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Silenzio, dettaglio e utopia nell’opera di Paolo Volponi, tra Adriano Olivetti e Pasolini

Nonostante intorno all’opera di Volponi si registri ormai un notevole risveglio di interesse, confermato dalla pubblicazione di due raccolte di letture critiche e di alcuni scritti inediti, permangono delle zone d’ombra su questioni teorico-letterarie di indubbia importanza, nonché su alcuni aspetti, e non quelli meno significativi, inerenti alla precisazione della sua poetica, soprattutto correlati all’apporto degli intellettuali con i quali lo scrittore urbinate intratteneva costanti scambi culturali; il riferimento è a Leonetti, Roversi, ma anche a Fortini, Pampaloni e Giudici che lavoravano con lui alla Olivetti di Ivrea e, in particolare, a Pasolini che Volponi ha sempre considerato uno dei suoi maestri: «dico sempre – dichiarava in un’intervista rilasciata nel 1988 e pubblicata dopo la sua morte – che ho avuto due maestri nella vita, uno è Pier Paolo Pasolini, l’altro è Adriano Olivetti».

L’umanesimo industriale di Olivetti nell’Italia del dopoguerra

Breve parentesi storica: nel 1950 Adriano Olivetti lanciò sul mercato la moderna e innovativa macchina da scrivere Lettera 22. Il progetto dell’imprenditore era quello di rendere una simile invenzione alla portata di tutti. Questo traguardo fu ben presto raggiunto e la Lettera 22 entrò nelle case e negli uffici di milioni di italiani, fra cui scrittori e giornalisti come Enzo Biagi, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Oriana Fallaci, diventando – al pari della Vespa Piaggio e della Fiat 600 – simbolo dell’Italia della ripresa economica del dopoguerra e della modernizzazione. Un successo del genere fu reso possibile anche grazie a una comunicazione vincente e innovativa, fondata sul rapporto pubblicità-poesia, curata dal poeta Franco Fortini.

Adriano Olivetti era convinto, infatti, che umanisti e intellettuali potessero non solo innovare forme e linguaggi stantii, ma anche offrire risposte concrete a quella domanda (retorica) pronunciata davanti agli operai di Pozzuoli in occasione dell’apertura della nuova fabbrica: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?”. Attraverso l’integrazione e la cooperazione fra formazione tecnico-scientifica e umanistica, Olivetti dimostrò come fosse possibile un tipo diverso di fabbrica, attenta oltre che al profitto ai diritti, al benessere e alle emozioni del lavoratore, capace di alimentare la “sua fiamma divina” e di essere uno strumento di “elevazione e riscatto”.

A dimostrazione che l’acuto ingegnere credeva fortemente nella formazione letteraria e nell’importanza dello studio delle materie umanistiche, tanto bistrattate oggi, fu quindi istituita una politica di selezione del personale che, ai livelli più alti, si basava sul “principio delle terne”: per ogni nuovo lavoratore tecnico che entrava a far parte dell’azienda ne veniva assunto uno di formazione economico-legale e uno di formazione umanistica. Inoltre, nacquero una biblioteca aziendale, aperta nella pausa pranzo, e un centro culturale dove venivano organizzate mostre d’arte e conferenze con poeti, storici, registi, psicologi.

La letteratura secondo Paolo Volponi

Fin dalle prime considerazioni di Volponi sulla letteratura si desume che il ruolo di chi scrive non è mai separato da quello complementare del lettore, la cui funzione di ‘accompagnamento’ rimane imprescindibile ancora negli ultimi scritti degli anni Novanta. Il rapporto tra le due entità pragmatiche della comunicazione (testo/lettore) si gioca costantemente sull’asse dinamico azione/reazione senza, però, che i termini dell’endiadi definitoria intrattengano fra di loro una relazione strettamente meccanicistica.

Volponi precisa che il trasferimento di informazioni presuppone una partecipazione attiva e competente da parte di chi deve interpretare il testo che non deve esaurirsi di fronte alle prime difficoltà di comprensione: queste, secondo Volponi, sarebbero riconducibili esclusivamente alla cattiva disposizione del fruitore e sarebbero frutto di un certo tipo di scrittura troppo indulgente nei confronti di un gusto ben diffuso per una letteratura leggera, facile, che immediatamente faccia capire tutto a tutti, negazione in termini del concetto stesso di letteratura.

