivo alla nascita delle Paralimpiadi così come le conosciamo oggi; non sempre si è trattato di un percorso facile, non sempre si è trattato di un percorso privo di ostacoli e fraintendimenti.

Quello più aggrovigliato, perché più difficile da districare, è stato – ed è tutt’ora – quello legato ad una improbabile e poco proponibile competizione mediatica tra Giochi Olimpici e Giochi Paralimpici, su chi ha diritto a più visibilità rispetto a che cosa, sullo stabilire se la medaglia dell’atleta paralimpico sia da far risplendere di più rispetto a quella dell’atleta normodotato o viceversa. Mettere in competizione le due manifestazioni, significa non perseguire lo spirito con cui sono nate, oltre che voler livellare ad ogni costo trofei e medaglie, con parametri aprioristici e magari, vista la loro popolarità attraverso codici numeri e statistiche.

Le Paralimpiadi hanno la stessa dignità delle Olimpiadi, pur in condizioni e contesti diversi, non sono né da considerarsi inferiori, né superiori, magari sotto il mal celato velo di qualche atteggiamento di ipocrita compassione.

I giochi paralimpici rappresentano una risorsa in più, mostrabile a tutti, di cosa sono capaci di fare uomini e donne quando fiducia, passione, coraggio, intraprendenza, solidarietà, rispetto e spirito di sacrificio vengono a galla, in tutta la loro meravigliosa potenza e indipendentemente da qualsiasi condizione di partenza.

Ciò non significa, è evidente, che differenza e peculiarità non esistano e che siano da abbattere. Diversità e omogeneità sono due facce della stessa medaglia, due ricchezze non in contraddizione le une con le altre, nello sport come nella vita pubblica o politica: si deve amare la propria Patria come si rispetta e si riconosce la Patria altrui. Così nello sport: si ama il gesto atletico di Filippo Tortu che per un battito d’ali consegna all’atletica leggera italiana la medaglia più importante, allo stesso tempo della staffilata di Bebe Vio, che dopo Rio 2016 si ripete a Tokyo 2020 con un’impresa leggendaria.

A livello mediatico e comunicativo, tuttavia, le Paralimpiadi – è innegabile – pur con evidenti passi in avanti e miglioramenti, non hanno avuto le migliori fortune delle “classiche” olimpiadi: il livello di attenzione, seppur alto, è minore, curiosità e seguito non sono costanti come ci si potrebbe legittimamente aspettare. Colpa o demerito di tutti noi, video-telespettatori interessati.

Al netto dei nostri impegni imperanti, del nostro lavorare 40 (o 50?) ore settimanali per avere un mese all’anno di ferie e del poco tempo a disposizione per svagarci e allietarci, le Paralimpiadi ci mettono davanti ad una realtà che in tanti, troppi facciamo finta di non vedere.

In una società giunta al suo massimo stadio di edonismo e di narcisismo, in cui selfie e foto-ritocchi contano di più della sostanza dei rapporti interpersonali, oberata da un culto individuale fine a se stesso, le immagini degli atleti paralimpici ci infastidiscono, perché ci ricordano quanta sofferenza e quanta difficoltà esiste proprio lì, a due passi da noi.

E non è solo l’aspetto fisico, la disabilità, le menomazioni: riguarda anche fragilità e debolezze di cui ognuno di noi soffre. Guardare le gare di questi atleti ci dovrebbe spingere a vedere l’altro da sé come una forza viva, a renderlo mai fuori posto ma dentro il cerchio tracciato del vivere civile, anche a discapito di una vita tranquilla e priva di scossoni.

Basta poco. Un gesto, un saluto, un sorriso, qualcosa che dica di noi agli altri di più del nostro conto in banca o dell’ultima macchina sportiva che abbiamo festosamente comprato.

Le Paralimpiadi in definitiva interrogano la nostra coscienza, la nostra sensibilità, ci costringono a misurarci con una realtà considerata distante, per poi magari averla a due passi da casa senza accorgersene.

Dovrebbero insegnarci che non con grandi avventure in pompa magna, ma con gesti silenziosi e concreti si costruisce una società più equa, dove quando si intraprendono opere buone “la mano destra non deve sapere ciò che fa la sinistra” con limiti, doveri ed equilibri saldi e ben individuabili.

 

Filippo Massetti

Olimpiadi di Tokyo 2020. L’Italia che corre più veloce e salta più in alto

I 100 metri piani sono la specialità più sublime delle Olimpiadi, la gara regina, perché tutto si gioca in un attimo, il duro allenamento e i sacrifici trovano la loro manifestazione sulla pista rossa che pare avere le sembianze della Terra Promessa.

Ma la terra promessa, la beatitudine si raggiunge proprio nel Giorno del Giudizio; lo stesso giorno, quando l’infinito e l’immortalità si concentrano in movimenti perfetti, in muscoli scintillanti.

