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Giorgio Franchetti, autore di Sangue sulla decima legione: “l’epoca romana è un materasso culturale su cui si adagia tutto il mondo”

Giorgio Franchetti, autore di libri come Pane et circenses, Sangue sulla decima legione e A tavola con gli antichi romani, che uscirà nel mese di maggio, è tra i più interessanti ed originali scrittori del filone storico, grande appassionato di storia romana, epoca che considera giustamente “un materasso culturale per il mondo intero”. Franchetti ha frequentato il liceo scientifico Pasteur di Roma, dove si è formato sulle discipline scientifiche per poi iscriversi all’Università, inizialmente alla facoltà di Biologia della Sapienza, a Roma.
Ben presto capisce che la sua vera strada era un’altra e su suggerimento di un amico archeologo si iscrive all’Università della Tuscia, alla facoltà di Beni Culturali con indirizzo archeologico ricevendo una formazione nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e archeologica.

Franchetti ha lavorato molti anni a contatto con troupe televisive, per la realizzazione di fictions, film e documentari, acquisendo una ampia conoscenza delle tecniche di regia e ha scritto testi, anche in latino, per scene di ricostruzioni storiche ambientate in musei e siti archeologici.

A differenza dei romanzi storici in commercio, quelli ambientati nell’antica Roma, che sono pieni di aquile, di imperatori, di frasi con grosse parole, di “romanità”, di super soldati che uccidono tutti e parlano con frasi da oratori consumati, di onore, un libro come Sangue sull’ultima legione ci fa conoscere soprattutto la storia dove i personaggi di fantasia interagiscono con quelli che Giulio Cesare pone sul campo di battaglia.

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L’autore Giorgio Franchetti

 

1. Quanto ha contato ai fini della sua produzione letteraria, l’essersi formato nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e archeologica?

Certamente molto. Penso che dovrebbe essere una materia di studio già dalle medie o dal liceo. Viviamo in uno dei tre paesi al mondo con maggiori rilevanze archeologiche e forse in quello in cui vengono meno sfruttate per il turismo e sicuramente in quello in cui, i cittadini stessi, meno le conoscono. Trovo che questo sia paradossale. Vivere a Roma e non saper riconoscere tanti monumenti o vestigia archeologiche girando per la città è inaccettabile quando migliaia di turisti vengono a visitarle da ogni parte del mondo. I miei libri sono scritti in maniera semplice proprio perché destinati al vasto pubblico, nella speranza che i lettori possano trovare qualche spunto di riflessione e approfondimento per continuare poi a leggere altri libri, continuare a informarsi, magari a visitare di persona i monumenti. Molti Romani moderni non entrano nel Colosseo o nel Palatino dall’epoca della loro ultima gira elementare. E molti raccontano leggende che non hanno nulla a che vedere con la storia. Un esempio? Ogni tanto mi è capitato di sentire ancora chi racconta che lo Stadio di Domiziano, a piazza Navona a Roma, veniva utilizzato per le naumachie, le famose battaglie navali che mai piacquero veramente ai Romani e che si esaurirono nell’arco di poco più di un secolo. Una cosa, questa delle battaglie navali, mai verificatasi in quello spazio che ospitava lo stadio dove si tenevano le competizioni di atletica, e che su un lato aveva un alto porticato, quindi impossibile da allagare anche volendo. Fra l’altro proprio colui che edificò lo stadio, Domiziano, fu lo stesso che mise definitivamente fine alle naumachie nel Colosseo, costruendo i sotterranei che ospitarono le belve, i gladiatori e le scenografie che servirono all’allestimento di secoli di giochi. Ho dedicato un capito a questa cosa nel mio saggio sui gladiatori. Ecco, quando dico che mi prefiggo di divulgare la storia a un pubblico eterogeneo e non accademico mi prefiggo anche di correggere interpretazioni errate come questa.

