Hillaryous Jokes o la campagna elettorale a stelle e strisce

«Sapete quando si dice “Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”?!»
A questa uscita l’intero staff scoppiò all’unisono in una fragorosa risata, mentre colei che ne era l’autrice, abbozzando un mezzo sogghigno da maestrina saccente, finiva di tracannare il doppio bourbon on the rocks che impugnava saldamente, senza intanto staccare mai gli occhi dalla fotografia sulla prima pagina del quotidiano nazionale che reggeva con l’altra mano.

Strizzava gli occhi miopi fino a farne due fessure pur di non dover perder tempo a cercare gli occhiali da vista, mentre ancora una volta osservava l’uomo ritratto nella foto di repertorio: abbottato e largo come un guardaroba quattro stagioni, i vestiti fatti su misura che gli cadevano comunque male addosso prendendo un aspetto sciatto e dozzinale, una carnagione che aveva il colore delle arance californiane in piena maturazione, con quel pastone di autoabbronzante e di cerone corpirughe spalmatoci sopra a palettate e – ciliegina sulla torta – quel pennacchio improponibile che aveva come massiccio riporto sopra il capoccione, proprio di chi non sia mai riuscito a digerire la propria genetica predestinazione alla calvizie.
Un pagliaccio! Ecco cos’era. E l’aspetto fisico era il meno: quanto al resto, beh, ne sparava di certe da far scordare le peggiori figuracce di Bush Junior. Era un gaffeur nato, uno che non sapeva mai stare al suo posto. Era… l’avversario perfetto!

Più che semplicemente osservarlo si può ben dire che lo ammirasse in qualche maniera. O, meglio, che lo contemplasse, con un misto di gratitudine e raccapriccio.
“L’utile idiota”. In quesi mesi le tornò spesso alla mente quella famosa definizione coniata da Lenin: calzante come non mai nel caso in oggetto. Lei e il suo entourage avevano brigato e mosso le loro pedine più insospettabili pur di favorire Trump nella candidatura repubblicana: la signora ci andava in brodo di giuggiole al solo pensiero di un testa a testa con quell’opulento troglodita. Con uno così come antagonista a lei era permesso di tutto, no? Chi mai se ne sarebbe accorto, presi com’erano dallo spettacolo indecoroso del clown a centro-pista coi pantaloni calati e un barattolo ricolmo di acquavite di patate distillata nella vasca da bagno di casa in una mano.

C’era neanche più da escogitare una campagna elettorale vera e propria: bastava figurare come l’unica alternativa possibile a quel Creso ritardato… et voilà! Benedetto sempre sia il sistema bipartitico! Un dualismo perfetto, anzi: manicheismo puro, portato alle estreme, fruttuose conseguenze: il bene contro il male, la Giusta Parte contro la Bestia 666, la composta santità contro la più sciatta inettitudine. L’importante era saper ben interpretare l’alternativa sana (che, a tradurla onestamente, poi si riduceva, come al solito, a voler dire “la meno peggio”).
Con tutto il polverone sollevato da Trump, e da lui alimentato ogni giorno che Dio mandasse in terra, i bravi cittadini americani sembravano essersi pure scordati che lei fosse donna, il che non poteva che farle gioco in una società come la loro, ancora sostanzialmente maschilista (non meno di quel vecchio cafone di Trump), che tuttavia aveva almeno il buon gusto di fingere di vergognarsene, in superficie…
Era stata lunga e dura arrivare sin là.

All’inizio, quand’era ancora al campus a studiare legge, il suo petto era rigonfio delle più alte aspirazioni e poi via via aveva cominciato a corrompersi a contatto con le ragioni di questo sporco mondo.
Del resto, com’è che si dice? La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. E se questo è vero, vale anche il contrario: il salvacondotto per il Cielo si paga con compromessi e intrighi. E lei all’Empireo del potere, quello che aveva puntato fino dall’inizio del proprio cammino, ci stava arrivando: aveva già la mano appoggiata sul pomello della porta d’ingresso.
Al solo pensarci, la pervadeva la stessa identica gioia orgasmica di quando le riferirono del brutale ammazzamento del rais libico da parte degli insorti che lei, dalla stanza ovale, aveva così bene orchestrato.