In questo giorno psiche e turbamento si fondono nel fisico alchemico dell’atleta che ha fatto del suo corpo strumento di lavoro, perché noi siamo corpo. Il corpo modellato perché ogni microscopico muscolo è un perla rara da donare al vento, alla corsa, agli applausi, ai flash dei fotografi, alla rivoluzione delle statistiche e dei primati.

Stavolta a trionfare alle Olimpiadi, nei 100 m non è stato un americano o un jamaicano, bensì un italiano, di origine texana, dal sorriso disarmante e padre, a 26 anni di tre figli. Il suo nome è Lamont Marcell Jacobs che insieme al marchigiano Gianmarco Tamberi, 28 anni (oro nel salto in alto), hanno regalato all’Italia una grande impresa.

L’Italia che faticava a trovare l’oro ai Giochi di Tokyo è anche quella delle prime volte sorprendenti e memorabili. L’altra faccia del medagliere, nel quale gli azzurri non sono ancora alle posizioni del passato, racconta una verità finora passata sottotraccia e portata ora alla ribalta dal lampo di Marcell Jacobs, splendido campione olimpico sui 100 metri, cosa mai vista anche ai tempi di Berruti e Mennea, e di Tamberi, oro ex aequo nel salto in alto. Un’impresa mai compiuta da atleti azzurri alle Olimpiadi in una domenica del primo mese di agosto che rimarrà nella storia dello sport.

L’uomo che corre e l’uomo che si alza più alto. Il primo è una falena che si dimentica di se correndo, illuminato all’improvviso, pronto a scoppiare in un lampo, il secondo vuol sentirsi mancare la terra sotto i piedi, magari indietreggiando prima di compiere il gesto che lo renderò immortale. Perché indietreggiare è pensare prima di buttarsi, è vivere, e lo si fa per saltare meglio.

Questi cavalieri dell’atletica mentre saltano e mentre corrono probabilmente hanno già vinto perché si avventurano laddove il cielo e la terra non sono divisi. C’è stata divisione di oro invece, per il salto in alto, due atleti reduci dallo stesso infortunio che hanno entrambi meritato di salire sul gradino più alto del podio e deciso di non andare allo spareggio, ma di abbracciarsi e condividere la medaglia più importante.

Che non ci sia qualcosa di zen e apocalittico nell’atletica?

 

Italia campione d’Europa: il volto della vittoria

Le gesta dei campioni sono previste dai tratti del viso, dall’ego del corpo. Naturalmente non fanno eccezione i ragazzi della Nazionale d’Italia, campioni d’Europa dopo più di 60 anni, per la seconda volta il cui volto e corpo raccontano molto.

Il viso è la nostra impronta digitale, il corpo non è il carcere dell’anima ma il suo stampo, non una protesi ma l’ipotesi con cui perforiamo il cerbero del giorno.

Per questo, cerchiamo, a volte, di contraffare le sembianze, di mascherarci, di dotare il viso di un destino ulteriore. Sfasciare un viso significa insistere sulla sorte e sulla fama di chi lo indossa: si mira al volto perché quello è il cuore dell’uomo; si boxa per ridurre in poltiglia la sorte dell’avversario.

A Bisanzio, alla sconfitta politica seguiva la tortura del viso: si cominciava segando il naso, poi mozzando le orecchie, infine cavando gli occhi. Diventare irriconoscibili, cioè: abitare la morte, orfani di futuro. Il ricorso, costante, alla chirurgia estetica mira anche a questo: camuffare la sorte.

Un viso può essere, per istanti miracolosi, costituito dalla somma di più volti. Nell’Italia che ha vinto gli Europei, ad esempio, nessun viso spicca con ineluttabile potenza: forse quello di Federico Chiesa, ampio, anomalo, spavaldo, ricorda quello di Alessandro Magno nel mosaico della Casa del Fauno. Il viso da scugnizzo e il corpo minuto ma agile di Lorenzo Insigne.

Pur avendo un volto tipizzato, scaltro, poco appariscente, Insigne è capace di colpi micidiali, ma estemporanei: così regna il fato. Lionel Messi ha la faccia di un tonto ed è il più grande calciatore del pianeta; anche lui, come Michael Johnson, muta fattezze giocando, si accende, brucia di una nobiltà irrequieta.

Di Chiellini è leggendario il cranio ciclopico, un titano; di Jorginho l’azzardo facciale di un Peter Pan; dagli occhi stretti, felini, di ‘Gigio’ Donnarumma qualcuno avrebbe potuto intuire che a 22 anni sarebbe stato una ‘certezza’ della Nazionale italiana – ma lui ha mani più significative dello sguardo.

