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Diceria dell'untore

‘Diceria dell’untore’, il lirismo barocco di Gesualdo Bufalino

Iniziata in tempi remoti e riscritta più volte, Diceria dell’untore del grande ma poco ricordato scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, incontrò subito un unanime consenso sia di critica che di pubblico, nel 1981, quando fu data alle stampe. Consenso sancito anche dalla vittoria del premio Super Campiello dello stesso anno. Un caso letterario. Uno dei più alti risultati della narrativa sperimentale della prima metà del Novecento. Da leggere, rileggere, riscoprire.

Nel 1981 Bufalino, professore sessantenne di Comiso, pubblica Diceria dell’untore, suo romanzo d’esordio, che rivisita l’esperienza, vissuta in prima persona dall’autore siciliano, di una degenza in un sanatorio vicino Palermo, La “Rocca”, nell’estate del 1946. l’io-narrante, reduce dalla guerra, protagonista e testimone di dolori e speranze dei compagni di malattia, supera l’iniziale desiderio di isolamento e solitudine ed entra in “confidenza” con gli altri degenti, soprattutto con Marta, una ballerina del nord dal passato ambiguo, con la quale intreccia una sofferta relazione amorosa; con il Gran Magro, mefistofelico medico e con l’inquieto Padre Vittorio. Sarà il protagonista, dopo essere guarito, a ricominciare la vita quotidiana, infrangendo il reciproco e tacito patto di non sopravviversi.

La “diceria”, nel caso del romanzo di Bufalino, è un discorso più o meno lungo, un monologo, uno sproloquio mormorato, che ha come sua cifra distintiva proprio una parola “alta”; il protagonista-untore, come ammette egli stesso, salvatosi dopo un lungo “apprendistato di morte” nell’eccezionalità del sanatorio “incantato” e sicuro, si ritrova immerso nella banalità del quotidiano, dovendo improvvisare le battute di una comparsa, non recitare quelle dell’attore protagonista.

Tali forzature antinaturalistiche da un lato innescano un processo di straniamento dalla vicenda dei personaggi, dall’altro questa esagerazione espressiva, questo tono declamatorio, sono funzionali ad intensificare l’effetto patetico (che non ha una connotazione negativa). L’autore in questo modo ha dato vita ad una decodifica critica attraverso l’uso dell’ironia e il coinvolgimento della parola: vita come teatro, dunque, e vita come casualità e gioco (pensiamo alle sfide di scacchi tra il Gran Magro e il protagonista che terminano simbolicamente con il sacrificio della regina, alludendo alla morte di Marta che consente la salvazione dell’io-narrante, come metafore della vita).

Diceria dell’untore ha ambientazione siciliana, sebbene chi vive alla Rocca, sembri sospeso in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio; prevale il binomio morte-memoria nella prospettiva del ricordo come possibilità di allontanarsi dalla morte, di riessere. Le tematiche privilegiate da Bufalino dimostrano come la sua sia stata una scelta di rappresentazione del reale in chiave autobiografica ed antropologica, attento all’aspetto esistenziale e lasciando in secondo piano quello storico. Emblematica a tal proposito l’affermazione di Marta: “La storia non riguarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi; nei miliardi dei secoli passati e futuri, io non so trovare evento più importante della mia morte”. 

Bufalino quindi è indifferente alla grande storia, la soffre e ribadisce una centralità egoistica dell’individuo sugli accadimenti storici. La sua terza storia è quella letteraria che ha fornito all’autore non solo modelli da manipolare (in questo caso La montagna incantata di Mann), ma anche uno struttura profonda sui cui poggiano i discorsi dei personaggi. La ricercatezza barocca della scrittura di Bufalino (che potrebbe far pensare erroneamente ad un’ostentazione di erudizione), il quale sorprendentemente ci regala atmosfere noir, surreali, oniriche, è caratterizzata da un vasto sistema di richiami intertestuali che spaziano da Dante a Pascal, da Catullo a Shakespeare, da Valéry a Montale.

Il merito di Gesualdo Bufalino è di aver saputo dare nuova linfa ad una lingua alta e poetica, attraverso labirintiche e rigorose costruzioni sintattiche, raffinatezze, lirismi barocchi, acrobazie lessicali, per adattarla ad una situazione “moderna”: il trauma di chi ha vissuto la seconda guerra mondiale sulla propria pelle e sta curando le proprie ferite in una clinica, di chi umiliato da quei continui colpi di tosse, secchi “come uno sparo”, anelano alla vita.

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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