Certo, sin dalla partenza aveva pur dovuto scendere a patti con i propri fini machiavellici e i loschi calcoli politici che essi avrebbero comportato: innanzitutto aveva represso gli istinti meno… popolari e di conseguenza aveva preso al laccio il tordo, cioé Bill, un bambacione sempre attaccato alle gonnelle della prima che passasse, ma col sorriso giusto e la faccia da Kennedy, le parole melliflue sempre in bocca, la capacità di piacere e imporsi alla gente. Già allora lei subodorava che si sarebbe fatto strada.
E lei al suo fianco, passo passo, a spiegargli la sera, in tinello, quello che lui avrebbe dovuto dire e fare la mattina, in faccia al popolo. Fino poi a divenire first lady, che era sempre meglio di niente.
Non era Jackie però, non era Eleanor. Non visse mai di luce riflessa, lei. Quello aveva rappresentato solo il suo fatidico trampolino di lancio… E infatti ecco che ne approfittava finalmente, ora che i tempi si erano fatti ormai maturi, come le mele cotogne che la nonna bolliva in pentola per confezionarci l’american pie che avrebbe poi messo a raffreddare sul davanzale un pomeriggio intero: lei, come la classica crostata nazionale, aveva saputo attendere, sul proprio davanzale, che i tempi fossero quelli giusti.
Ma perché tutto si inquadrasse provvidenzialmente mancava il giusto concorrente, quello così gonzo, così brutto e così villano da far sorvolare sulla balzana elezione di una donna come capo di stato, a seguire quella ancor più balzana di un afroamericano, il doppio mandato già assolto da un liberal, a cui stavano per seguire almeno altri quattro anni governati sempre da una democratica (in barba all’inderogabile logica dell’alternanza), la sua salute cagionevole, i vari raggiri, i favori alle multinazionali, l’appoggio di inutili azioni di guerra operati da lei in qualità di segretario di stato.

Ed ecco che, in largo anticipo su Santa Klaus, era arrivato Donald Trump. Meglio della manna che era piovuta in testa agli israeliti nel bel mezzo del deserto…
Con lui come controparte i giochi erano fatti: tutto le sarebbe stato permesso.
Neanche c’era da chiedersi chi la maggioranza degli americani avrebbero preferito al momento del voto.
Era un po’ come mettere a confronto la crostata di mele con… il pasticcio di porco, si divertiva a pensare Hillary tra sé e sé, mentre l’occhio, dalla foto stampata sul giornale, le scivolò sulle lunghe gambe accavallate, fasciate dalle attillate autoreggenti, della stagista che le stava di fronte ad annotare gli impegni della presidentessa in pectore per il pomeriggio.
La signora si aggiustò i capelli cotonati, fece tintinnare il ghiaccio mezzo sciolto rimasto nel tumbler e quindi, occhi negli occhi, le dettò, ostentando il bicchiere: «Voglio un altro di questi tra mezzora in camera mia. E… portamelo tu!»

Poi si alzò dalla sedia e sparì dalla stanza trotterellando sulle sue gambe corte, ancor più ostacolate nell’articolazione del movimento dal tailleur troppo stretto. Nulla era meglio del potere – sospirò pienamente soddisfatta – neanche il sesso.

Pubblicato da

Pee Gee Daniel

Pee Gee Daniel è nato a Torino nel 1976, vive in Alessandria. Ha pubblicato i romanzi Gigi il bastardo (& le sue 5 morti), Montag, Phenomenorama, Inbooki, Il politico, Golena, Lo scommettitore, Leucotea, Ingrid e Riccione, La Gru, Sulle tracce della Ci**gna Voltaica, Twins, Il lungo sentiero dai mattoni dorati, e-piGraphe e il saggio Il riso e il comico, Montag. È librettista del musical Cogli l'attimo, con le musiche di Fabio Zuffanti. Insieme all'attore Omid Maleknia ha curato Spettacolo d'evasione, che vede alcuni detenuti del carcere Don Soria di Alessandria nella veste di cabarettisti.

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