Napoli

La Napoli ispanica di Francisco Elias de Tejada e il significato attuale dell’Europa

Settembre 1734, giorno 19. Una soleggiata giornata bacia l’acqua che bagna il golfo di Napoli; nell’aria il vento tipico dell’atmosfera settembrina soffia sui capelli ricci e mori – quasi a testimoniare una presa di coscienza di dove si è – delle donne occupate nelle consuete mansioni familiari, mentre restituisce energie e vitalità ai pescatori assiepati lungo le rive del golfo. I primi raggi colpiscono imperiosi la collina svettante di Pausilypon (Posillipo), il cui nome, in un paesaggio commisto da visioni suggestive e bellezze naturali, ci testimonia l’effettiva tregua dal pericolo che al solo sguardo di un simile panorama, si prova. Nel frattempo, nel centro della città fervono grandi preparativi. Non è un giorno come gli altri e ciò si riflette nei gesti del volgo, nei volti ansimanti delle vecchie, persino nelle parrucche della nobiltà. Non c’è nulla di più interclassista di una giornata come questa; nulla che unisca e racchiuda in un medesimo spirito, anelito i sentimenti e le emozioni di una intera popolazione.

Una fiumana di popolani si dirige compatta e incredibilmente ordinata lungo il Duomo, percorrendo le strade del centro storico snodantesi attorno ai tre decumani, sopraggiungendo da ogni dove, anche da oltre città. La nobiltà, intanto, si riunisce simbolicamente davanti Porta Capuana, come già fece cinque mesi prima, quando con grande solennità e fasto accolse il nuovo re, il fondatore della dinastia dei Borbone delle Due Sicilie, Re Carlo III.
Lentamente, questa, vien formandosi in corteo lungo Via dei Tribunali, dispensando elemosine ai lazzari, mostrando dignità e sacralità nel vigore dei sui simboli, delle sue ricchezze, delle splendide bardature dei cavalli, nelle preziose fogge delle vesti, nel portamento fiero e virile dei suoi rappresentanti, nei cui cuori sono incise a chiare lettere il motto: noblesse oblige. Il centro catalizzatore di una giornata, di una stagione, di un’annata – ma potremmo ben dire, dello spirito di una intera popolazione – è il Duomo di Napoli, è il principe che lo abita e che custodisce in maniera inveterata i sogni, le aspirazioni, le tradizioni e le preci di centinaia di migliaia di persone: San Gennaro.

Eppure, una descrizione come questa, per quanto possa tentare di dare un’immagine, un affresco di un tratto costitutivo, ancestrale dello spirito partenopeo (che è presente e persiste tutt’oggi, nonostante tutto) non riesce a rendere verità ed onore ad una concezione del mondo estremamente differente da quella di buona parte d’Italia e, perfino, d’Europa. Un breve assaggio di quanto si è detto, ce lo da, con il suo solito e proverbiale occhio da fine indagatore della società, Pasolini:

Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà ecc. ecc; […] Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità.

(P.P. Pasolini, La napoletanità, in Pasolini: Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori)

Ma sarà corretto parlare di estinzione, o, al contrario, non sarebbe assai più giusto il termine: preservazione? Si tenterà di fornire una risposta proponendo una lettura della storia di un pensatore e intellettuale spagnolo, o per meglio dire, ispanico, come avrebbe senz’altro preferito. Francisco Elias de Tejada, accademico, filosofo del diritto e della politica, cattolico e tomista convinto, amava la sua terra, le Spagne – come amava ripetere – più d’ogni altra cosa. Scrittore assai prolifico, scrisse circa 300 monografie e fu tra i più illustri sostenitori del Carlismo, una dottrina politica strenuamente difesa da una un movimento che ha attraversato più di due secoli in coerente fedeltà ai propri principi ispiratori: la difesa della tradizione cattolica delle Spagne e della legittimità dinastica. Nel pensiero del filosofo madrileno si impone anzitutto una puntualizzazione storica con evidenti risvolti filosofici, da cui risulta fondamentale procedere.

L’Europa, culturalmente intesa, appare sul palcoscenico dell’umanità nel corso del secolo XI; in particolare, con l’impero carolingio si formerà e verrà consolidandosi quel medesimo spirito, stile di vita, Weltanschauung che caratterizzerà la cultura di un continente e forgerà l’uomo europeo. Sennonché, ad un certo momento della storia, il termine Europa perderà il suo significato più profondo, e cioè quello attestante una Civiltà ben precisa (la Cristianità), per indicare un luogo geografico, o tutt’al più una società fondatasi su idee e concezioni moderne totalmente opposte alla Civiltà che l’aveva preceduta.
L’Europa non nasce nella cerchia di Carlo Magno, che è la restaurazione dell’impero cristiano nella gerarchizzazione organica dei popoli, più tardi presieduta dagli imperatori germanici; l’Europa nasce, al contrario, al lusinghiero richiamo delle idee dette per antonomasia moderne, nella congiuntura del serrato ordine del medio evo cristiano. La Età media dell’Occidente ignorava il concetto di Europa, perché solo conosceva quello del suo antecessore: il concetto di Cristianità.

