Si ricordi di me se in qualsiasi momento il mio aiuto potrà servire a mantenere vivo il ricordo di un mio vecchio amico per il quale ho sempre nutrito affetto e stima. A lei, cara Signora Schmitz, e a Sua figlia tutta la nostra solidarietà. Sono le ultime righe della lettera di James Joyce del 24 settembre 1928 spedita a Livia Veneziani, rimasta vedova dopo che, undici giorni prima, Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, era deceduto a seguito delle complicazioni di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.
All’epoca Joyce viveva da tempo a Parigi, era fra gli autori più famosi a livello internazionale a seguito della pubblicazione di Ulisse e da alcuni anni si stava dedicando alla scrittura di Finnegans Wake. Italo Svevo, rimasto per quasi tutta la vita in ombra come scrittore, ebbe solo pochi anni per godersi la tanto agognata fama infine riconosciutagli in Europa e soprattutto in Italia, a seguito dell’uscita nel del suo ultimo romanzo La Coscienza di Zeno, grazie agli interventi del suo amico James Joyce in primis e di Eugenio Montale poi.
Grazie del romanzo con la dedica. Ne ho due esemplari anzi, avendo già ordinato uno a Trieste. Sto leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il suo migliore libro.
(Lettera di James Joyce a Italo Svevo del 30/1/1924)
I due si conobbero presumibilmente fra il 1906 e il 1907 a Trieste, città nella quale Joyce, abbandonata l’Irlanda nel 1903, viveva assieme alla compagna Nora e al piccolo Giorgio. Galeotto fu l’inglese, la lingua che Svevo doveva perfezionare per i suoi viaggi di lavoro per conto della ditta di vernici del suocero, durante quel lungo periodo in cui si trovò a trascurare la sua passione letteraria, scottato dagli insuccessi dei suoi primi due romanzi, Una vita e Senilità, stampati a sue spese sul finire del secolo XIX. Anche Joyce era ancora distante dalla fama che otterrà negli anni ’20, avendo da poco pubblicato il suo primo libro, la silloge poetica Musica da Camera, con scarso riscontro di vendite e critica. A Trieste però era già un rinomato insegnante di inglese per la Berlitz School, cosicché Svevo, vent’anni più grande di lui, non se lo lasciò sfuggire e le lezioni cominciarono.
Ciò che dal loro incontro fece fiorire una vera amicizia non fu però tanto l’inglese, quanto la passione per la scrittura che li accomunava; fin dai primi incontri si confessarono le reciproche predilezioni letterarie e si scambiarono i propri scritti. Joyce lesse i due romanzi di Svevo e ne rimase colpito, Svevo ebbe la possibilità di trovarsi fra le mani i manoscritti dei primi capitoli del Ritratto dell’Artista da Giovane e di ascoltare dalla stessa voce di Joyce la lettura di alcuni dei racconti che sarebbero anni dopo confluiti nella raccolta I Dublinesi. L’amicizia era iniziata.
Caro Sig. Joyce, molte grazie per il Suo gentile regalo. Può immaginare con quanta attenzione leggerò il lavoro del mio maestro e amico. Sicuramente parlerò del nuovo libro con tutti coloro che credo possano essere interessati a un’opera in inglese di contenuto irlandese. […] Spero che presto mi offrirà l’opportunità di parlare con Lei delle tante Sue pagine che ho avuto modo di leggere.
(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 26/6/1914)
Già dalle lettere che si scambiarono è evidente come nel tempo il loro legame si fece duraturo e solidale. Svevo aiutò più volte economicamente Joyce, sempre a corto di denaro, e Joyce, quando divenne famoso con Ulisse, riuscì a rendere famoso anche il suo amico con La coscienza di Zeno, che uscirà nel 1923, un anno dopo Ulisse. Sono infatti proprio le pagine dei loro grandi romanzi a restituirci e confermarci ancora oggi le tracce delle loro intese.
