Il breve saggio intitolato Sulla felicità del teologo, geologo e paleontologo gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin è un testo “ardente” che risale al 1942 e tradotto in italiano per la prima volta nel 1970 in un volume che è difficile trovare in commercio: “Il Gesuita proibito – Vita ed opere di P. Teilhard de Chardin”, Giancarlo Vigorelli (a cura di), Il Saggiatore. Secondo de Chardin, la felicità è inserire la propria vita nell’avventura del mondo, nella coniugazione di tre atteggiamenti fondamentali: creatività, amore, adorazione.
La pubblicazione postuma degli scritti del gesuita ha dato origine ad un grande dibattito. Tra i testi postumi più significativi troviamo: Il fenomeno umano dove de Chardin svolge la sua visione scientifica, L’ambiente divino dove sono tracciate le linee di una spiritualità per il cristiano della terra moderna, oltre a circa 200 saggi di varia lunghezza tra cui spiccano, sotto il profilo religioso: La Messa sul mondo, La mia fede, Il cuore della materia, che rappresenta una sorta di autobiografia intellettuale e spirituale in cui il teologo evidenzia le radici della sua visione e della sua opera: il senso cosmico, il senso umano e il senso cristico; e Il Cristico, scritto poco prima della sua morte, nel 1955.
De Chardin non si accontenta di una visione analitica e settoriale della realtà, ma è alla ricerca, come dimostra, anche Sulla felicità, con tutta la sua passione di uomo e di credente, di una visione capace di abbracciare l’intera storia del cosmo e dell’umanità. Il suo principio: tutto ciò che sale converge, lo ha portato ad una grandiosa sintesi che ha tre dimensioni: scientifica, filosofica e religiosa in cui trovano conciliazione la fede nel progresso, nell’In-Avanti, la fede in Dio, nell’in-Alto. La sua prospettiva è universale: il paleontologo si china sugli abissi del passato per decifrare da futurologo le direttrici di marcia dell’avvenire di quello che egli chiama il fenomeno umano. Il suo universo è in divenire, in evoluzione secondo la legge di complessità-coscienza che implica una struttura convergente del mondo.
Sulla felicità: l’avventura dell’uomo nel mondo secondo de Chardin e le tre categorie di esseri umani
In questo senso in Sulla felicità de Chardin considera l’uomo imbarcato, quasi portato dall’avventura del mondo, di un mondo che sale verso più complessità più coscienza fino alla finale ricapitolazione in Dio tramite il Cristo universale. L’atteggiamento più umano risulta quindi con la resa di fronte alla difficoltà, né la dispersione nelle dilettazioni del presente, ma la responsabile fedeltà alla terra. La felicità è incorporarsi nella totalità del processo in corso; inserire l’avventura della vita nella più vasta avventura del mondo; vivere in salita secondo il ritmo di tre momenti: essere se stessi, aprirsi agli altri, nello slancio umano e cristiano, in avanti verso Dio che chiama e attira.
Per capire meglio come la “questione” della felicità è indispensabile secondo de Chardin, distinguere tre atteggiamenti fondamentali, adottati in realtà dagli uomini di fronte alla Vita: gli escursionisti pronti alla conquista di una vetta difficile, la cui comitiva è divisa in tre tipi di elementi. Alcuni rimpiangono di aver lasciato l’albergo e decidono di tornare indietro. Altri non sono dispiaciuti di essere partiti. Il sole splende ed il panorama è bellissimo, perché continuare? E si fermano magari sdraiandosi sull’erba a fare un pic-nic. Altri infine, i veri alpinisti, non staccano gli occhi dalla vetta che si sono giurati di conquistare e riprendono la salita. Gli stanchi, i gaudenti e gli ardenti, tre tipi di uomini di cui ognuno di noi porta il germe dentro di se.
Per la categoria degli stanchi l’esistenza è un errore o uno scacco. Spinto all’estremo e sistematizzato in dottrina filosofica, tale atteggiamento sfocia nella saggezza dell’India per cui l’Universo è un’illusione e una catena, oppure in un pessimismo alla Schopenhauer. E quindi: a che pro cercare? Meglio morti che sdraiati? Tutto si riduce a dire, che è meglio ‘essere meno’ che ‘essere più’ e il meglio di tutto sarebbe non essere per nulla. Per i gaudenti è certamente meglio essere che non essere, ma secondo de Chardin bisogna fare attenzione al significato che assume essere. Essere, vivere, per i discepoli di tale scuola, non vuol dire agire ma riempirsi del momento presente. Godere ogni attimo e ogni cosa gelosamente. Senza preoccuparsi dell’avvenire. Infine gli ardenti, coloro per i quali vivere è una salita e una scoperta. Per loro non solo l’essere è preferibile al non essere ma è anche sempre possibile e unicamente interessante ‘divenire di più’. Per loro l’essere è inesauribile, non alla maniera di un Gide, come un gioiello dalle innumerevole faccette, che si può rigirare in tutti i sensi senza stancarsene mai, ma come un focolaio di calore e di luce al quale è possibile avvicinarsi sempre maggiormente. Questi uomini possiamo chiamarli ingenui, deriderli, possono risultare fastidiosi a qualcuno, ma proprio da essi si prepara a sorgere la Terra di domani.
