«Eppure il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini appena nati, ancora sprovvisti di nome»
( Da Il deserto dei Tartari)
Il sottotenente Giovanni Drogo è inviato a prestare servizio nell’isolata Fortezza Bastiani ai confini settentrionali del regno; tuttavia da anni nessuna minaccia è più apparsa su quel fronte; la Fortezza, ormai priva della sua importanza strategica è solo una costruzione solitaria, lontana e dimentica da tutti. L’avamposto sorveglia una pianura desolata, chiamata deserto dei Tartari, un tempo luogo di grandi battaglie; alla Fortezza si vive nell’attesa della guerra, sorvegliando un deserto da cui non arriva mai nessuno, e mai nessun nemico. Buzzati ci descrive in realtà un paese immaginario, non specifica né un tempo né un luogo. In fondo non ha importanza collocare i personaggi nel tempo e nello spazio, perché in questa storia il tradizionale concetto di tempo e spazio è alterato. Ciò che circonda la Fortezza è infatti un deserto, un non-luogo per eccellenza, dove ciò che conta è la solitudine e la percezione alienante dello scorrere del tempo.
Il sottotenente Drogo diventa vittima dell’abitudine, un’abitudine all’attesa, all’aspettare. La passività di giorni che si susseguono senza tregua, eppure in pace, riesce ad annebbiare persino la paura della battaglia, del nemico. Ciò che più si desidera alla Fortezza è il nemico.
Il tempo passa inesorabile, instancabile, scivolando sulla Fortezza paradossale avamposto di un tempo fermo, immobile, imprigionato. Gli anni passano e Drogo riceve una licenza per tornare a casa. Lo smarrimento, inaspettato, lo coglie non appena si ritrova in città; vivere lontano, isolato dal resto del mondo, ha alterato la percezione di quelli che erano i suoi affetti; non ricorda più le vecchie parole i vecchi pensieri, non riconosce più l’affinità con le sue vecchie conoscenze, con gli amici, con le amiche… ; la lontananza ha trasformato il senso di familiarità in pura estraneità.
Drogo si ritrova indifferente verso tutto ciò che prima era importante; cosa può condividere lui con questo mondo così attento al fare, al trasformarsi? Nulla ha più senso per lui: questo è il mondo che cammina insieme al tempo che passa.
Per lui, infatti, il tempo dell’attesa non è ancora finito. Ritorna alla Fortezza. Lì tutto è sempre uguale, identico a se stesso. Tra presunti avvistamenti nemici, desiderati forse più per spezzare la vita monotona e piatta che per combattere, tutti attendono la “grande occasione”.
Solo il naturale ciclo della vita sembra non essere toccato dall’imperturbabilità dei giorni, Drogo che negli anni è diventato Maggiore e vicecomandante della Fortezza vedrà alcuni dei propri compagni morire, e vedrà altri lasciare l’avamposto ormai vecchi. Anche il maggiore Drogo è invecchiato e dopo trent’anni di servizio una malattia al fegato lo costringe a letto. Mentre sembra che ogni cosa si stia per consumare nell’indifferenza e nell’apatia più profonda, ecco che d’improvviso tutto cambia. L’attesa inaspettatamente termina. L’evento tanto atteso si presenta: le truppe del regno del Nord marciano contro la fortezza. Tutti si preparano alla grande battaglia, il tempo infuria e travolge tutti velocemente, come mai prima: rifornimenti, piani di guerra, altre truppe, altri soldati, strategie, rinforzi, armi… ma il Maggiore è troppo malato, Drogo viene portato via. Allontanatosi dall’avamposto il tempo sembra ritrovare il suo normale svolgersi. Si dipana dalle curvature anomale che aveva preso quando anche’esso era imprigionato alla Fortezza.
Drogo nella solitudine di un’anonima stanza di una locanda riflette sulla sua vita. E negli ultimi istanti capisce che è proprio la morte la sua “grande occasione”. Il valore e la dignità che lo hanno contraddistinto per tutta la vita possono finalmente incontrare il nemico. La sua prima ed ultima battaglia dovrà combatterla da solo, con la morte.
“Facendosi forza, Giovanni raddrizzò un po’ il busto, si assestò con una mano il colletto dell’uniforme, diede ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo vedesse, sorrise”.
Chi fa i conti con lo scorrere del tempo, ne uscirà, prima o poi, sconfitto.
Il deserto dei Tartari con la sua misteriosa atmosfera, offre l’occasione per una profonda analisi sul senso della vita, con le sue attese, le sue sconfitte, e le sue vellità; la narrazione procede con lentezza e monotonia ma è in perfetta sintonia con l’essenza del romanzo e il suo radicato pessimismo contornato di visioni e noie quotidiane che però non ne fanno un libro noioso. Un capolavoro onirico di simbolismo ed esistenzialismo che sancisce anche la sconfitta del valore rivelatorio e salvifico della parola e della letteratura, l’ossessione per un combattimento da vincere (ma che non avverrà mai), la speranza di afferrare la tanto desiderata gloria che è solo un’illusione da rimandare giorno dopo giorno, e il riconoscimento pubblico sono appannaggio, secondo Buzzati, di pochi eletti, per questo dedica questo romanzo a tutti gli altri, definiti dallo stesso scrittore, “strani”.