Possiamo riconoscere molti aspetti tipici di Italo Svevo in Leopold Bloom, il protagonista di Ulisse, fra cui il fatto di essere entrambi ebrei ribattezzati di origini ungheresi, nati in una patria assoggettata (Dublino sotto l’impero britannico e Trieste sotto quello austro-ungarico). Così come fu lo stesso Joyce a informare l’amico di essersi ispirato a sua moglie, Livia Veneziani, per il personaggio di Anna Livia Plurabelle in Finnegans Wake: i suoi lunghi capelli biondo-rossastri gli ricordavano il fiume Liffey di Dublino, del quale la protagonista del libro diviene personificazione. Pochi mesi prima della sua improvvisa scomparsa, Svevo scrisse a Joyce di volergli fare dono di un ritratto della moglie dipinto da un noto amico e pittore triestino, Umberto Veruda:
Vorrebbe Lei averlo? Dica in una cartolina postale la sola parola sì ed io glielo invio. Senza il Suo consenso non oso inviarLe il ritratto di mia moglie. Di lavori di Veruda io ne ho molti, e in quanto al soggetto io mi tengo caro l’originale.
(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 27/3/1928)
Senza dubbio si trattava di un’amicizia sincera e fiduciosa, considerata la sfrenata gelosia che legava entrambi gli scrittori alle rispettive consorti. I loro libri sono pieni di riferimenti ai loro impeti possessivi. La gelosia di Joyce aveva un’azione persino “retroattiva”, coinvolgendo anche gli amanti che Nora aveva avuto prima di conoscere lui (fattore che ispirò il tragico racconto di Gretta Conroy ne I Morti).
Ho paura che mi venga mostrata anche solo un ritratto di te da ragazza perché penserò “allora né io conoscevo lei né lei me. Quando andava a messa la mattina, a volte lanciava lunghi sguardi a qualche ragazzo per la strada. Agli altri ma non a me”. Ti chiedo, mia cara, di essere paziente con me. Sono assurdamente geloso del passato.
(James Joyce > Nora Barnacle, 21/8/1909)
Mentre nella Coscienza, gli effetti della gelosia di Zeno gioca d’anticipo sul futuro, fin oltre la fine della propria vita:
Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.
In Senilità, il romanzo si Svevo a cui Joyce era più affezionato, si narra quella che oggi definiremmo una “relazione tossica”, fra la giovane Angiolina e l’assicuratore Emilio tormentato dai sospetti di tradimenti della ragazza, in cui è coinvolto anche l’amico artista Stefano Balli, che in spavalderia e virilità tanto somiglia a Buck Mulligan e Blazes Boylan, gli antagonisti di Stephen Dedalus e Leopold Bloom in Ulisse.
Anche Bloom sa che la moglie Molly lo tradisce con Boylan e questo pensiero lo rincorre e lo rattrista durante tutta la giornata del 16 giugno 1904 in cui si svolge il romanzo e durante il quale Bloom si ritrova a girovagare per tutta la città di Dublino, fra osterie, ospedali, farmacisti e persino un funerale, pur di ritardare il ritorno a casa, dove la moglie l’avrà tradito nel loro stesso letto. Ulisse in fondo è la storia di un funerale e di un tradimento, di amore e di morte – quest’ultimo altro argomento cruciale che lega le vite e le opere dei due scrittori.
Sede degli affetti. Cuore spezzato. Dopotutto una pompa, che pompa migliaia di litri di sangue ogni giorno. Un bel giorno si blocca ed eccoti lì. Ce ne sono molti qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite: al diavolo tutto il resto. La risurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto.
(Ulisse, episodio VI, Ade)
L’argomento era già esplicitato nel titolo citato I Morti, celebre racconto conclusivo della raccolta I Dublinesi, ma anche nell’ambientazione del primo che fra questi Joyce era riuscito a far pubblicare su rivista, Le Sorelle, che si apre con l’agonia e poi la morte di padre Flynn. Guido, il cognato-antagonista di Zeno, si suicida, così come Alfonso, il protagonista di Una vita, il primo romanzo di Svevo. Di suicidio morì in Ulisse anche il padre di Bloom, mentre di morte prematura suo figlio Rudy. Stephen Dedalus, già fin dalle prime pagine del medesimo romanzo, è ossessionato dalla tragica morte della madre, per cui indossa ancora l’abito a lutto, e il ricordo delle allucinazioni di lei ci riportano a quelle di Amalia, la “pallida sorella” malata di Emilio in Senilità. Laddove nella Coscienza è il mirabile racconto del padre che con uno schiaffo in punto di morte si imprime sulla mente, oltre che sulla guancia, del protagonista, Zeno, l’inetto e il malato ipocondriaco assillato dalla morte:
M’ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso o un riso altrettanto lieto.
