L'operaio di Junger

‘L’operaio, il trattato filosofico e metafisico di Jünger. L’operaio come forma sovraindividuale, lontano da qualsiasi ideologia, prima che divenisse categoria sociale

L’operaio affronta i temi centrali del dibattito che la cosiddetta “letteratura della crisi” sviluppa nel periodo tra le due guerre mondiali che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio di Ernst Jünger, edito nel 1932, costituisce uno dei documenti più rappresentativi della “letteratura della crisi”, vale a dire di quel dibattito ricco e articolato, sviluppatosi nel periodo tra le due guerre mondiali, che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio affronta i temi centrali di quel dibattito, quali la conclusione di una civiltà e la sua lettura come crisi dell’idea stessa di Zivilisation, intesa come insieme delle norme e dei comportamenti di carattere convenzionale e contrattualistico, la dissoluzione dello stato borghese e dei valori che lo rappresentano, il significato e il ruolo del nichilismo in questo processo di disfacimento, la tecnica e la sua funzione spersonalizzante nei confronti dell’individuo, con i connessi sviluppi antiumanistici e antilluministici, la concezione della storia come destino. Intento di questo lavoro è capire Jünger, e segnatamente L’operaio, da un punto di vista rigorosamente scientifico, individuandone i fondamenti filosofici, ricostruendone struttura e argomentazioni, mettendone in luce la profonda unità tematica. La chiave che consentirà di realizzare questo compito è la metafisica, un termine al quale l’autore, dopo aver condannato al non senso ogni nostalgia filosofica, toglie a priori qualsiasi possibilità d’uso tradizionale – ove, secondo la definizione classica, essa costituisce la scienza prima, ovvero la scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune a tutte le altre scienze e come proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri -, ma anche qualsiasi connotato genericamente moderno.

Cosa Jünger precisamente intenda utilizzando il termine “metafisica”, è Martin Heidegger – il filosofo tedesco che fin dagli anni Trenta più e meglio lesse e commentò L’operaio – a rivelarcelo. Proprio parlando di quest’opera di Jünger egli scrive che: «(…) essa rimane un’opera che ha la sua patria nella metafisica. In conformità a quest’ultima tutto l’ente, mutevole e mosso, mobile e mobilitato, è rappresentato a partire da un “essere che è in quiete», e questo anche là dove, come in Hegel e in Nietzsche, l’ “essere” (la realtà del reale) è pensato come puro divenire e assoluta mobilità. La forma è “potenza metafisica”. Possiamo quindi individuare in Heidegger il padre di una corrente interpretativa del pensiero jüngeriano che vede nella Gestalt un concetto che designa l’essere “teorizzato” nella sua differenza con l’ente, cioè che designa la trascendenza o la metafisica come tale. L’“essere in quiete” di cui parla il filosofo di Messkirch è, dunque, la forma  scaturente dal “solco dell’essere”, orizzonte indistinto, ineffabile e atemporale, ed essa stessa immobile, eterna, ma non chiusa in se stessa poiché si dispiega nello spazio e nel tempo attraverso il tipo (argomento principale del capitolo secondo), manifestazione vivente della forma e, come la forma, sovraindividuale.

Si delinea, così, un’impalcatura ontologica gerarchicamente articolata che vede al primo livello, per così dire, il piano indistinto dell’essere e, a quelli immediatamente successivi, la forma e il tipo. In questo quadro ontologico l’operaio è una delle forme attraverso cui, in un determinato arco temporale, l’indistinto si rivela; non indica un singolo individuo né una classe sociale come la intendiamo noi oggi: è, in qualità di forma, un’entità metafisica, e dunque sovraindividuale; né, tantomeno, è un “prodotto” della storia: è imposto dalla forma al magma energetico che costituisce quello che Jünger chiama l’elementare (capitolo terzo), e proprio questa imposizione gli conferisce una valenza destinale: è tramite l’operaio, infatti, che l’uomo partecipa al destino metastorico della sua epoca; l’epoca del dominio della tecnica (i cui contenuti saranno sviluppati nel quarto e ultimo capitolo dell’opera). Alla tecnica è riconosciuto un valore positivo, conferitole proprio dall’“anima” metafisica che la contraddistingue. E’ ancora Heidegger che coglie perfettamente questo aspetto, quando scrive: «Vero è ciò che corrisponde all’essenza della tecnica. Questo rapporto essenziale non è mai raggiunto nell’operare tecnico immediato, cioè nel carattere di volta in volta speciale del lavoro. Esso consiste nella relazione col carattere totale del lavoro. (…) Qual è la determinazione dell’essenza della tecnica che ne risulta? È il simbolo della forma del lavoratore». “Tecnico” non sarà colui che svolge una mansione particolare, attenendosi semplicemente ad un compito pratico, ma chi riconoscerà nel lavoro, di volta in volta, il suo carattere di totalità. La totalità è il “movimento” della forma predominante – quella dell’operaio e, dunque, del lavoro – e la sua tendenza a penetrare in ogni spazio vitale, pratico o teoretico.

Sfogliando L’operaio dunque si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa.
Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo; la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti. Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario. L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente. Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino. Ma l’uomo può “avvicinarsi” alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta.

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo dovrebbe quindi essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma”.

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo”. L’operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’operaio. Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità. L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo”. L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita.

Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società.
L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti.

 

 

Pubblicato da

Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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