‘Una Stanza tutta per Sé’: il “femminismo” di Virginia Woolf

Una Stanza tutta per Sé (1929) di Virginia Woolf è uno tra i suoi preziosi capolavori che si ama ricordare. Il nome di Virginia Woolf non necessita di ampie presentazioni o preamboli. Senza dubbio è una tra le autrici più prolifiche del Novecento e la critica continua a interrogare i suoi lavori. Questi ultimi di stagione in stagione si arricchiscono di sfumature e rivelano i risvolti inediti di un genio e di una intellettuale come poche se ne insigniscono i secoli.

Possiamo partire da qui, da questo testo che è ancora in grado di significare e far pensare sull’odierno stato di cose. Oggi che i gender e cultural studies stanno affermandosi anche in Italia, dimostrano quanto il dibattito in merito qui sia ancora problematico, incerto e muova i primi passi. E allora non si può non partire da Una Stanza tutta per Sé, pietra angolare nell’ondata del ’68, di quel femminismo firmato Carla Lonzi ma che oggi sembra essersi interrotto o che comunque ha preso pieghe stucchevoli. Senza esitazione, senza quel ‘politically correct’ che domina la nostra cultura che opta sempre per il vile pudore del ‘compromesso’ storico e intellettuale, Una stanza tutta per sé è un testo femminista, per le donne e sulle donne. Qualcosa è cambiato per le giovani intellettuali di oggi rispetto ai tempi di cui queste pagine sono figlie? L’eredità è stata coltivata? Scrivere su questo testo non elude da una questione di genere e dal porsi qualche interrogativo.

Nell’introduzione del libello di Virginia Woolf di si legge: “L’unica vita eccitante è quella immaginaria. Appena metto in moto le rotelle nella mia testa non ho più molto bisogno di soldi o di vestiti, e neppure di una credenza, un letto a Rodmell o un divano”. Con questo stato d’animo Virginia Woolf si accingeva ad affrontare la questione femminile, per realizzare sotto forma di saggio-narrazione l’opera Una Stanza tutta per Sé. La Storia per la Woolf deve essere letta attraverso i suoi ‘vuoti’ oltre che attraverso i suoi ‘pieni’. Ed è per questo che decide di raccontare la storia dell’assenza, abitata dai fantasmi delle donne nella Storia. Nel gennaio del 1928 infatti le viene chiesto di tenere due conferenze ai collegi femminili di Girton e Newnham, sul rapporto tra le donne e il romanzo.

La lunga fatica per la conferenza lascia nell’autrice l’amara constatazione che le giovani donne fossero affamate tanto quanto coraggiose, intelligenti, avide ma povere, destinate a divenire nelle migliori delle ipotesi delle diligenti maestre. L’impressione della Woolf è che il mondo stesse cambiando e la ragione si stesse facendo strada, ma sempre nella medesima direzione, in nome di quegli Universali che tuttavia escludevano ancora una volta proprio le donne. Nuovamente deprivate di una conoscenza più corposa della vita, in Una Stanza tutta per Sé si legge: “Come contiamo poco e come tutte queste moltitudini annaspano per restare a galla”. Virginia Woolf osserva da spettatrice il movimento delle donne per la conquista del diritto di voto (si ricordi il Congresso della Lega cooperativa delle donne1913), pur consapevole della sua posizione privilegiata che le consente di dedicarsi alla letteratura e allo studio. Uno dei filoni tematici che accompagnano la Woolf nella sua produzione è il tema donne-corpo-linguaggio e donne-condizione sociale-letteratura. In Una Stanza tutta per Sé l’autrice sottolinea i passaggi dell’esclusione delle donne dalla Storia, nel senso degli avvenimenti e nelle azioni politiche e storiche sia rispetto alla letteratura. La stessa Woolf è vittima di questa esclusione, infatti non frequenterà l’università proprio in quanto donna.

La costruzione particolare del testo, strutturato come un saggio-narrazione, risponde ad un’esigenza precisa dell’autrice. Per dare parola alle donne Virginia Woolf ricerca altri linguaggi e altri toni, in quanto i modelli della cultura ufficiale non tengono conto delle donne. È per questo, infatti, che il linguaggio e lo stile che la Woolf adotta per le descrizioni dei personaggi femminili, si basano molto sull’utilizzo di immagini, come un pittore che dispone di una tavolozza.

Tuttavia in Una Stanza tutta per Sé si ha la sensazione che molte questioni restino amaramente irrisolte. L’unica certezza che la Woolf sembra poter offrire alle sue ascoltatrici di ieri e alle lettrici di oggi, è la convinzione che se una donna vuole scrivere romanzi (e non solo aggiungo) è necessario che possegga del denaro ed una stanza tutta per sé.

