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Fontamara

‘Fontamara’: la critica sociale di Ignazio Silone

Tradotto in innumerevoli lingue e con ampio riconoscimento di pubblico in tutto il mondo, Fontamara (1933) rappresenta uno dei romanzi più noti di Secondo Tranquilli, in arte Ignazio Silone (Pescina, 1°maggio 1900- Ginevra 23 agosto 1978), uno degli intellettuali italiani più conosciuti e letti non solo in Europa, ma nel mondo, è infatti soprattutto all’estero che lo scrittore è stato particolarmente apprezzato, mentre in Italia, tanto per cambiare, è stato spesso osteggiato dalla critica e solo tardivamente riabilitato.

Nel 1929-30, durante il suo soggiorno svizzero di Davos e Ascona come esule politico in fuga dai numerosi arresti che colpirono in quel periodo il partito comunista, scrive in pochi mesi il suo romanzo dandogli come titolo il nome immaginario di un paesino dell’Abruzzo: Fontamara.

Semplice nella trama e nel linguaggio, il romanzo ha spesso il tono di fiaba, assumendo però nel contesto un aspetto epico. Vengono descritti luoghi che rievocano in realtà l’infanzia pescinese dello scrittore e narrate vicende di umili contadini, i “cafoni”, coloro che lavorano la terra per sopravvivere, che parlano solo in dialetto, che si sforzano di estinguere i debiti e si sentono ricchi se possiedono un mulo. Dunque proprio loro sono in rivolta contro i “potenti”, i cittadini che cambiano il mondo, per un corso d’acqua deviato che irrigava le loro campagne. In un universo contadino dove le ingiustizie vengono sempre  subite passivamente, la rivendicazione dell’acqua è definita in un certo qual modo “un fatto strano”.

Dal 1° giugno del 1929 nel paese non arriva più l’elettricità. Sperando di rimediare a questa “fatalità” ogni contadino firma una misteriosa “carta bianca” che, con il passare delle pagine, si scoprirà l’autorizzazione a togliere l’acqua per l’irrigazione portandola ad irrigare i possedimenti dell’Impresario, un “galantuomo” che diviene sindaco del capoluogo. Egli è un imprenditore appoggiato dal “regime di Roma”. Capito l’inganno, i fontamaresi si recano a casa dell’Impresario, dove tentano di convincerlo a restituirgli quel bene indispensabile per la loro sopravvivenza. Essi però ottengono solo altri inganni che portano alla riduzione del loro salario. Dai soprusi ottenuti con le parole, si passa ovviamente  ai soprusi fisici e uno di loro,  Berardo Viola, l’uomo più forte e robusto, decide di reagire tentando di trovare maggior fortuna fuori dal paese. Durante il viaggio verso il capoluogo  si rende conto che al di fuori di Fontamara,sono cambiate molte cose. Quando ormai è evidente il fallimento di Berardo, egli viene a conoscenza della morte di Elvira, la sua amata che egli avrebbe dovuto sposare non appena tornato dal suo “viaggio in cerca di lavoro”. Allora l’uomo si convince che per lui la vita non ha più senso. Durante uno dei suoi tanti spostamenti però avviene una svolta: incontra un partigiano che lo mette al corrente dell’avvento del fascismo e di molti altri cambiamenti avvenuti in Italia e sconosciuti da tutti i fontamaresi. Tale incontro gli apre gli occhi sulla realtà che stanno vivendo.

I due vengono arrestati per un equivoco e nel periodo in cui sono costretti alla convivenza in cella, il contadino sviluppa una notevole maturazione politica. Questo suo nuovo impegno morale lo porta ad autoaccusarsi di essere il “Solito Sconosciuto”, ossia un sostenitore attivo della resistenza. Dopo questa falsa testimonianza  viene torturato affinché riveli i nomi dei suoi complici fino all’atroce ed ingiusta morte. Venuti a conoscenza del fatto i fontamaresi fondano il “Che fare?”, un giornale in cui scrivono degli ingiusti soprusi subiti e della ingiusta morte del loro compaesano. La conclusione è tragica in quanto il regime decide di punire tutti i fontamaresi mandando una squadra della Milizia che fece strage di abitanti. Per fortuna però non tutti morirono, ma qualcuno (tra i quali i vari narratori) trovò la salvezza nella fuga verso la montagna.

Silone  mette in evidenza il sentimento religioso popolare ( Silone era un cristiano puro, di stampo francescano) quando nei dialoghi l’opera di deviazione del corso d’acqua è considerata un sacrilegio, un peccato contro Dio, poiché cambia la natura che Egli ha creato:

« In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo.

Questo ognuno lo sa.

Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.

Poi vengono le guardie del principe.

Poi vengono i cani delle guardie del principe.

Poi, nulla.

Poi, ancora nulla.

Poi, ancora nulla.

Poi vengono i cafoni.

E si può dire ch’è finito. »

Sul piano linguistico prevale una costruzione paratattica del periodo con un linguaggio piuttosto semplice e colloquiale, mentre i cittadini più istruiti ed importanti si esprimono in una forma più ricercata e arricchita anche da citazioni e vocaboli latini. Una sottile ironia diffusa attenua, talvolta, la tragicità di alcuni momenti.

Fontamara è un libro  di denuncia e di critica sociale, non di propaganda come si potrebbe sbrigativamente definire, non una  facile scorciatoia per raggiungere la fama andando contro il regime,non infarcito di ideologia ma traboccante di cultura (soprattutto quella contadina) e di storia; un affresco sul mondo dei “cafoni”, la speranza da parte di questi ultimi di raggiungere una coscienza civile dei quali Silone intelligentemente non racconta solo la durezza, il sacrificio, lo spirito di abnegazione ma anche certi intrallazzi, pettegolezzi, il loro fatalismo.

Ma ciò che si respira tra le pagine di Fontamara è una profonda consapevolezza sulla difficoltà che spesso riscontriamo nel distinguere il bene dal male che rende il romanzo ancora più sincero ed onesto intellettualmente.

 

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