 

2. Come nasce questa passione per l’antica Roma?

La prima a piantare il seme di questa curiosità verso la nostra cultura storica romana è stata mia madre. Una donna che non ha potuto continuare gli studi ma che ha letto libri, per lo più saggi storici, per tutta la sua vita, e che possiede una incredibile conoscenza del mondo antico, da quello Egizio a quello Etrusco, per finire alle civiltà dell’America precolombiana. Da piccolo andavamo spesso al centro di Roma per trovare i miei nonni e ogni volta che passavamo di lato al Colosseo mia madre, nel tentativo di tenere buono un bambino abbastanza irrequieto, mi raccontava quella che poteva sembrare una favola: “quello lì è il Colosseo. Tanti tanti secoli fa si riempiva di antichi romani che andavano lì dentro per vedere combattere i gladiatori, con spade, reti e tridenti…”. Tutto questo era sufficiente a calmarmi e a tenermi incollato ai vetri dell’86 barrato che transitava su Via dei Fori Imperiali e che era del modello a due piani, poi scomparso. Io pulivo il fiato che si condensava sul vetro col braccio e guardavo fuori, sognando questi combattenti. Beh, tutto, possiamo dire, è cominciato da lì. Ed è proseguito poi perché ho incrociato sulla mia strada una maestra di scuola elementare “illuminata”, che ha favorito la mia curiosità verso la storia antica, Paola Fontana, che è stata tra l’altro una dei correttori di bozza del mio romanzo storico. Quindi possiamo dire che la curiosità per quello che di antico, e di romano, c’è a Roma e nel mondo è nata con la mia infanzia e poi non si è mai più fermata. Girando poi in lungo e largo l’Europa prima e quasi tutti i continenti poi (ad eccezione dell’Antartide) ho avuto modo di vedere dal vivo tantissime opere romane sparse per il bacino del Mediterraneo e di constatare come l’epoca romana sia, ancora oggi, un materasso culturale su cui si adagia il mondo intero; se pensiamo a quanto i Romani hanno dato alla giurisprudenza, all’ingegneria e a tantissimi altri campi dell’operato moderno dell’uomo.

3. Cosa dovremmo “imparare” dai romani?

In questi tempi la prima cosa che mi viene in mente è certamente l’apertura mentale. I Romani erano molto cinici: se rispettavi le leggi di Roma, l’imperatore (o i consoli), pagavi i tributi e non insorgevi, potevi tranquillamente conservare il tuo re, i tuoi dei, venerare i tuoi idoli e continuare ad avere una tua legislazione parallela. I Romani non hanno mai fatto guerre di religione e quelle in Giudea non lo erano se non per il fatto che lo stato giudaico stesso era uno stato non laico ma basato sulla religione. Possiamo dire che le guerre di conquista della Giudea o di soffocamento delle rivolte, sono state guerre di religione indirette, non tese alla supremazia di un culto sull’altro ma di un popolo sull’altro. Oggi dovremmo recuperare un po’ di apertura mentale, di tolleranza e tornare a pensare che l’importante non è il culto bensì il rispetto delle leggi e il pagamento dei tributi allo Stato in maniera proporzionale e da parte di tutti.

4. Cosa dovrebbe fare un buon saggista-scrittore per rendere abbastanza leggera e godibile una lettura di questo tipo a chi vi si avvicina per la prima volta?

Beh, dovrebbe cercare di parlare la lingua di tutti. Non è una cosa semplice. In pratica, dovrebbe cercare di mettere per iscritto quello che direbbe a voce, in una normale conversazione su questo argomento, a un amico o un conoscente. Quindi potrebbe farsi questa domanda: “se un mio amico mi chiedesse di spiegargli qualcosa sul fenomeno storico dei gladiatori (o su qualsiasi altro argomento storico), cosa gli direi?”. Purtroppo a volte, nello scrivere i saggi, si è troppo presi dall’ostentare la conoscenza dell’argomento e si finisce per fare l’errore di usare parole molto tecniche, che sono ignote ai più, o addirittura spaventano, con il risultato che il libro ne esce molto appesantito e diventa poco comunicativo. Si può tranquillamente, secondo me, raccontare un argomento anche con parole semplici senza per questo diminuirne lo spessore culturale o divulgativo. Anzi, tutto il contrario. Un libro scritto in linguaggio prettamente accademico non sarà mai un libro di divulgazione perché verrà cercato e letto solo dagli accademici. Ma così facendo l’informazione non circola e resta tutta lì, nella stretta cerchia di chi studia un argomento. Se chi scrive un saggio, come mio caso, si ripropone invece di spargere il più possibile un concetto presso il pubblico deve scrivere in maniera tale da raggiungere sia chi ha un background accademico, sia chi, per scelta o per forzatura, non ha potuto studiare. Ecco, solo così, a mio avviso, si fa divulgazione. Quindi i saggi devono essere scritti in questo modo. Inutile gongolare nella propria cultura e scrivere parole come “dendrocronologia”, meglio invece scrivere che esiste una tecnica di datazione basata sulla crescita degli anelli concentrici dei tronchi d’albero e spiegare bene come funziona.