Tra le numerose immagini che la Woolf ritrae tra le pagine del romanzo, mi sento di menzionare quella  della mensa, raffinato  parallelismo che evoca quella del simposio del dialogo platonico. Ulteriore dettaglio degno di nota riguarda il momento in cui Virginia Woolf cerca libri sulle donne. Trova moltissimi testi, tutti scritti da uomini, ‘senza alcuna riconoscibile qualifica eccetto il fatto di non essere donne’. Si ritrova in difficoltà rispetto al ragazzo che le siede affianco in quanto, non avendo potuto frequentare l’università, manca di metodo nel condurre una ricerca di tipo scientifico. I titoli dei libri che trova sono Più deboli in senso morale di donne, Ridotte dimensioni celebrali delle donne, Inconscio più profondo delle donne, Amore per i bambini nelle donne. Trova in questi scritti rabbia e collera che si manifestano sotto forma di satira e biasimo. Ergo, da qui deriva per un patriarca l’enorme importanza di sentire che moltissime persone, addirittura metà della razza umana, sono per natura inferiori a lui.

L’assenza delle donne nella Storia e nella letteratura è sintomatico. Tuttavia secondo la Woolf  “L’odio nei confronti degli uomini rende la produzione letteraria delle donne peggiore, in quanto risulta ostacolata e condizionata dalla rabbia repressa. È proprio per questo che è necessario ricercare l’autonomia, per liberarsi dalla sensazione di dipendenza e dalle possibilità di provare risentimento”.

Occorre secondo l’autrice prendere l’abitudine alla libertà e al coraggio; guardare gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; perché nessun essere umano deve precluderci la visuale:

“Se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale dobbiamo appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità”.

‘Padre Padrone Padreterno’, il saggio sulle culture di Joyce Lussu

Padre Padrone Padreterno di Joyce Lussu si palesa come tentativo di avviare una riflessione critica sulla possibilità di «spiegare e comprendere, integrare e giustificare, senza conquistare e colonizzare, ma fiorendo in un destino babelico e non monoteista, non biblico, non universale, non imperialista, a favore del colloquio tra i mondi, stando insieme alla pari nelle differenze delle culture». Il dibattito odierno intorno alla “Cultura di Genere” rappresenta un tentativo per vivificare i mondi e per incentivare le intelligenze. Cogliere il “vissuto”, implica il non avvalersi esclusivamente delle discipline istituzionali, andare ben oltre le storie letterarie o gli studi critici. Oggi più che in passato, occorre vivificare il sapere per tradurre quei valori che rispettino le pluralità e che non si riducano al semplice confronto. A tal fine Padre Padrone Padreterno è uno strumento privilegiato e ancora attuale per il metodo in fieri che propone. Una prassi aperta ad ogni tipologia di dialogo, interdisciplinare, mossa da un interesse grande e plurimo, che superi l’approccio accademico, a favore della diversità. Il dibattito sui “Gender Studies” dimostra quanto sia necessario che la ricerca sia adeguata all’epoca in cui viviamo e che abbandoni ogni forma di pregiudizio etnico e sessuale.

Nonostante nomi illustri si siano occupati della questione di genere, ho preferito scegliere una voce dimenticata (o volutamente ignorata dagli imbonitori del sapere), e che al contrario io reputo una delle pensatrici più autorevoli e fuori dal coro. Joyce Lussu è ritenuta una donna di confine che ha adoperato un metodo d’azione. Infatti, il suo partire dal basso, le ha consentito di svolgere uno studio pioneristico sul “pensiero della differenza”. Quest’ultimo è pieno di risonanze ancora attuali, scevro da cerebralismo ma aperto all’incontro, tanto da risultare distante dal populismo arcaico. La pensatrice al concetto di genere, che sembra andarle stretto, predilige lo sconfinamento dei paradigmi. Vi si scorge una permanente tendenza a non farsi escludere perché donna, senza però l’aspirazione a mascolinizzarsi. L’agire come donna, il sentirsi sempre più donna è l’apprezzamento autentico e onesto della diversità e della complementarietà:

«Essere donna l’ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello? Vi faccio vedere io! Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anche io. E in più, so fare anche un figlio».

La tesi che la Lussu sviluppa nel suo scritto, è che in una società dove la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli individui a difendere il proprio posto di lavoro per disperata necessità, emerge sempre la diseguaglianza; al contrario, in un sistema capitalistico arretrato, l’economia si reggeva sui risparmi domestici, mansioni assistenziali gratuite e creava le strutture culturali adeguate a giustificare questo stato di cose, dalla morale piccolo borghese alla religione. All’interno di tale sistema, donne ma anche uomini sono schiacciati dalla Restaurazione Capitalistica, e a maggiore ragione è necessario legare una volta per tutte la teoria alla prassi, al di fuori delle tavole rotonde istituzionali (espressione di forme stantie e ipocrite di indottrinamento), per procedere fuori dal gioco e per acquisire un linguaggio inedito.

