Senza dubbio la cultura letteraria novecentesca ha rinvenuto una proiezione speculare di sé più nelle fome del barocco piuttosto che in quelle rinascimentali e del classicismo cinquecentesco, esprimendo la propria identificazione con le immagini della dissonanza, smarrendo ogni tensione verso gli ideali di unità e integrità propri di un’idea classica di letteratura. Pensiamo a Luigi Pirandello e alla sua pratica dell’arte del contrasto e della contraddizione, distonica con i canoni della tradizione letteraria, che però esprime un giudizio sulla civiltà letteraria del rinascimento e in particolar modo su uno dei suoi massimi rappresentanti, Ludovico Ariosto, positivo ma a tratti ambivalente.
Pirandello discute il tema della Retorica, ovvero l’insieme delle codificazioni, del sistema di regole di origine classica entrate in crisi con il romanticismo:
<<La Retorica, insomma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, erano già belli e pronti, tagliati tutti sui modelli antichi, o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi>>.
Ma se Pirandello parla dei danni incalcolabili prodotti dagli schemi della Retorica, egli respinge generalizzazioni e codici astratti; la sua polemica non investe il rinascimento come idealità grande che ha illuminato il mondo, ma funzionalizza il discorso sul rinascimento e in particolare su Ariosto alla sua poetica, in cui si preoccupa di giustificare storicamente quella poetica, tracciando un quadro della tradizione dell’umorismo. La mente va inevitabilmente alle pagine dell’Avvertenza che Pirandello ha apposto in appendice alla terza edizione del Fu Mattia Pascal, specialmente dove egli ironizza sui critici idealisti ansiosi di ribadire che l’umanità sia qualcosa che consiste più nel sentimento che nel ragionamento.
Pirandello e l’umorismo
Nella prima sezione del saggio L’umorismo, il diagramma storiografico dell’umorismo appare come un movimento di trasgessione nei confronti dei canoni vincolanti di moduli retorici, basato sulle leggi di imitazione e ripetizione; la letteratura umoristica in Italia è stata alimentata, secondo Pirandello, da scrittori toscani di cui il capofila è stato Cecco Angiolieri, che lo scrittore siciliano definisce “di popolo”, ovvero lontani dalla scuola e dunque maggiormente inclini a distaccarsi dalla Retorica. Il riso italico nemico della Retorica è una forma di sconnessione anche se non è possibile identificarlo con l’umorismo in senso stretto in quanto quest’ultimo ha bisogno di una drammatizzazione e di un’immersione dell’autore stesso nel dramma, aspetto, questo, che non si riscontra mai nella poesia cavalleresca; da Pulci ad Ariosto prevale una forma di ironia che riduce o annulla contrasti troppo violenti, che invece esploderanno in Cervantes. Ariosto non scrive, come Pulci, per parodiare la “lingua buffona del popolo”, né come Boiardo, per “buon tempo e gradito sollazzo” al pubblico; Ariosto è più “serio” da questo punto di vista.
Pirandello parte dalla considerazione che bisogna respingere l’idea sostenuta dal filologo Rajna, secondo cui l’autore dell’Orlando furioso con sorriso incredulo trasforma in fantasmi i personaggi dell’Orlando innamorato; al contrario egli dà a quei personaggi ciò che a loro manca: consistenza e fondamento di verità fantastica e coerenza estetica. Ma in questo gioco, spesso irrompe la realtà, quella del presente e si dispiega l’ironia che però non stride. Significativo a tal proposito è il commento dell’episodio del castello di Atlante dove si incastonano, nota Pirandello, due magie: il poeta diviene un mago e fa entrare Angelica viva nel castello. Ad una prima finzione si sovrappone una seconda finzione, quella di Angelica resa invisibile dal suo anello. In Ariosto, secondo l’autore siciliano, l’ronia discoglie la realtà come dimostra anche l’episodio del volo di Ruggiero sull’ippogrifo.
Insomma anche quando il poeta con la magia dello stile riesce a rendere più solida la realtà, all’improvviso essa si posa sulla realtà effettiva, rompendo l’incanto della fantasia. Il gioco di Ariosto dunque, secondo Pirandello, mira a stabilire in continuazione un legame tra sé e la materia, tra le condizioni inverosimili del passato e le ragioni del presente. Dove non è possibile stabilire tale legame, ecco che interviene in maniera armonica l’ironia.
Bibliografia: A. Saccone, Qui/vive/sepolto/un poeta, Liguori editore.