Se però provassimo a seguire il filo delle ossessioni dei due autori, ne incontreremmo tante altre ancora e probabilmente le più celebri sarebbero anche quelle più meschine o meno elevate: l’alcol per Joyce e il fumo per Svevo. Del suo vizio l’autore irlandese non si esprimeva tanto nelle sue scritture private, quanto nelle sue opere; in particolare si ricorderanno gli episodi notturni di Ulisse, dalla conclusione del quattordicesimo al quindicesimo che devono il loro stile visionario e allucinato alle alterazioni etiliche dei personaggi, e quello successivo, il sedicesimo, scritto nella “prosa rilassata”, tipico dei postumi da sbornia.
Eccerto, sì. Che dire? Alla taverna. Sbronzi. Ti ho viscto, scignore. Bantam, due giorni sciobrio. Trincando nient’altro che chiaretto. Ma dai! Tiello d’occhio, eh. Mioddio, io sia dannato. E al barbiere se n’è andato. Troppo colmo per le parole. Con un tale delle ferrovie. Come mai stai così? L’opera gli andrebbe? Rosa di Castiglia. Cosa di Famiglia. Polizia Stradale! Un po’ di H2O per un uomo svenuto.
(Ulisse, episodio XIV, Armenti del Sole)
Mentre Svevo del suo vizio del fumo, oltre a intitolarne il primo famoso capitolo della Coscienza, ne tratta maniacalmente anche nei suoi scritti personali, specie quando si tratta di sconfessare ogni intento a smettere:
Fumo al solito come un turco e non vedo vicino il momento in cui saprò disfarmi di questa odiosa abitudine più gravosa ancora quando ho qualche sopracapo perché allora fumo il doppio.
(maggio 1898)
È chiaro che negli anni in cui stavano esordendo le prime teorie psicanalitiche e Svevo stesso, che padroneggiava la lingua tedesca, poté avvicinarsi direttamente ai primi scritti di Freud, la domanda non poteva che essere: può la psicanalisi guarire dalla nevrosi, dalla malattia, dall’ossessione, dal vizio? Svevo considerava Freud un grande uomo “più per i romanzieri che per gli ammalati”; c’era da capirlo, dato che l’affezionato cognato Bruno Veneziani, affetto di disagi psichici e dipendenze, fu giudicato inguaribile da Freud in persona, il quale tuttavia non si fece scrupoli a presentare la parcella a trattamento fallito. Così come nella Coscienza di Zeno, da sempre presentata scolasticamente come un romanzo psicanalitico, apprendiamo fin dall’inizio il disappunto dello psicologo per essere stato piantato in asso dal paziente e protagonista del libro.
E Joyce? Non la pensava tanto differentemente, se consideriamo che il suo più grande dolore fu quello di non essere riuscito a prendersi cura di una figlia schizofrenica, l’amatissima Lucia, la quale a seguito dell’infruttuosa terapia di Jung finì i suoi giorni lontano dalla famiglia in un ospedale psichiatrico; la psicoanalisi, secondo Joyce, è una forma di ricatto: “se ne abbiamo bisogno, teniamoci alla confessione”.
Fu con le loro opere che i due grandi scrittori riuscirono ad arrischiarsi nell’oceano delle ossessioni, delle gelosie, dei vizi, delle malattie. Si sarebbe dovuto attendere che la psicanalisi si evolvesse almeno fino agli sviluppi di Lacan, il quale decise di lasciare la mano di Freud come guida per prendere quella di Joyce: colui che attraverso le sua arte riuscì a permettere che dentro di sé il proprio processo di sintomi, ovvero il modo in cui l’inconscio funziona procurandosi godimento, lavorasse non più al costo della sofferenza del soggetto, bensì, incredibilmente senza alcuna seduta analitica, agganciandolo alla sua soddisfazione.
La salute non analizza se stessa e neppure si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi.
(La Coscienza di Zeno, La moglie e l’amante)
I due scrittori avevano compreso fin dalle prime giovanili esperienze con la penna fra le dita, che attraverso la loro arte non dovevano aspettarsi di guarire, ma di poter parlare di loro stessi, nella loro reale quotidianità, fra desideri e delusioni, propositi disattesi e riconoscimenti inaspettati: la creazione artistica non poteva prescindere dalla loro stessa autobiografia, dal consapevolezza di esistere, dal ritrovarsi al mondo fra cose visibili e invisibili, dal conoscerle e dal conoscersi, dall’incontrarsi e dall’essere amici.
[Per approfondimenti si consiglia l’intervista “Joyce + Svevo. Con Enrico Terrinoni, Andrea Pagani, Riccardo Cepach”, online su YouTube: https://youtu.be/cCoRJdXBwCM ]