De Chardin poi individua tre tipi di felicità: la felicità di tranquillità: nessuna preoccupazione, rischio, sforzo. Riduciamo i contatti, smorziamo le luci, restringiamo i bisogni, induriamo l’epidermide, rinchiudiamoci nel guscio, dice l’autore. L’uomo felice è dunque, secondo quest’ottica, è colui che meno penserà, sentirà, desidererà. Vi è poi la felicità di piacere: lo scopo della Vita non è agire e creare, ma godere, che sembra essere l’imperativo categorico attuale. Anche qui minimo sforzo, appena quello necessario per coppa e liquore. L’uomo felice è quello capace di assaporare più compiutamente l’attimo che tiene tra le mani, Infine vi è la felicità di sviluppo. In questa prospettiva la felicità non esiste né ha valore proprio, come un oggetto che si può afferrare: è solo l’effetto e come la ricompensa dell’azione convenientemente diretta. Non basta dunque, come suggerisce l’edonismo moderno, rinnovarsi in un modo qualunque per essere felice. Nessun cambiamento beatifica se non lo si effettua in salita secondo de Chardin. L’uomo felice dunque, è colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di se stesso, in avanti.
Cosa scegliere dunque si chiede l’autore del saggio, qual è il criterio giusto? Per de Chardin un criterio oggettivo esiste e sostiene che basta guardare la Natura intorno a noi per scorgerlo alla luce delle ultime conquiste della fisica e della biologia:
L’Universo e l’uomo
Tutti sanno che oggi, nessuno dubita più del fatto che ontologicamente l’Universo non è fermo, ma si muove, da sempre, sin nell’estremo fondo della sua intera massa, in base a due correnti opposte: l’una che trascina ma materia verso stati di estrema disgregazione, l’altra che porta all’edificazione di unità organiche i cui tipi superiori, astronomicamente complessi, formano quello che chiamiamo il mondo vivente. Consideriamo più particolarmente la seconda corrente, quella della Vita di cui facciamo parte. Per un buon secolo gli scienziati, pur ammettendo la realtà di un’evoluzione biologica, hanno discusso per sapere se il moto che ci trascina fosse solo un vortice circolare chiuso oppure corrispondesse ad una deriva definita dalla frazione animata del Mondo verso un qualche stato superiore determinato. Orbene oggi, è la seconda ipotesi che sembra come corrispondente alla realtà. La Vita non si complica senza leggi e come a caso. […] Essa progredisce in maniera metodica, irreversibile, verso stati di coscienza sempre più elevati. […] Storicamente parlando la Vita è un’ascesa di coscienza. Non vedete forse, subito, la conseguenza diretta di una tale proposizione sul nostro comportamento interiore?
Se vogliamo davvero essere felici con il Mondo, dobbiamo aggregarci, secondo de Chardin, al gruppo di coloro che vogliono rischiare la scalata sino all’ultima vetta; ma non basta aver optato per la salita. Non bisogna sbagliare il sentiero. Per raggiungere allegramente la cima qual è la strada giusta? Attraverso tre passi fondamentali, l’uomo, come già accennato, deve incentrarsi su di se, decentrarsi sull’altro e supercentrarsi su uno più grande di lui. Si tratta di tre gradi concatenati che consentono all’uomo di essere pienamente se stesso e felice in quanto cresce interiormente, in forza, sensibilità, padronanza di se, congiungendosi con l’altro. Per de Chardin la felicità è la gioia dell’elemento diventato cosciente nella totalità che esso serve in cui si realizza, la gioia attinta dall’atomo riflessivo nel sentimento della sua funzione e del suo compimento nell’universo che lo contiene: tale è in teoria e in pratica, la forma più alta e progressiva di felicità che l’autore francese augura all’uomo.
Certamente è curioso che un gesuita non menzioni in questo mini-saggio alcuni passi del Vangelo, ma è altrettanto certo che de Chardin, esploratore e geologo, non dimentichiamolo, parla di slancio e di pensiero persistente del pensiero cristiano che sorregge l’enormità angosciosa del mondo. In sintesi, in Sulla felicità, egli parla di un Umanesimo cristiano, all’interno del quale ogni uomo comprenderà un giorno che gli è possibile non solo servire e soprattutto prediligere in tutte le cose, dalle più dolci alle più austere, un universo carico d’amore nella sua evoluzione.