The big eyes

The big eyes, il film più anomalo di Burton

The big eyes (2015) di Tim Burton ha vinto il Golden Globe per la miglior attrice protagonista (Amy Adams) ed è stato candidato ad altre due statuette, tra le quali quella per la miglior colonna sonora, affidata alla voce di Lana del Ray. Il film è un biopic che non è piaciuto agli adepti burtoniani, ha deluso gli affezionati e la critica ma ha conquistato il pubblico “contrario”, quello cioè che non ama il Burton gotico ed espressionista. Una pellicola anomala questa, che ha ottenuto il favore di quella parte di pubblico che gli è sempre stata ostile. Un buon lavoro, dunque. In effetti un artista non dovrebbe fare proprio questo? Muoversi contro-corrente, spaziare laddove non si è mai spinto? Oltre i limiti del conforme a…? Conforme a chi poi? A quello che è già stato? Un regista è ciò che che non è mai stato, può creare microcosmi e mondi paralleli, ma a volte decide di scendere a fumare una sigaretta con i comuni mortali. Non significa fallire ma sperimentare, sviscerare, svuotare un baule pieno di quel che è già stato visto.

Partiamo dalla trama. The big eyes, almeno  in superficie- narra la storia del pittore Walter Keane che negli anni 50-60 ebbe un sonoro successo con dei dipinti che ritraggono bambini dagli occhi a forma di “frittelle”, grandi ed espressivi. Peccato, però, che Walter non sia il vero autore dei cosiddetti “occhioni”; è invece sua moglie Margaret, vittima di una frode progettata dal marito entro le mura domestiche, a dare vita a queste opere intrise di sentimentalismo in un momento storico dove dominano la pop art e l’astrattismo. Inizia così una sequela di affermazioni, comportamenti che suggellano Walter Keane come l’artista kitsch del secolo scorso, fino a quando la donna non confessa.

Fu uno scossone, un allagamento, un’invasione di cavallette per la critica ufficiale e spinse a riflettere: l’arte è ciò che piace al pubblico o ciò che la critica definisce bello? Diatriba millenaria. I quadri di Keane ritraevano piccoli, melanconici orfanelli. L’unica caratteristica permanente in essi erano gli occhi: grandi ed innocenti che fanno pensare quasi ad un pesce palla, bagnati di lacrime spesse e cocenti. I bambini si “sparsero”ovunque. Divennero stampe, poster, cartoline: la riproduzione seriale segnò la fine dell’esclusività di ogni singola opera e afflosciamento creativo di Margaret che, a un certo punto, perse la sua verve e realizzò un autoritratto riecheggiando lo stile di Modigliani. Margaret per anni continuò a firmare le sue opere con il cognome del marito. La donna, innamorata del secondo marito, non si accorse però che quella concessione si sarebbe trasformata in un vero e proprio crimine, e non solo dal punto di vista penale. Ma come mai i dipinti ebbero tutto questo successo? Se guardiamo i dipinti ci accorgiamo che non è vero che siano tutti uguali, (come gran parte della critica sostiene) ripetitivi e asemantici. Sono molto più di quello che è stato superficialmente etichettato come kitsch. Emozionano. Fanno riflettere. Commuovono. Fanno ridere. Stimolano la fantasia, proprio come il film di Burton che può essere letto in tre modi: Il primo è relativo alla storia di due pittori: da una parte c’è quella del presunto, affascinante barattiere di intenti che frodò la sua compagna per la mania di “diventare artista a tutti i costi”, e dall’altra c’è la storia di lei, Margaret, ingenua e romantica madre degli orfanelli. La seconda storia che il regista visionario racconta è quella di una donna ferita, umiliata, depauperata. Privata della proprietà intellettuale dei dipinti, ma non solo. Obbligata a chiudere ogni rapporto con la sua migliore amica e con la figlia e vittima della propria fragilità. Costretta a vivere in una condizione quasi di prigionia, a custodire un segreto ignominioso più della frode stessa. Alcuni si sono chiesti perché il regista abbia sbilanciato tutto il peso della sceneggiatura su Walter Keane.

The big eyes è anche la storia di una donna suo malgrado sottomessa per amore; e veniamo alla “terza storia” che vede protagonisti assoluti proprio gli occhi. Ovviamente nessuno può dire con certezza che cosa Burton abbia voluto comunicare a critica e pubblico. Il regista sta attraversando un periodo sentimentalmente deludente e non di rado ciò influenza l’ispirazione; si può azzardare nel dire che egli abbia trovato un alibi alla nebulosità mortifera dei contrasti di film come La sposa cadavere Dark shadows, un’alternativa che coniughi i colori (già riscontrati in Big Fish), la vitalità dei primi piani, la sobrietà del vero, la semplicità della cronaca, il kitsch come giusto antidoto al canone, il ritmo allegro da (tragi)commedia tutti ospiti del quadro cinematografico. Forse in questo Burton c’è poca bizzarria: il regista lascia agire lo spettatore. E’ lui a decidere perché Margaret ha deciso di tacere, e si chiede, che cosa sono quegli occhi neri? La firma d’autore, ma di quale autore? Di Burton o di Margaret? O di entrambi? Si potrebbe ipotizzare perciò un processo di immedesimazione del regista nella persona di M. Keane che non riesce e a liberarsi da una crisi che la soffoca, fino al momento della sua conversione al nuovo. Burton è in crisi? Probabile. Ma è anche possibile che questo sia il punto più significativo della sua carriera cinematografica. Un passo in là dalla paura, si aspetta il capolavoro.

 

di Donatella Conte

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