Mario Tobino (Viareggio, 16 gennaio 1910 – Agrigento, 11 dicembre 1991), è stato uno scrittore molto prolifico, che si è diviso tra poesia e romanzo. Ragazzo esuberante e insofferente agli studi i genitori lo spediscono per un anno in collegio, a Collesalvetti. Ritornato a casa inizia gli studi liceali a Massa, ottendendo la maturità da privatista a Pisa, dimostrando una certa propensione verso gli studi umanistici e nello scrivere, uniti ad una aspirazione di aiutare il prossimo malato, che lo portano ad iscriversi a medicina all’Università di Pisa, per poi proseguire concludere il percorso nel 1936 all’Università di Bologna, laureandosi. Contemporaneamente al periodo universitario, Tobino svolge una limitata attività letteraria, pubblicando alcuni scritti su riviste aperte ai contributi dei giovani letterati, e nel 1934 pubblica Poesie, la sua prima raccolta di versi.
Dopo la laurea, Mario Tobino viene chiamato ad assolvere il servizio di leva in un primo tempo a Firenze poi come ufficiale medico nel Quinto Alpini a Merano; tornato a Bologna si specializza in neurologia, psichiatria e medicina legale, e incomincia a lavorare all’ospedale psichiatrico di Ancona. Durante la sua permanenza in questo luogo di dolore compone delle poesie, pubblicate nel 1939 col titolo Amicizia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale viene nuovamente inviato sul fronte libico dove rimane fino al 1942: tale esperienza è raccontata nel romanzo-memorie di guerra e di amore per la vita, tra diario e racconto, Il deserto della Libia (1952). Ritornato in Italia pubblica la raccolta di poesie Veleno e Amore, il romanzo Il figlio del farmacista e i racconti riuniti sotto il titolo La gelosia del marinaio, e riprende a lavorare in ospedali psichiatrici. Nel 1943 partecipa alla Resistenza contro i nazifascisti in Toscana, e dalle vicende di lotta partigiana prende spunto per scrivere il romanzo Il clandestino. Durante il dopoguerra Tobino si dedica anima e corpo alle sofferenze dei malati di mente, e contemporaneamente prosegue la sua attività di scrittore, raggiungendo una maggiore notorietà e diversi premi letterari.
Nel suo linguaggio di Mario Tobino, sia che fosse nella misura del verso libero, o prosa d’arte tra frammento e racconto, si avverte sempre come un impaccio e a volte un ingorgo che gli impediscono il pieno possesso dell’immagine o di una oggettiva distensione narrativa. Tuttavia si sente che proprio in questo ingorgarsi del linguaggio, c’è una forza originale, una complicata natura di scrittore che quasi certamente deriva da una materia di orgine autobiografica nei modi frequenti negli scrittori della Versilia, da Viani a Pea, che preferiscono attingere alla parlata nativa più che a una consueta lingua comune. Ciò non riguarda solo le parole, frasi e modi di dire di un toscanismo provinciale di estrazione campagnola o marinara, ma soprattutto per la sintassi con quel che di ellittico e di contratto che fa parte di ogni parlata dialettale.
Il legame che Mario Tobino ha con la sua terra è un fatto di umanità, di coerenza con sé stesso, se in lui cresceva lo scrittore è perché era cresciuto anche l’uomo, e risiede qui la sua forza. Quel che tocca più a fondo nella produzione dello scrittore toscano, è la pena umana che si logora inutilmente, in un chiuso e amaro coraggio: più che lo strazio della carne lacerata, è la desolata coscienza di uno spreco di energie morali, di sacrifici e di eroismo che scuote Tobino:
“Eppure ci furono anche in Libia gli eroi, candidi, soldati, umani. Chi non abbandonò l’amico, chi non è morto per nulla, sapendolo. Puro gesto senza ideale, se non quello umano, gentile, nello specchio del destino che lo guardava…Si vide anche cosa poteva dare un uomo senza patria, vilipeso, afflitto per venti anni da una bestiale tirannia, eppure rimanere ancora gentile…Un nobile soldato senza bandiera…”
Con queste dramamtiche parole si chiude il libro Il deserto della Libia. Se poi Mario Tobino si inserisce in un manicomio, in un mondo dove l’umanità è stata folgorata alle sue radici, ecco che lo vediamo frugare nell’abisso di quell’umanità, con l’occhio pietoso di chi intuisce il mistero della vita.