5. “Sangue sulla decima legione” è un thriller storico che riesce anche a commuovere. E’ stata una scelta ben precisa quella di dare maggiore spazio all’umanità e meno al machismo?

Assolutamente sì. I romanzi storici in commercio, mi riferisco a quelli ambientati nell’antica Roma, sono pieni di aquile, di imperatori, di frasi con grosse parole, di “romanità”, di super soldati che uccidono tutti e parlano con frasi da oratori consumati, di onore, di genialità, di “rambismo”. Io volevo restare coi piedi per terra e parlare anche e soprattutto di storia. Infatti la storia di finzione si intreccia esattamente con la storia raccontata nel De Bello Gallico. I personaggi di fantasia interagiscono con quelli che Cesare pone sul campo di battaglia. Io sono andato a riempire, con la finzione, i vuoti narrativi. Per raccontare la storia, in maniera indiretta. E la storia racconta sempre di grandi personaggi che però senza quelli più piccoli, gli sconosciuti, quelli che la Storia (volutamente maiuscola) ha cancellato avrebbero mai portato a termine le imprese per le quali sono diventati famosi? Non sempre. Cesare non poteva certo combattere da solo in Gallia. Qualche soldato lo nomina lui nei sui libri, eternandolo, ma gli altri? Quanti piccoli eroi ci saranno stati nell’universo di sconosciuti? Quindi il mio personaggio, Lucio Valerio Seiano, è un centurione fuori dai soliti cliché, è un contadino in prestito alla guerra. Non è nato a Roma, come altri personaggi di libri, ma nel meridione, a Nola, e non è un genio. Tutt’altro. E’ un soldato che si ritrova suo malgrado alle prese con un grandissimo problema, un presunto traditore nella sua legione, e un incarico, quello di scovarlo e consegnarlo a Cesare, che non ha mai affrontato prima e non sa da che parte cominciare. Non è certo un investigatore, è abituato a vedere il proprio nemico palesemente sul campo di battaglia e invece in questo caso il suo nemico si nasconderà, e anche molto bene. Non è un caso che avrà vicino, in questo compito di indagine per lui assolutamente inusuale, una donna a consigliarlo e a farlo ragionare, apportando quindi un lato diverso da quello esclusivamente “guerriero” che è in lui. Inoltre potrà contare sull’aiuto di un “tecnico”, una grande mente, un greco, il medico della sua legione. Quindi Seiano non è un “ammazza-tutti”, e anzi farà molti errori in questo suo cammino di indagine. Ho voluto disegnare un uomo qualunque, pieno di difetti e di errori propri dell’essere umano e in tutto questo è emersa una grande componente di umanità che ha dato all’intero libro un taglio che forse, all’inizio, neanche io immaginavo. Specie nel finale, che in un certo senso, si è scritto quasi da solo. Chi lo leggerà capirà cosa intendo. Spesso, durante le presentazioni di questo romanzo, mi è stato chiesto quanto c’è di mio nel personaggio di Valerio Seiano. La risposta è semplice, utilizzando una metafora: se fosse un vestito, beh, mi starebbe a pennello addosso.

