Kaputt

‘Kaputt’, best seller di Curzio Malaparte, o della letteratura crudele

Kaputt è la coreografia della drammatica resistenza di ogni forma di vita di fronte al tetro scenario del potere tecnocratico nazista. Resistenza di individui, popoli, molto spesso anche animali. Questa lotta collettiva, allo stesso tempo sempre individuale, trova nella narrativa di Malaparte inaspettate analogie nella figura di Cristo, nella sua passione,  nel suo finale sacrificio come capro espiatorio di un’intera collettività.

Ma è un Cristo laico, privato di ogni dimensione soprannaturale o metafisica, la cui sofferenza è derivata dalla contingenza storica. Private di ogni significato trascendente, le figure cristologiche sono al centro del successivo romanzo, La pelle, che restringe il panorama esperienziale dall’Europa sotto il dominio di Hitler all’Italia durante l’occupazione alleata. Con alcune notevoli eccezioni, come l’incubo degli ebrei rumeni crocefissi o la descrizione degli effetti agghiaccianti del bombardamento aereo alleato sulla popolazione di Amburgo: eccezioni allucinate, che vedremo essere cruciali per un’interpretazione complessiva dell’opera in piena coerenza con la rottura epistemologica anticipata all’inizio.

A Stoccolma Malaparte incontra il principe Eugenio, fratello del re di Svezia. E nella villa di Waldemarsudden non può trattenersi dal raccontare ciò che ha visto nella foresta di Oranienbaum: prigionieri russi conficcati nella neve fino al ventre, uccisi con un colpo alla tempia e lasciati congelare. È solo la prima di una fosca suite di storie che, come un novellatore itinerante, Malaparte racconterà ad altri spettri di un’Europa morente: ad Hans Frank, General Gouverneur di Polonia, a diplomatici come Westmann e de Foxà, a Louise, nipote del kaiser Guglielmo II. Storie che si annidano nella memoria per non lasciarla mai più: il Ladoga, simile a “un’immensa lastra di marmo bianco”, dove sono posate centinaia e centinaia di teste di cavallo, recise da una mannaia; il console d’Italia a Jassy, sepolto dal freddo peso dei centosettantanove cadaveri di ebrei che sembrano precipitarsi fuori dal treno che li deportava a Podul Iloaiei, in Romania; le mute di cani muniti di cariche esplosive che, in Ucraina, i russi addestrano ad andare a cercare il cibo sotto il ventre dei panzer tedeschi. Storie, anche, malinconiche e gentili: quella dei bambini napoletani convinti dai genitori che gli aviatori inglesi sorvolano la città per gettar loro bambole, cavallucci di legno e dolci; o, ancora, quella delle ragazze ebree destinate al bordello militare di Soroca. Storie che trascinano in un viaggio lungo e crudele, al termine del quale si vedrà l’Europa ridotta a un mucchio di rottami.

Malaparte non è il solo nel dopoguerra a evocare la storia di Cristo come exemplum di vittimizzazione e sacrificio della parte più innocente dell’uomo e della società, ma della vicenda di Cristo elabora significati universali che trasporta molto al di là della religione, verso la storia e l’antropologia. Per restare al caso italiano, riferimenti cristologici sono facilmente riscontrabili in altre opere estremamente influenti del tempo, come la trilogia neorealista di Roberto Rossellini (Germania anno zero, Paisà e specialmente Roma città aperta, tutte opere con cui La pelle, instaura un dialogo critico) o i due libri di più grande successo di quegli anni, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945) e il romanzo Il cielo è rosso di Giuseppe Berto (1946).

Il trattamento che ne fa Malaparte si differenzia da queste opere tra loro decisamente eterogenee su un aspetto fondamentale, al di là di ogni connotazione ideologica o trascendente. Sia Levi che Berto hanno attestato con i loro libri il fallimento della religione tradizionale nel rielaborare i traumi della guerra e della modernità, una speranza che al contrario illumina l’ultima sequenza di Roma città aperta. Malaparte persegue un’interpretazione che radicalizza le intuizioni dei due scrittori e allo stesso tempo riesuma il messaggio cristiano: nelle sue opere Cristo non è ritratto come il “Redentore” della canonica tradizione cattolica, ma è recuperato per la sua essenza creaturale, come corpo partorito e senziente, baroccamente destinato a morire, rappresentazione radicalmente immanente di quello che il moderno pensiero biopolitico chiama «nuda vita», ovvero ciò che rimane della vita umana una volta tolti ogni valore politico e ideologico.

Kaputt esce in un momento storico in cui la politica italiana e internazionale è virata paurosamente verso polarizzazioni fino a pochi anni fa impensabili. Studiare Malaparte – come studiare l’architettura del Ventennio, Margherita Sarfatti, Alberto Savinio – è oggi più che mai politicamente necessario: dobbiamo consegnare queste figure dal respiro veramente internazionale e patrimonio del nostro Novecento a una critica serrata che comprenda come siano state possibili le loro diverse fascinazioni del fascismo e le rispettive partecipazioni alla costruzione del regime.

Argomenti moralistici e oblio sono già stati spesi in malo modo per queste figure. Ridurre le opere di Malaparte agli scandali della sua biografia è come leggere la vicenda di Sarfatti solamente come vittima di Mussolini: romanzandone il lato oscuro, si mitizzano e si banalizzano figure che sono invece imprescindibili per la disamina critica della nostra modernità18. Letture rassicuranti, d’altro canto, conducono a risultati non molto diversi: lasciando agli apologeti queste figure non scorgeremmo più che la loro debordante personalità e la loro agency all’interno del fascismo sono entrate certo nel costume, ma che la loro maggiore influenza è stata soprattutto di ordine intellettuale.

Pubblicato da

Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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