Anna degli Elefanti, la “cantilena” di Moretti

Marino Moretti, poeta e romanziere crespuscolare, probabilmente il più integrale manierista, che ha condotto un’esistenza solitaria tra esalatazioni e vittimismo, è stato senza dubbio uno degli scrittori più costanti e prolifici che il ‘900 abbia mai avuto. Ci troviamo di fronte ad uno scrittore che conosce il proprio mestiere con una sicurezza ormai consumata, fino alla monotonia che rappresenta però il suo limite. Lo riconosce lui stesso, e infatti nella prefazione al romanzo Anna degli Elefanti (1937) allude al costante amore per i poveri, che lo hanno portato incolume fino alla presente monotonia artistica. E quando si parla di monotonia in Moretti, bisogna far riferimento non tanto alle vite dimesse dei protagonisti delle sue opere, quanto alla costanza di una cantilena che è una sola cosa con la sua voce  di narratore.

Ed ecco comparire il c’era una volta (la cantilena) più volte iterato nei romanzi di Moretti. Tale cantilena ci fa pensare ad un Pascoli in prosa: quella timidezza, quella sciatteria, come se Moretti avesse timore di nominare le cose, di definirle, di essere esplicito. Lo scrittore romagnolo infatti si limita a fare delle allusioni in maniera infantile e leziosa. Quella sorta di tira e molla, di mostrarsi per poi nascondersi costituiscono una poetica della frase, come ha giustamente notato Debenedetti, che tuttavia ha dei pregi, sebbene rappresenti sempre una cantilena:

“La sua Annuccia le stava molto a cuore, come no? Ma era come se non osasse chiedere troppe cose belle per lei”.

In questa frase senza presa, vi si trova il la dell’intera cantilena morettiana. La stessa Anna è la personificazione di questa cantilena, la quale si mette a raccontare se stessa. Anna è una bambina non bella e, come se non  bastasse ha anche un particolare sgradevole che le ha inflitto il suo romanziere, ma il quale viene accennato una volta sola, senza più tornarvi:

Annuccia aveva l’impressione di essere un pò come un’erba che puzza. perché un giorno suo padre aveva detto abbastanza distintamente alla mamma: <<Questa bambina non ha un buon odore>>.

Delle tante cose che una bambina può fare, si ha l’impressione di conoscere solo quelle che Anna non fa, e man mano che la piccola cresce diventa una prigioniera, prima di tutto di sua madre (il padre è andato ad esplorare l’India). poi di un’istitutrice tedesca, poi del marito, il paterno marchese Momolo. Anna diventa una donna sensitiva ma incapace di stringersi in un pensiero. Tuttavia Anna riesce a trasferire sul registro umano un frammento di storia letteraria; lei rinuncia alla gioia del proprio corpo di donna, modulando la propria vicenda sulla cantilena, non sulla profondità della vita. Il matrimonio con il marchese è bianco e dopo la morte del marito, Anna è una vedova signorina, e  se qualcuno dovesse trovare inconcepibile il rifiuto in una donna, per il quale un matrimonio resta inconsumato, allora è necessario che cerchi la ragione nell’identificazione di Anna con l’intima esperienza dei crepuscolari: le inibizioni e le impossibilità di Anna fanno un solo blocco con la Poesia Crepuscolare.

La storia di Anna potrebbe essere definita una specie di piccola educazione sentimentale se non fosse per il resoconto di una dolorosa educazione sessuale e Moretti rende la tematica sessuale, il torbido, una fonte da cui possa sgorgare l’imprevisto, nascondendosi maliziosamente, fingendo cautela dove non può osare la castità, dando spazio all’insinuazione. Si viene così agli elefanti che lo scrittore ha inserito anche nel titolo: da bambina, Anna non dimostra un particolare interesse per le bambole e dopo diversi tentativi, i genitori scoprono che solo un elefante di pezza riesce a catturare l’attenzione della piccola. (Lo stesso machese Momolo poi regalerà ad Anna un vero elefante, che ucciderà, ironia della sorte, l’uomo). Non si tratta di un capriccio, di una semplice attrazione infantile, ma di qualcosa di recondito che lo stesso Moretti ci rivela:

“La particolarità della proboscide eccita la fantasia degli artisti. Sai, Anna, che questa fu la prima cosa che mi dissero di te? Le piacciono gli…”

In tempo di psiconanalisi non ci vuole molto per giungere alla conclusione che Anna è prima di tutto prigioniera delle sue inibizioni. E sono proprio le continue allusioni, le interferenze le associazioni spontanee a rendere il romanzo troppo “rilassato”.

Così, dopo la morte del marito, la donna dà la caccia all’amore, diviene preda di altri scopi, data la sua ricchezza, fin quando non si innamora e riesce a concedersi a Ramon, un avventuriero che dopo la seconda notte le porta via i gioielli. Anna vuole rintracciare Ramon a tutti i costi e ci riesce: una sera, in un cinema di Milano dove si proietta, guardacaso, un film della jungla pieno di elefanti, Anna vede l’uomo e gli si siede accanto. Ma Ramon, quando si fa luce in sala, abbassa gli occhi sul giornale. Nel Varietà si esibisce un elefante barbiere, l’uomo si alza e va sul palcoscenico per sottoporsi all’esperimento, ma viene rapito da un elefante. Anna esce dal cinema come pazza e si dirige verso la periferia: un autocarro la travolge e la uccide.

La fine violenta di Anna dimostra come la donna ad un certo punto della sua vita, abbia sovrapposto al suo naturale destino una funzione di ambasciatrice altrui. Non rimane quindi che far calare il buio, come se Moretti abbia voluto rimuovere dalla propria mente un brutto sogno una volta per tutte.

 

Pubblicato da

Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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