Sepehri

Sohrab Sepehri, il poeta più innovativo dell’Iran contemporaneo

La poesia dello scrittore persiano Sohrab Sepehri viene considerata come la più innovativa dell’Iran contemporaneo e occupa un ruolo di assoluta originalità nel panorama letterario internazionale. Il “metodo pittorico delle sue rappresentazioni” va interpretato in base agli spazi espressivi che caratterizzano gli onirici territori persiani: luoghi in cui si magnificano sovrapposizioni di terre e minerali che ci appaiono sempre in meravigliosa armonia. La composizione degli elementi infatti diviene immanente in natura: la sensazione è di ritrovarsi in un’epoca altra, una visione di un mondo mitico che rimane intatto sotto una volta di vetro soffiato e risponde a quei caratteri propri di un’estetica neoplatonica, angelicata e devota alle costellazioni, caratterizzante a pieno titolo la coscienza culturale e religiosa dei persiani.

L’Iran appare al viaggiatore nei suoi bagliori, in quelle luci e “visioni” sprofondate nei paesaggi che si esprimono soprattutto nella varietà e nella differenziazione dei colori e degli habitat. Laddove l’uomo non ha eroso e non ha intaccato con spirito famelico, come invece è avvenuto nella capitale Teheran e in altre città storicamente e geograficamente importanti, i cosiddetti spazi del “non/dove” si susseguono e ci smarriscono in labirinti da cui è difficile uscirne: l’immoto che cambia, il luminoso velato ma appagante, la nuvola perduta e unica nel cielo terso e muto, la corteccia dei tronchi con le metamorfosi sotto i raggi fulgenti del mattino, l’improvvisazione visiva di elementi in paesaggi millenari che ci appaiono pietrificati: in un istante si evolvono quasi incomprensibilmente in archetipi partoriti dalla ancestrale immaginazione tipica persiana, concretizzandosi nel movimento circolare delle miniature:

“Quale soavità versa la luce nella coppa ramata!
La scala, dalla cima del muro, trascina il mattino sulla terra.
Tutto velato dietro un sorriso.
Muri del tempo hanno una ferita, dove si intravede il mio volto.
Ci sono cose che non so”.  

Incanto delle luci che plasmano e modellano incessantemente, che sia acqua o roccia, che sia albero o collina, il tutto si riduce all’intimo e delicato segreto di un luogo segreto. La luce è il riferimento filosofico e religioso dell’antica Persia, scintillante di ricchezze e civiltà mai spente, neppure dalla notte dei tempi e dalla insana voracità distruttrice dei barbari invasori. Sepehri è costante nei suoi scritti poetici ma sempre nuovo, nel solco di una eterna condizione bidimensionale, dove si intrecciano poesia e musica, pittura e danza, immanenza e trascendenza. Una poetica profondissima con rappresentazioni delicate che ci riportano, in qualche modo, a certe descrizioni del naturale intriso di trascendenza talvolta illeggibile, come accade in Montale, con le doverose differenziazioni, quando afferma «non chiederci la parola», nel tentativo di trovare immagini espressive della precarietà sia linguistica che esistenziale.

Non da meno, mi sembra azzardato pensare a Ezra Pound, leggendo le poesie di questo artista, quando, quasi alla stregua di un rito purificatorio nel periodo in cui si avvicina a una certa “sapienza orientale”, racconta l’impossibilità di cogliere l’assoluto mediante la descrizione di “logoi” antitetici e inconciliabili. Nulla è perduto in questo mondo di assurde atrocità, dal Cilindro di Ciro esempio maestoso di una cultura tanto ramificata in cielo quanto radicata nelle profonde viscere della terra, alle oscene catastrofi umanitarie di questi giorni in cui un popolo di così antica genesi si trova a subire per opera di un potere irriconoscibile, quanto orribile nella negazione della propria storia artistica.

Sepehri fu infaticabile viaggiatore in tutto il mondo, un “viandante” che nel 1964 si recava in Pakistan e India per rimanerci lungamente. Fu in quei luoghi mistici, in particolare in India, dove il poeta si avvicina alle pratiche buddiste e induiste. Sepehri era figlio di un “daftari”, un impiegato della “Indo-European Telegraph” e, nel contempo, artigiano e costruttore dei tradizionali flauti persiani: il tar. Questo strumento fu molto amato negli ambienti mistico-sufi (corrente religiosa e culturale nata da una costola dello sciismo duodecimano e decisiva per i contributi letterari e filosofici all’interno delle opere dei maggiori interpreti della cultura persiana).

Nato nel 1928, a Kashan (splendida oasi ai margini della strada che porta da Qom a Kerman, al confine dei grandi deserti centrali dell’Iran), si dedicò da subito agli studi artistici presso l’Accademia di Belle Arti di Teheran e, successivamente, a Parigi, partecipando come pittore a varie biennali, fra cui una tenutasi a Venezia. Il poeta fu uomo solitario, schivo e silente: si tenne lontano da questioni che riguardavano la sfera politica, il conflitto insistente e spesso drammatico che permeava la instabile società iraniana e che avrebbe portato, inesorabilmente, alla deriva islamica e khomeinista. Proprio nel 1979 avvennero i fatti drammatici di quella rivoluzione che ancora oggi produce mostri e torturatori, mentre il poeta si spegneva a Teheran colpito da una grave forma di leucemia. Quanto oggi sia importante Sepehri lo dimostra uno dei film più belli del cineasta Abbas Kiarostami, che si ispira a una poesia del poeta: “Dov’è la casa del mio amico”, vale la pena riportare un passo tratto dalle traduzioni di Gianroberto Scarcia e Riccardo Zipoli:

“Seguirai sino in fondo quel sentiero
che pubertà esaurisce,
poi verso il fiore della solitudine,
e, a due passi dal fiore, sosterai
a zampillo perenne di fiaba terrena
in diafana paura.
E nell’intimità fluida di spazio,
un fruscio sentirai, vedrai un fanciullo
che, sopra un alto abete,
raccoglierà un piccolo implume
dal nido della luce. Chiederai
a lui dove l’amico ha sua dimora”.

Sohrab Sepehri nasceva come poeta dell’avanguardia persiana, rappresentando agli esordi una notevole asimmetria con i canoni, solenni e inflessibili, della tradizione poetica persiana. Distanziatosi anche da questa dimensione stilistica, egli approdava a uno stile personalissimo intriso di mistica e non immune da influenze del patrimonio culturale dell’estremo oriente, dove uno degli elementi principali è la lettura del rapporto tra uomo e natura nella loro dimensione esistenziale e religiosa.

 

Francisco Soriano

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