Gustave Thibon e Pier Paolo Pasolini, personalità estremamente differenti ma simili; vite e sensazioni diverse, dai gusti netti, radicali, ma intimamente anelanti il sacro. Da più di una decina d’anni, probabilmente una ventina, descrivendo l’epoca nella quale viviamo – o per meglio dire, sopravviviamo – accademici, sociologi e politici non fanno altro che ripetere che tutti gli schematismi nei quali si era immersi sino alla caduta del muro di Berlino, non hanno più alcuna valenza, se non quella assegnata loro dalla storia. Ecco allora che politicanti affaccendati – un po’ per esprit democristiano mai sopito, un po’ per mostrare di saperne qualcosa – si sforzano di ripetere con meticolosi gargarismi che destra e sinistra non esistono più. Non ha senso dividersi, non vi è ragione di identificarsi in categorie morte, ma di puntare alla prassi, al fattuale, al concreto.
Inconsapevolmente affermando ciò si è già creato un divario, una diga. In nome della “concretezza” si è delineato un modo d’essere, prima ancora che di operare, che incide a fuoco, marchia la “modernità”. Un giovane friulano dal temperamento riflessivo, presto rifugiatosi nella capitale, non poté che approcciarsi alla visione di questo passaggio di epoca, in maniera tragica, persino schizofrenica. In una celebre lettera-articolo indirizzata a Calvino, il quale lo rimproverava di essere un “nostalgico dell’Italietta”, Pasolini non esita a rispondere che è di una civiltà ormai eclissata che ha nostalgia, di un mondo antimoderno, contadino e preindustriale… Non per niente, egli aggiunge:
dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo.
(8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino).
Qual é la reale portata dello Sviluppo? Egli si guarda attorno, si pone domande, riflette, cerca risposte che cozzano con il mondo che lui più di ogni altra cosa ama. I paesaggi della sua terra natia, i dialetti friulani, le borgate romane, scompaiono dinanzi all’incedere della peste consumistica che omologa, avviluppa, trascina perfino i corpi in una uniformità di sguardi, di fattezze esteriori. L’ideologia del consumo
è un nuovo potere che mi è difficile definire: ma di cui sono certo che è il più e totalitario che ci sia mai stato: esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze
(11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia).
Ecco allora che un j’accuse schietto, tanto irrispettosamente garbato quanto intellettualmente onesto, si impone – in primis – contro quei compagni che sbagliano ostinatamente miopi che non hanno o non possono avere la capacità di vedere ciò che li circonda. Il poeta friulano non si rivolge ai brigatisti ma all’intero PCI, che saluta come vittorie di civiltà l’aborto e il divorzio, non capendo che la partecipazione delle masse alle grandi decisioni storiche formali è in realtà voluto dal potere; il quale ha appunto bisogno di un consumo di massa e di una cultura di massa. La massa partecipante, inoltre, anche se formalmente comunista o progressista, è manipolata dal potere attraverso l’imposizione di altri valori e di altre ideologie: imposizione che viene nel vissuto, e nel vissuto avviene anche l’adozione.
La televisione – in questo processo – ha un ruolo altamente rivoluzionario, il più totalitario e soverchiante che ci sia mai stato, perché apparentemente soft, lento nel lacerare tessuti e ferite ma non altrettanto docile nell’essere letale. Pasolini non ha dubbi: mai un modello di vita (edonistico) ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. La televisione non spiega astrattamente, racconta rappresentando, salta ogni filtro teorico, lo schermo fa e in quel fare, invita a fare.
Ma in nome di cosa allora si è restii ad accettare l’epoca della modernità, il tempo nel quale il consumismo ha il ruolo di primo protagonista nello sfaldamento di un mondo in cui ogni appartenenza, identità, sacralità è bandita? In nome della “terra”, in nome del “reale”, si risponderà. Un naufrago non si accontenta del salvagente, esso può essere un valido aiuto, un concreto appiglio per non affogare ma non dà certezze a lungo termine. La speranza, nell’intimo dell’individuo, in quei momenti, si salda in maniera inossidabile con la natura ragionevole, rendendosi in tal modo riconoscibile come pienamente “umana”, quanto la vita stessa, o forse ancor più. Ciò è confermato dal fatto che ogni disastro che si produce nell’intimo dell’uomo – per poi avere ripercussioni ben più ampie – procede da una mancanza o vera e propria assenza di speranza.