6. Perché i gladiatori erano così amati e al contempo sbeffeggiati?

Jerome Carcopino scrisse che la questione dei gladiatori andava cancellata dalla storia romana perché esprimeva una delle più grandi contraddizioni dei nostri antenati: da una parte un popolo pieno di cultura che si manifestava sotto tanti campi dell’opera umana, da una parte l’assurdità della ferocia dei giochi gladiatori. Questa contraddizione esisteva però anche in epoca antica, quando i gladiatori erano considerati “infames” (che non si traduce come subito verrebbe alla mente) quindi non degni di gloria e ricordo, posti sull’ultimo gradino in basso nella rigida scala sociale romana insieme alle prostitute e agli attori di teatro. Non degni di ricordo, dicevamo. Non si doveva parlare di loro né tantomeno scrivere. Eppure questi reietti (solo sulla carta) erano fatti oggetto di una vera e propria venerazione da parte della stragrande maggioranza dei Romani. I campioni erano richiesti e non solo come combattenti nelle arene ma anche come ospiti in ricche cene o banchetti, e venivano fatti oggetto di desiderio da parte delle ricche matrone che potevano pagare anche salato un incontro galante col loro gladiatore preferito. Pensate che una tal Eppia, moglie di un senatore, fuggì con un gladiatore, Sergiolus, cioè “Sergetto”, piccoletto e pieno di ferite! Tanto che su questo scherza il poeta Marziale quando si chiede perché mai le ricche matrone trovassero interessanti questi uomini, a volte deturpati da cicatrici o menomati. E finiva col concludere che le donne amavano la loro sfrontatezza di fronte alla morte, il loro sfidare il fato, il loro vivere combattendo. In una parola, concludeva Marziale giocando su un equivoco piccante, alle donne dei gladiatori piaceva “il gladio…”. Se togliamo l’imperatore Commodo che viveva una vera ossessione per questi personaggi, i gladiatori erano amati o sbeffeggiati in virtù dell’indole del singolo spettatore. I più li amavano, pur tifando per questo o per quell’altro, perché fondamentalmente avveniva una sorta di identificazione tra pubblico e combattente, dove il pubblico, il singolo spettatore, si identificava col suo gladiatore preferito perché faceva quello che lui non aveva il coraggio di fare: scendere nell’arena e rischiare di morire. Certamente va fatta una distinzione importante: ad essere amati erano quelli che combattevano e cercavano di restare in piedi, non quelli che venivano venduti come carne da macello alle palestre gladiatorie né tantomeno i condannati a morte, che non avevano alcuna arma per difendersi, il più delle volte. Ecco, se volessimo fare un parallelismo, potremmo senz’altro dire che quello che maggiormente oggi si avvicina alla figura storica del gladiatore è il giocatore di calcio. Entrambi strapagati, se campioni, entrambi cercati e circondati dalle donne, entrambi invocati nelle arene o fischiati.

