Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia rappresenta il primo esempio di denuncia sociale dell’esistenza della mafia in un clima politico, quello dell’inizio degli anni ’60, che preferiva glissare sulla questione piuttosto che ammetterne apertamente l’esistenza.
Sciascia pubblica il suo romanzo breve nel 1961 per Einaudi narrando con il ritmo del racconto poliziesco la storia dell’omicidio di Salvatore Colasberna, capo di una cooperativa edilizia, personaggio inventato sul modello del sindacalista comunista Accursio Miraglia, ucciso dalla mafia nel 1947 a Sciacca. L’imprenditore viene assassinato poco prima di salire sull’autobus per Palermo, un autobus pieno di gente che, poco prima dell’arrivo della polizia, scompare per non essere costretta a testimoniare sul fatto. A occuparsi delle indagini sarà il capitano Bellodi, indicato nel libro sempre per cognome, personaggio inventato ma basato anch’egli su una figura reale, quella del comandante dei carabinieri di Agrigento Renato Candida.
Il titolo Il giorno della civetta richiama il tema dell’omertà e trae spunto dall’Enrico VI di Shakespeare, dal passo in cui la regina Margherita incoraggia i suoi uomini a combattere: “E chi non vuole combattere per una tale speranza vada a casa e a letto e se si alza, sia oggetto di scherno e di meraviglia come la civetta quando di giorno compare”. I codardi rappresentano gli omertosi che vedono ciò che accade davanti ai loro occhi ma decidono di volgere lo sguardo altrove. Il capitano Bellodi riesce, dopo un colloquio con il suo informatore Calogero Dibella, detto Parrinieddu, e grazie ad una lettera anonima, a collegare l’omicidio a un giro d’affari di stampo mafioso e anche alla scomparsa di Paolo Nicolosi, che accidentalmente aveva visto l’assassino di Colasberna fuggire dal luogo del delitto. La moglie di Nicolosi, durante l’interrogatorio, finge di non ricordare il nome dell’uomo visto dal marito: “Il maresciallo, con gli occhi che tra le palpebre parevano diventati due acquose fessure, violentemente si protese a guardarla: e lei precipitosamente, come se il nome le fosse venuto su con un singulto improvviso, disse <Zicchinetta>”. Quell’ingiuria, che richiama un gioco d’azzardo che si fa con le carte siciliane, appartiene a Diego Marchica. Dopo il suo arresto viene ucciso anche Parrinieddu, che prima di morire aveva scritto un biglietto indirizzato al capitano Bellodi con su scritto due nomi: Rosario Pizzuco e Mariano Arena, capomafia del paese. Grazie a uno stratagemma in caserma viene fatto credere a Marchica di essere stato tradito da Pizzuco, che alla fine ammette l’uccisione di Colasberna ma attribuisce quella di Nicolosi a Pizzuco.
Uno dei passi più conosciuti del libro è di sicuro una parte dell’interrogatorio di Bellodi a don Mariano Arena, presunto mandante degli omicidi:
“Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… “.
Ma al processo, che avviene durante una licenza del capitano Bellodi, viene ribaltato l’esito della sua indagine, grazie alla costruzione di alibi di ferro per gli indagati, creati ad arte da un boss, di cui non si fa il nome, ma superiore allo stesso don Mariano, e alla proposta di un movente passionale. Il romanzo si conclude tristemente con Bellodi che ricorda il suo periodo in Sicilia, promettendo a sé stesso di tornarci: “Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. <<Mi ci romperò la testa>> disse a voce alta”.
Questo romanzo giallo tratta il tema della mafia sottolineando soprattutto il tema dell’omertà e del legame fra mafia e potere, che insieme insabbiano crimini come quello di Colasberna e non a caso nel romanzo viene citato nel romanzo il rapporto di amicizia fra Marchica e l’onorevole Livigni. Sciascia sollecita la coscienza di tutti noi, costringendoci a convivere con i personaggi, ad annusare il pericolo a ogni svolta, immerso nell’atmosfera rarefatta della realtà di un Paese soffocato dalla mafia. La scrittura deliberatamente tralascia il superfluo, è essenziale, chirurgica, si avvale di frammenti e di fermo-immagini, scevra da qualsiasi compiacimento.
Da imporre in tutte le scuole, da leggere e rileggere. Soprattutto in questo momento storico italiano, sporcato, tra le tante cose, dallo scandalo della Mafia Capitale, Il giorno della civetta si rivela ancor di più un romanzo di un’inquietante e drammatica attualità. C’è bisogno di parlare di giustizia, di un’ostinata ricerca della verità, c’è bisogno di tanti (e ci sono) capitani Bellodi, del suo voler rompersi la testa contro un muro che a quaranta anni di distanza è ancora ben protetto.
Il giorno della civetta ha ispirato il film omonimo diretto da Damiano Damiani nel 1968, con Franco Nero e Claudia Cardinale.