Più interessante la trasfigurazione di Roberto Mancini: di lui si rammenta il naso, deciso, il ciuffo, la mascella, un volto nostalgico e scaltro, rapito dalla noia, eroe della dissipazione e del ‘bel gesto’; ora è spigoloso, lucido, perfino fosforescente, in estasi per la strategia, eroico nel calcolo. Il genio della Nazionale è proprio lì: nell’assenza di un volto che primeggia, di una prima donna, di un prim’attore. Insieme, tutti, compongono il volto della vittoria.

Quando l’arte fa riflettere su noi e il Covid: un video originale per celebrare l’artista internazionale Santiago Ribeiro

L’Arte può essere divulgata in modo originale e divertente soprattutto in questo periodo così complicato. La tecnologia è fondamentale e in tal senso, tre italiani hanno deciso di promuovere l’arte surrealista di Santiago Ribeiro attraverso un video che spinge a guardare in modo diverso quello che sta accadendo riflettendo su tematiche fondamentali quali il significato dell’inconscio e il ruolo delle pulsioni quando ci trova private della propria libertà e delle proprie abitudini.

 

Un video tra arte, poesia e recitazione

L’arte ancora una volta può suggerire qualcosa di estremamente concreto su noi stessi e sul momento storico che stiamo vivendo.

Essa infatti può e deve sconfinare nella psicologia e nelle neuroscienze, parlando direttamente alla mente umana alla coscienza, all’istinto, all’inconscio che a volte non si riesce a tenere a bada mentre ci si confronta con il nemico invisibile dei nostri giorni quale è il Coronavirus? Nello specifico si parla di un video molto originale in cui arte figurativa, poesia, recitazione e musica si fondono per far vita ad una visione di noi stessi: L’attore romano Maurizio Bianucci, premio Crocitti 2019 e interprete di numerosi personaggi in teatro, al cinema (come “Suburra”, “Fuorigioco”, “L’amore a domicilio” e fiction targate RAI, conferisce inquietudine, solennità, tormento e profondità ai versi del poeta siciliano Vincenzo Cali’, vincitore dei prestigiosi Premio Garcia Lorca e del Premio A.S.A.S., che accompagnano le opere dell’artista portoghese Santiago Ribeiro, il surrealista più famoso al mondo che ha fondato il movimento internazionale “New Surrealism Now”.

L’arte è sempre più social

Il titolo della poesia è “Profluvi”, contenuta nel video d’arte, più che azzeccato per esprimere i deliri dell’ego umano che ai tempi del Coronavirus e racconta l’oscurità delle nostre personalità rese ancora più angoscianti dalla voce di Maurizio Bianucci, ben calibrata sia sulla musica che sulle parole della breve ed enigmatica poesia che lascia parlare proprio l’inconscio.

L’attore romano riesce a far uscire dallo schermo le figure di Santiago Ribeiro, le quali, cieche e nude, in quanto libere da qualsiasi autocontrollo e raziocinio, seguono le loro pulsioni, i loro istinti, magari la loro frustrazione per il lockdowne tutte le misure restrittive che devono giustamente rispettare. Alcuni infatti, insofferenti alle regole, trasgrediscono, altri diventano protagonisti di giornate quotidiane grigie dove la parola d’ordine è resistere e districarsi tra zone gialle, bianche, rosse, arancioni.

Il poeta siciliano Vincenzo Calì

 

L’arte social che fa riflettere grazie un video dedicato a Ribeiro

Il punto cruciale della questione che ci vuole mostrare il video è il libero arbitrio, ovvero il fatto che ognuno di noi è responsabile delle proprie azioni, sebbene ad una prima impressione, ad uno primo sguardo al video, può apparire l’esatto contrario, ossia che il surrealismo di Ribeiro neghi la libertà di scelta, in quanto gli esseri umani non sono altro che “macchine biologiche” che rispondono ad un determinismo ontologico, il quale però, da solo, non riesce a spiegare l’intero funzionamento della realtà fisica. In tal senso l’opera di Santiago Ribeiro non deve considerarsi un manifesto del riduzionismo materialista, semmai un invito ad interrogarci sul complesso rapporto mente-cervello che sono in un reciproco rapporto causale che ci porta alla fatidica domanda: può il nostro cervello essere considerato alla stregua di un hardware?

L’attore romano Maurizio Bianucci
Il video, che attua la cosiddetta eterogenesi dei fini, ovvero, attraverso “la visione di quello che potrebbe essere se”, ci induce ad aspirare ad altro e a renderci sempre più consapevole della contraddizione tra la necessità e il bene e, ritrovando il fondamento vero della dignità e del valore di noi esseri umani, per non essere né ciechi, né nudi e vagare nella perenne incertezza, contiene questo interrogativo, perché anche l‘arte deve incrociarsi con la scienza e parlare dell’essere umano e di come e perché vive determinate situazioni e perché è tanto difficile sopportarle, cercando di guardare ad essere da un’altra ottica.
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