7. Prossimo lavoro in cantiere?

Sto lavorando su due fronti. Il prossimo mese uscirà, sempre per le Edizioni Efesto per le quali sono curatore di due collane, una appunto di saggi storici e l’altra di romanzi, un saggio molto particolare, un viaggio attraverso il gusto dei nostri antenati culturali. Si tratta di un compendio sull’alimentazione al tempo dei Romani, dal titolo “A tavola con gli antichi romani”. Il tutto nasce da una semplice domanda: come mangiavano gli antichi Romani? Beh, se oggi certamente è semplice rispondere alla stessa domanda riferendoci a qualche città o regione italiana o a qualche paese nel mondo snocciolando una serie di piatti tipici, riferendoci all’epoca romana la risposta si fa molto più complessa. Questo perché ovviamente il territorio e la sfera di influenza della civiltà romana si sono espansi nel tempo, inglobando nuovi territori e quindi acquisendo nuove risorse agricole e alimentari, e venendo a contatto con nuovi popoli che avevano proprie abitudini. Inoltre, in considerazione della rigida divisione sociale romana, bisognerebbe anche fare degli esempi in base al ceto, perché i poveri e poverissimi non mangiavano come i commercianti, anche se plebei, tantomeno come i patrizi. Quindi, prima di rispondere alla domanda su come mangiassero i Romani bisognerebbe rispondere ad altre domande specifiche come “in che momento della loro storia?” e anche “in quale classe sociale?”. Il mio saggio è quindi un vero e proprio viaggio alla riscoperta di tutto questo, analizzando l’evoluzione del cibo che si incontrava sulle mensae, a partire dai trenta populi albenses che abitavano l’area di Roma, o meglio della Roma protostorica, fino ad arrivare agli eccessi imperiali e alla nuova religione del tardo-impero, che porterà delle modifiche, non sostanziali ma di forma. Ma questo libro andrà ancora più a fondo, raccontando delle abitudini di popoli precedenti ai Romani e da cui questi presero molto, tratterà dei traffici di cibo lungo il Mediterraneo, tratterà dei “luoghi” del cibo, quindi popinae, cauponae e thermopolia analizzando le varie differenze, e della vendita ambulante. Tratterà degli utensili da cucina, quelli strettamente legati all’ambiente dove si cucinava e quelli, incredibili, da portata; che facevano bella mostra di sé nelle sale tricliniari delle ricche domus. Ma non solo. Parleremo anche di un annoso problema: quello della conservazione del cibo. Sì perché se per noi aprire e chiudere il frigorifero è un gesto tra i più frequenti nell’arco della giornata, i Romani non avevano questa comodità moderna e dovettero escogitare una serie diversa di metodi per preservare il cibo. Non potevano mancare in un libro simile tantissime ricette, riprese da Columella, da Varrone, da Catone e soprattutto da Apicio, ne fornisco moltissime scelte tra quelle che potrebbero meglio adattarsi ai moderni palati e le ho ricostruite insieme all’archeo-cuoca Cristina Conte, esperta rievocatrice di antichi sapori, che ha collaborato a questo libro curando espressamente la parte delle antiche ricette. Questo saggio è, come detto, in uscita il mese prossimo, ma sto già da settimane lavorando al prossimo, che spero vedrà la “luce”, o meglio, la libreria, il prossimo Natale. In questo caso la faccenda si fa seria, perché si parla di Cesare. E’ stato veramente detto tutto su uno degli omicidi più famosi, insieme a quello di JFK, della storia? O c’è qualcosa che ancora non sappiamo? Abbiamo sempre puntato il dito contro Casca, Aquila, Cassio, Bruto, ma hanno agito da soli? O c’era un oscuro “mandante”, qualcuno che è stato così bravo da celarsi per quasi duemila anni, insospettato? Beh, ultimamente si sta molto “rileggendo” questo episodio fondamentale nella storia romana e io ho una teoria, già vagamente accennata da qualcuno in qualche conferenza, che voglio indagare a fondo. Quindi, come in una vera indagine poliziesca, un vero “cold-case”, esaminerò la scena del crimine, le armi del crimine, ascolterò i testimoni (che sono le fonti storiche: Plutarco, Svetonio, Cassio Dione, Velleio Patercolo, Appiano), ascolterò il parere del patologo forense che esaminerà l’autopsia eseguita dal medico di Cesare, Antistio, ascolterò una psicologa per tracciare un profilo psicologico della vittima, farò una ricostruzione vivente dell’omicidio per analizzare bene la dinamica e tutto questo porterà alla formulazione di una teoria, particolare. Che non posso svelare qui, chiaramente. Il libro si intitola “IDI DI MARZO – GLI ULTIMI GIORNI DI CESARE”, e ci sarà anche un vero count-down delle sue ultime 48 ore e, dopo l’ora “zero”, rappresentata dall’omicidio, avvenuto intorno alle 11, ci saranno le 48 ore successive, dense di avvenimenti importantissimi per la storia di Roma. Una grande avventura e una grandissima emozione quella di scendere nel buio dei secoli per provare a squarciare un velo su alcuni fatti mai spiegati nella vita di questo grandissimo personaggio storico. Così come grandissima è stata l’emozione vissuta lo scorso anno, durante le prime fasi della mia inchiesta, nello scendere fisicamente dentro Largo Argentina a Roma, nell’Area Sacra, per raggiungere il punto preciso dove Cesare cadde sotto i colpi dei cesaricidi, in quel lontano 15 marzo del 44 a.C., nella parte terminale della Curia di Pompeo.

8. Quale scrittore di questo filone ammira di più, e si ispira a lui?

Mi piacciono alcuni autori, sia di saggi che di romanzi storici, ma penso di non avvicinarmi nel modo di scrivere a nessuno di loro, e questo per me è un bene. Ho avuto modo di lavorare di fianco a un grandissimo divulgatore come Alberto Angela e di lui apprezzo, più di chiunque altro, il modo di poter spiegare le cose con parole molto semplici, dirette a tutti. Trovo che questa sia una capacità straordinaria e quindi il suo successo non è certamente casuale, ma ampiamente meritato.

 

 

About Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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Davide Grittani è giornalista, scrittore, consulente della comunicazione per aziende ed enti pubblici, editor e consulente di case editrici. Direttore del periodico di sicurezza alimentare BLab Magazine. Editorialista del Corriere del Mezzogiorno è autore del romanzo Il gregge (Alterego edizioni), presentato da Wanda Marasco al Premio Strega 2024. Il libro, pervaso da uno spiccato senso di indignazione, veicola l’idea dell’importanza di ripristinare la funzione etica e sociale dei mestieri intellettuali, soprattutto in un momento di forte crisi dell’editoria italiana come questo.