Scarabicchi

La poetica realistica di Francesco Scarabicchi

Francesco Scarabicchi (Ancona, 10 febbraio 1951 – Ancona, 22 aprile 2021) è il poeta osservatore, cultore della parola intesa come accoglimento di ogni dettaglio. Nativo di Ancona resta orfano di padre a dieci anni: dopo aver conseguito il diploma magistrale si iscrive all’Università di Urbino ma, ben presto, lascia gli studi per lavorare in banca, impiego che mantiene per  trent’anni. L’incontro con il poeta Franco Scataglini determina quella sarà la sua strada: la poesia.

La poetica  di Francesco Scarabicchi nasce dalla consapevolezza: quella presa di coscienza realistica in ogni sua sfumatura, dalla bellezza all’intensa sofferenza. Peculiarità primaria del poeta marchigiano è, senza dubbio, la proiezione di ogni emozione nel reale: Scarabicchi non introietta, ma proietta ogni suo sentire nei versi, nella poesia, nella parole che sceglie con cura per cantare le pieghe delicate della sua anima.

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

 

Così si apre Il prato bianco, la raccolta del poeta ripubblicata da Einaudi nel 2017. La poesia di Scarabicchi sembra muoversi in un continuo flusso di malinconia antica e nuova che non fa sconti alla realtà ma, anzi, la inserisce in ogni locuzione, ogni strofa, ogni semantica possibile. Porzioni di reale si intersecano in un lessico semplice ma curato che richiama un certo stile senza orpelli e, al contempo, ricercato.

Nel fondo

Il poco più di notte
che si attarda
sul manto delle more
non tradisce
quel che di te non dici,
gli anni muti

scivolati nel fondo,
in lontananza.

 

La dimensione naturalistica e analogie con la poetica di Giovanni Pascoli

Nella raccolta Il prato bianco è chiara l’influenza del Pascoli: il modello sembra rimandare agli ingenui stupori del fanciullino, tuttavia appare chiara al lettore anche una certa analogia riguardante il linguaggio stilistico usato dai due autori. In Giovanni Pascoli abbiamo una minuzia nella narrazione che riguarda la descrizione e la menzione del paesaggio naturale. Si pensi a componimenti come  L’assiuolo, L’aquilone o L’ora di Barga;  la silloge Myracae così come i Canti di Castelvecchio, e in generale tutta la poetica pasco liana, è attenta a dare la giusta accezione a ogni soggetto presente in natura. Un  rimando che si nota anche in Scarabicchi quando parla del  manto di more, l’ombra dell’erba, le aiuole, i giardini: la natura è presente anche nei versi del poeta marchigiano, tuttavia il lessico si pone su una linea di comunicabilità con lettore, pur annoverando qualche tecnicismo.  La dimensione naturalistica-paesaggistica e quella famigliare e personale che allude al ricordo e al tempo che scorre, si fonde e plasma la poetica di Scarabicchi: due peculiarità che ricordano la poetica Pascoliana. Un esempio tangibile lo si può constatare nella poesia Luci distanti:

Il muschio è quell’odore che non muta
la sua antica infantile identità,

come se fosse sempre ovunque Ortona,
nel silenzio notturno che qui scende,

camera d’un albergo di provincia,
luci distanti che dai vetri vedo,

se appena un po’ m’accosto dopo cena.
Cadrà sempre la neve in ogni tempo,

sarà bianca com’era, fresca e intatta,
nasceranno bambini dai suoi fiocchi

come piccoli uomini che vanno
al paese incantato inesistente

che ciascuno conosce, se rammenta
l’albero dai bei doni illuminato.

I personaggi galleggiano in una dimensiona naturalistica, trasportati da un’atmosfera che rimanda sempre ai tempi dell’infanzia e, senza voler osare, quasi attingendo alla poetica crepuscolare: i luoghi abbandonati, le strade di provincia, le antiche e mitiche memorie di un tempo che  non tornerà. Stesso topos descritto nei versi di  Biglietto di settembre:


Questa pioggia che senti
giovane lungo i muri

picchia, se fai silenzio,
ai nostri vetri,

bagna inferriate e foglie,
crolla dalle grondaie,

allaga il buio,
cancella ponti e polvere

e scompare.

 

Il pensiero di Scarabicchi, tuttavia, è concreto: il poeta non è un veggente, esiste una sola realtà che è quella sensibile e l’artista non ha accesso a nessun altro tipo di dimensione più alta  e privilegiata. L’esistenza, per Scarabicchi, resta incasellata in un perfetto ‘’Eterno ritorno’’ che ne evidenzia la replicabilità, il grigiore e la sua limitatezza. La poesia, in questo caso, è solo un mezzo che ha il delicato compito di cercare e donare un barlume di ragionevolezza nella realtà delle cose, dei giorni, della vita e del suo fluire. Il poeta, in questo caso, non è un profeta ma uno spettatore che diviene interprete delle circostanze attraverso la poesia; le parole sono quindi l’ unico mezzo per accedere e comprendere la realtà.

Il tema della morte nella raccolta ‘’La figlia che non piange’’ e il valore della parola custode di memorie

La figlia che non piange è la silloge di Scarabicchi pubblicata postuma, da Einaudi, nel 2021. Qui, il poeta scomparso nell’aprile dello stesso anno, riflette sul tema della morta intesa come ultimo traguardo dell’uomo e come parte stessa e imprescindibile della vita di ognuno. Scarabicchi, anche in questa raccolta, affronta di riflesso argomenti come il tempo e il ricordo; la silloge è infatti una lunga riflessione sui momenti ormai passati e sfumati, nell’amara  constatazione che mai più faranno ritorno.

Prologo

Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.

 

Scarabicchi procede in un racconto dove la dimensione temporale, il ricordo e la morte si intersecano in versi chiari e delicati. Non è un lamento, il suo, ma la contemplazione di quello che è stato, scompare e permane come si può constatare nel componimento Qui regna il tempo che scompare:

Qui regna il tempo che scompare,
la fuga sua invisibile,
il nome che non resta,
giorno della stagione, breve resa,
limite d’ogni soglia inesistente.

 

E ancora l’istante che si somma agli altri e che ricrea  una dimensione temporale che ammanta emozioni, esistenze, periodi e che prende, parafrasando ancora Scarabicchi, solo per lasciare ancora:

Ah

Ah, il tempo che passa alle mie spalle,
sulle mie scarpe nuove, sulla pelle,
il giovane tempo che non ho incontrato,
il tempo abbandonato a mia insaputa,
quello smarrito lungo vie contrarie,
il tempo solitario d’ogni notte,
il tempo che mi viaggia e non ritorna,
tutto il tempo del tempo che c’è stato,
il tempo immaginato che perdòno,
quello di un’altra estate che scompare,
il tempo innamorato che è lontano,
il tempo che si volta non si ferma,
il tempo muto che si fa guardare,
il tempo intero che non puoi pensare,
quello che prende solo per lasciare.

 

I luoghi e i tempi permangono solo nella poesia, unica dimensione  che accoglie e coglie ogni sottigliezza che nella realtà della vita, e agli uomini, spesso sfugge: ecco, così, che solo la poesia riesce a salvaguardare e far durare in modo sempiterno relazioni e sentimenti in quanto la parola, nella sua insita peculiarità, è sia uno scrigno custode di ricordi che una messaggera di memorie erranti nel tempo senza che la sua essenza venga mai scalfita.

 

 

 

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