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Sulla poesia del ‘900. Sperimentalismi, neolirismi, ideologie

Nel corso del ‘900, in poesia, si è diffuso il verso libero. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoperare tale verso e in merito a ciò scrisse: “Mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe”.

Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell’imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoperò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica.

Per quel che riguarda l’Italia i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava “misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)”, né il posizionamento di accenti tonici.

I poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche, mentre i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l’arte e il tentativo di ideologizzazione dell’arte stessa.

Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell’ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell’arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per  il poeta Robert Frostscrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».

Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.

La crisi della poesia

Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall’osservazione o dalla trasfigurazione.

Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basti pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio.

Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l’ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l’orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie.

Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l’ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch’essi non erano di facile comprensione.

Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l’intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall’altro lato erano anche contro il neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti.

Forse nel neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l’egemonia culturale e l’estetica dominante, contro la mercificazione dell’arte. Tuttavia spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi.

Infine la poesia degli anni Settanta con il neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”.

Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C’è perfino troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall’egocentrismo, dal narcisismo, dall’autobiografismo. È una poesia talvolta  autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro e il gradimento del pubblico è scarso.

I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all’1% del fatturato globale. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori.

Poesia e moralità

È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l’eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza.

Se il poeta era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si considerava soprattutto l’etica. Si giudicava la condotta. D’altronde anche la neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti.

Il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era “ideologia”. Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. È chiaro che la neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc.  Le due “chiese” comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento.

Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. una pura evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l’eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa.

Poesia e ideologia

Quali qualità deve possedere un artista per essere tale?  Un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri.

Secondo alcuni l’artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un’esigua minoranza.

Importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a “I tempi moderni” proponeva l’engagement.

Lo scrittore dunque era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Per Saba invece i poeti dovevano essere “sacerdoti dell’eros”. Anche D’Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne “Le vergini delle rocce” che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l’arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?

Lo stile può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di risultare troppo faziosi e di confondere l’estetica con l’ideologia.

In alcuni casi c’è la possibilità di confondere l’estetica con l’etica. Non dimentichiamo che in alcuni autori l’appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l’anarchia sono categorie dello spirito.

Non dimentichiamo neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all’entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi.

Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

Poeti di ricerca e neolirici

Probabilmente è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni.

Non è detto inoltre che tale distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo).

La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione.

Pasolini dichiarò che esisteva in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell’ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell’ultimo Cesare Viviani?

Non sarebbe originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a “pensare contro sé stessi” per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera “La tentazione di esistere”)?

Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch’essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti; e la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale).

La distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l’essenziale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L’essenziale lo si raggiunge con il levare, peculiarità della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l’accumulo, ovvero cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

 

 

 

About Davide Morelli

Nato nel 1972 a Pontedera (Pisa), laureato in psicologia. Articolista su alcune testate giornalistiche online e collaboratore di riviste online e blog.

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Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885 dal garibaldino e massone Enrico Rebora e dalla poetessa Teresa Rinaldi. Nel 1903 intraprende gli studi di medicina che presto abbandona per seguire i corsi di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove si laurea nel 1910. Fin dalla giovane età l’anima di Rebora sembra intrisa da profonde crisi spirituali; nel suo percorso accademico supera difficili momenti di depressione che lo portano sull’orlo del suicidio. Completati gli studi, dapprima, intraprende la via dell’insegnamento in istituti tecnici e scuole serali non tralasciando la passione per la scrittura; in questo periodo, infatti, collabora con numerose riviste fra cui ‘’La Voce’’, ‘’Diana’’ e ‘’Rivisita D’Italia’’.  Nel 1913 avviene il debutto letterario  con la pubblicazione del volume di poesie Frammenti lirici. Nel 1914 conosce  pianista russa Lydia Natus, l’unica donna che il amerà nel corso della sua esistenza.