La poesia come integrazione dei processi logici e creativi

Il romanzo secondo Volponi, dunque, non si deve limitare a registrare gli eventi attraverso modalità di narrazione convenzionali, dolci dice Volponi; deve, al contrario, impegnarsi a rompere gli schemi del reale, andando ansiosamente al di là delle accomodanti regole imposte dalla sfera sociale tradizionale: dalle crepe del conflitto tra realtà e società nascono i romanzi migliori, quelli che si sottraggono a codici rigidi e univoci: l’opera narrativa non può rifarsi a una ricostruzione del reale di stampo positivistico, né ricercare ostinatamente un’esibita e inerte (che etimologicamente equivale a ‘senza arte’) rappresentazione della deviazione da una norma, sia essa formale o no.

Volponi prende così le distanze da una certa avanguardia, quella dei «Novissimi», con Sanguineti in testa, troppo legata a suo avviso ai concetti di crisi e di letteratura come esercizio laboratoriale fine a se stesso e incapace, così condotta, di proporre valori nuovi e diversi. A essa Volponi preferirebbe, allo stesso modo di Pasolini, una forma di sperimentalismo che miri maggiormente al conflitto e alla ricerca.

La poesia di Volponi opera un’integrazione viscerale e biologico-umorale dei normali processi logici e creativi, ferma restando una periodicità
tematica e immaginativa che, in ogni caso, la discosta dalla ‘rivolta assoluta’ propria dei canoni surrealisti. Nel ripetersi delle unità metriche potrebbe scorgersi una qualche coerenza in grado di controllare la descrizione dell’evento insensato. Di fatto, Volponi propone una sorta di frottage del reale con vocazione visionaria. L’iterazione di occorrimenti sia tematici che sintattici, anche attraverso la figura retorica dell’enumeratio, appoggia una ridondanza dell’immagine che ne disturba la percezione e sanziona la vacuità dello sforzo interpretativo.

Il realismo esistenziale di Volponi

Con Le porte dell’Appennino Volponi racconta, dunque, il reale mediante lo stesso realismo esistenziale delle prime raccolte, ma senza i toni ermetici, raffermi di quelle: adesso sviluppa un tema iniziale, primordiale, secondo un passo pienamente diegetico. All’interno della raccolta del Sessanta, valuterò il modo in cui l’inciso che Volponi ha riservato alle cause prime del suo destino d’amore (sostanzialmente la sezione intitolata Le belle Cecilie) è supportato da un lessico e da alcuni concetti di chiara impronta astrologica che si stagliano su uno sfondo verbale medio e su spunti di psicologia elementare.

Una psicologia dotata, però, di una prospettiva ontologica allargata che non è mai – come aveva già notato Pasolini a proposito delle prime
prove del poeta urbinate – «adamantina e frigida»; si riscalda adesso ancor più nella fusione finalmente sensuale, perché ora voracemente rivolta all’oggetto, di Io ed Es. Sempre Pasolini aveva efficacemente sintetizzato la tensione del verso volponiano mediante la duplice endiadi «sesso-campagna»e «eros-stagione» di nuovo efficace per restituire il vigore (quell’accento virile scorto da Fortini) dei versi pubblicati nel Sessanta.

Il pensiero di Volponi è, dunque, sempre segnato dalla sistematicità di una tensione utopica verso la ricostruzione: l’uomo alla fine dell’uomo (o comunque chi vive in un universo senza tempo, ma già sedimentato in esperienza culturale umana) non è più un crocevia di grovigli; è piuttosto uno spazio vuoto senza autocoscienza. Tale soggetto dovrebbe, invece, intrecciarsi con l’oggetto, vi si dovrebbe sovrapporre e insieme resistergli, ponendosi come entità dinamica e incoerente.

La scissione diventerebbe così tanto componente interna del conoscere, forma della conoscenza continuamente superata, quanto condizione strutturale esteriore, ma mai fissa. Nel precisare ciò, Volponi sposta continuamente il discorso dal conflitto reale a quello di un soggetto collettivo disgregato e inconsapevole.

 

Fonte Alessandro Gaudio

About Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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