Ma alle menzogne dei “nemici invisibili”, di cui parla l’Apostolo nell’ultimo capitolo della lettera agli Efesini, la “terra” nella sua imperturbabile fermezza, fertilità, dipendenza offre verità. La terra è scuola di verità: al tempo stesso essa frena gli istinti di dissoluzione e favorisce la salute dell’anima e dei costumi; essa aiuta l’uomo ad essere sé stesso, difendendolo contro sé stesso (G. Thibon, Ritorno al reale, Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, Effedieffe).
Così si esprime uno che ai campi, ai grandi spazi da lui tanto amati, ci ha “consacrato” la vita, fuor di ogni esagerazione. Le philosophe-paysan, il filosofo contadino, come veniva chiamato – scoperto da filosofi del calibro di Jacques Maritain e Gabriel Marcel – è indubbiamente una delle figure più paradossali e straordinarie del ‘900, come ci testimoniano le parole di Gabriel Marcel nella prefazione ad una delle sue opere più conosciute:
Chi è dunque […]? Un religioso? O piuttosto un professore universitario? Un filosofo di professione? Un economista? Un medico? Niente affatto: è un contadino, nel senso più preciso del termine…[…] Non ha altro diploma, che io sappia, oltre la licenza elementare.[…] E per un caso fortunato uno dei suoi compagni che aveva ereditato una biblioteca la mise a sua disposizione. Senza mai trascurare il proprio lavoro, egli trovò il modo di imparare da solo il latino a fondo, il greco, il tedesco e le matematiche, di leggere i filosofi e i poeti: conosce migliaia di versi a memoria.
Un uomo dall’acume sottile e dalla intelligenza cristallina cui gli appare naturale, quanto il sole del mattino che nasce già alto nelle torride albe di agosto, dare risposte, analizzare la società in cui egli si sente estraneo e che rifiuta. Il pensiero di Thibon si tocca con mano e non è frutto di un autodidatta ma di un uomo che ha avuto per maestri i libri: dall’analisi della modernità, passando per le storture dell’ambiente cittadino corroso dal consumismo e dalla tecnica più sfrenata. Egli individua nell’artificialità delle relazioni sociali che contraddistinguono l’uomo divenuto borghese, nel senso del superfluo che attanaglia l’intera esistenza odierna, nella mancanza di ogni fine superiore che giustifichi l’agire quotidiano, alcune delle peggiori calamità del mondo moderno. Ciò è possibile in un tempo in cui si è perduto il senso di tutto, in cui si vive di menzogna per mascherare la sete di assoluto, di realtà – in definitiva – di autentica felicità di cui ciascun individuo ha ineluttabilmente bisogno. La rivolta contro lo spirito del borghese in Thibon, il quale non desidera illuminare gli uomini con la sua luce, ma aiutarli soltanto a contemplare meglio il sole, non poggia su una veste romantica o semplicemente declamatoria tipica del Decadentismo, essa poggia su di un terreno stabile:
E non soltanto la terra non mente, ma non permette all’uomo di mentire: essa guarisce l’uomo dalla menzogna. In altri campi (nelle professioni liberali e amministrative in particolare) si può pascere di illusioni, circondare di un falso prestigio, incutere rispetto agli e a sé stessi: la sanzione dei fatti è vaga e lontana… Questa possibilità di illusione non esiste nella vita dei campi.
Come un duro lavoro riserva a fine giornata la gioia sofferente di aver adempiuto al proprio dovere, allo stesso modo la terra diviene fonte di felicità. Anche Pasolini nella sua vasta produzione più volte mette in risalto questo dato, spesso con delle modalità espressive discutibili – si pensi ai suoi film -, le quali pur tuttavia lasciano intatto il messaggio di fondo che intende dare.
Dinanzi a dicotomie politiche fuorvianti, a pretese polemiche sul nulla, a paradigmi epocali edificatisi su di una falsa libertà, bisognerebbe sforzarsi di tornare di tanto in tanto alle origini, alla “nostra terra” che è la nostra anima. Scrutarla, non temere di avvicinarvisi, scovare il “moderno che è in ognuno di noi” e lentamente abbatterlo con una lieve ma letale poesia, che potrebbe iniziare così:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.[…]
(P.P. Pasolini)
Fonte: L’intellettuale dissidente