Il termine Europa, oggi, designa dunque il mondo e la società moderna. Elias de Tejada individua cinque cause della rottura dell’orbe pre-moderno definendole cinque pugnali nella carne storica della Cristianità che vanno dal 1517 al 1648:

[…] la frattura religiosa del protestantesimo luterano, la frattura etica con Machiavelli, la frattura politica per mano di Bodin, la frattura giuridica in Grozio e in Hobbes e la definitiva frattura del corpo mistico cristiano con le disposizioni della pace di Westfalia.

E in questo preciso periodo che si va costituendo un mondo che si attarda su posizioni apparentemente perdute. Il filosofo spagnolo fa riferimento ad una Cristianità minore e di riserva, rude e di frontiera: le Spagne; che raccolse il testimone della fedeltà ad un modo di essere, ad un modo di concepire la vita e di ordinare il mondo. Ancora oggi è abbastanza facile constatare le enormi differenze che intercorrono tra persone cresciute in contesto di tradizione anglosassone o germanica e quelli cresciuti in riva al mediterraneo di etnia latina, come del resto buona parte della popolazione del Sud America.

Non a caso Elias de Tejada utilizza il termine Spagne e non semplicemente Spagna. Queste, al loro interno, racchiudevano una varietà di popoli (la Castiglia impose il suo sigillo e si trascinò nella sua nobile follia il posato commerciante catalano, il duro sardo, il sognatore napoletano, l’indifferente andaluso, il basco semplicemente valoroso e il gagliego o il portoghese di stirpe celtica) uniti da una comune fede, visione del mondo e modo di organizzazione della società. Uniti secondo vincoli gerarchici, manifestavano la loro accalorata ed indomita fedeltà all’Impero, al quale tutti i principi e i re tributavano onori e gratitudini, ad imitazione dell’unica ed universale Patria celeste.
La Cristianità concepì il mondo come raggruppamento gerarchico di popoli intrecciati secondo principi organici, subordinati agli astri di: il sole del Papato e la luna dell’Impero.

Quando si osserva Napoli, si scrutano i suoi vicoli, si tenta di entrare in osmosi con il popolo e le sue contraddizioni, ebbene si sappia che una parte di questo spirito sopravvive ancora. Solamente qui, da nessun’altra parte. Il pensatore ispanico dedicherà ben cinque volumi della sua produzione bibliografica alla Napoli spagnola. La fierezza e l’orgoglio con i quali molti napoletani, ancor oggi, sventolano le bandiere candide e immacolate del Regno delle Due Sicilie (non semplicemente uno Stato cristiano, ma un’emanazione statale della Chiesa), la devozione e la sentita gratitudine verso i santi patroni della città, l’inesorabile orgoglio di far parte di un mondo diverso, sono a testimoniare che un pezzo di quella cristianità minor, che una parte ispanica sopravvive ancora e sopravvivrà nella misura in cui brandirà le armi della fede, della speranza e della carità.
Finché scolpirà nel cuore le parole con cui Don Chisciotte giustifica la sua missione, che lo stesso Elias de Tejada presenta come simbolo ed esempio dello spirito delle Spagne, di cui Napoli è parte integrante:

E’ per caso cosa vana o è tempo male speso quello che si impiega nel vagare per il mondo, non cercando i regali di esso, ma le asperità per le quali i buoni salgono al seggio dell’immortalità? Se mi avessero considerato stupido i cavalieri, i magnifici, i generosi, gli uomini di alto lignaggio, la giudicherei un’irreparabile offesa; ma che mi ritengano uno sciocco gli studenti, che non si sono mai messi e non si sono mai avventurati per sentieri della cavalleria, non me ne importa un fico secco: cavaliere sono, cavaliere morirò, se così piace all’Altissimo. Gli uni si muovono sul vasto terreno della superba ambizione; altri, su quella dell’adulazione bassa e servile; altri, su quello della ipocrisia ingannatrice, e alcuni, su quello della vera religione; io invece spinto dalla mia stella, procedo per l’angusto sentiero della cavalleria errante, e per esercitarla non mi curo delle ricchezze; ma non così dell’onore. Io ho riparato offese, raddrizzato torti, castigato insolenze, vinto giganti e sgominato mostri.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Pubblicato da

Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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