Quel che secondo la lungimiranza dell’autrice mancava allora, e aggiungo anche oggi, è la consapevolezza rigorosa dei fenomeni che condizionano l’esistenza attuale. Manca, dunque, una conoscenza delle cause e ci si affretta a trovare soluzioni per falsi teoremi e per mere fallacie logiche. Pertanto occorrerebbe, secondo l’autrice, operare una ricerca storica per una riflessione critica. In momenti come quello odierno si recuperano o si inventano miti per preservare il potere delle classi dominanti. Ed ecco “gli anatemi sessuofobici, fallocratici, misogini”. È proprio nell’ambito di quella che Pareto definisce “eterogeneità sociale”, che la donna resta un ottimo capro espiatorio. Infatti questa strategia è una componente costante del potere di una minoranza sfruttatrice, per deviare l’attenzione delle masse dai responsabili delle sue sciagure e indirizzarla su falsi scopi. Ad esempio, per trasformare i contadini della metropoli in proletariato industriale è bastato sradicare le tradizioni, la cultura autoctona, per fornire manodopera a buon mercato.

Per comprendere a pieno anche il presente occorre fare un bel passo indietro, là dove il sistema capitalistico affonda le proprie radici. In Italia la politica di massa della Chiesa si sviluppa dopo il Concilio di Trento. Il potere teocratico con l’affermarsi della scienza che indaga sulle leggi della materia e dell’energia, si trova di fronte un nemico più pericoloso delle eresie. L’eresia infatti, rimaneva sempre all’interno del sistema teocratico, accettava i principi della trascendenza e della rivelazione, e cercava tutt’al più di tirare dalla parte dei poveri un dio inventato per i ricchi. La scienza invece è antitetica ai principi stessi della teocrazia, ne corrode i fondamenti; tanto più che si sviluppa all’interno della classe dominante, dividendola in due tronconi antagonistici e rischiando di indebolire il potere. Ciò assicura una riserva di forze conservatrici negli strati sociali emergenti e tenuti a bada con la repressione per ottenere il consenso. L’azione persuasiva consente l’integrazione nella cultura del potere e si consolida recuperando antichi culti animistici che, potenziando forme più primitive di superstizione, hanno dato luogo alla Democrazia Cristiana. Privilegiare una minoranza del popolo oppresso, assicura il consenso per poter meglio opprimere la maggioranza. Si assicurano alcuni benefici per impedire qualsiasi mutamento essenziale del loro status. Tale processo si cristallizza mediante una sedimentazione interiorizzata di quei modi di agire, di pensare e di sentire che appaiono come naturali e ovvi e non come rappresentazioni sociali. Passiamo ora in rassegna il famigerato ’68. Dunque, secondo l’autrice esso è servito a sgombrare il terreno da sclerosi sovrastrutturali mantenendo ben salde quelle strutturali, le cui radici a mio avviso sono ancora oggi profonde e robuste. Il gap a cosa può essere attribuito? Ancora una volta è mancata una collocazione storica, la quale doveva fungere da bussola e da criterio di omogeneità.

Quel che però emerge dall’analisi dell’autrice è che il ’68 ha privilegiato le componenti sociologiche, psicologiche, esistenziali e culturali in senso tradizionale e umanistico. Come se i problemi dell’umanità non fossero quelli della sopravvivenza. È mancata la concretezza delle problematiche inerenti le coltivazioni di cereali, o una industrializzazione che non renda invisibile il pianeta, la creazione di energia o una regolamentazione delle acque, il rapporto industria-agricoltura, città-campagna, essere umano-ambiente, il superamento della frattura antidemocratica tra lavoro manuale e intellettuale. Il disappunto dell’autrice non risparmia neanche i due capisaldi istituzionali per eccellenza, ovvero: la politica e la famiglia. La Nuova Sinistra colpevole di aver visto nella lotta armata una forma di contestazione romantica, di aver dato origine ad una ideologia tutta borghese e frutto di una interpretazione sommaria della Rivoluzione Cinese. Quest’ultima intesa come una mitologia semplificata e agiografica con un eurocentrismo ereditato dai partiti tradizionali. La famiglia, invece, rea di un patriarcato fatiscente per mancanza di aspiranti patriarchi, ossia di uomini in grado di assumersi l’onere di mantenere una casalinga natural durante. Porre le questioni in termini statistici e di ragioneria serve soltanto a consolidare e ammodernare la società capitalistico-borghese, mentre la parità reale richiede un mutamento profondo e generale di tutti i rapporti all’interno della società. Ogni indagine necessita di un approccio storico.

Infatti, se si adoperasse una lente meno ideologica, ci si accorgerebbe che la questione sessuale nella civiltà occidentale assume ancora oggi aspetti ossessivi. Secondo la Lussu, la sessuofobia e la misoginia del Cristianesimo ( che in realtà appartiene alla Chiesa) hanno fatto di questa naturale attività umana, una fonte perenne di terribili drammi e nevrosi distruttive, che non si risolvono certo con la psicoanalisi o le tavole rotonde di qualsiasi natura e luogo, anche se infiocchettate con i migliori propositi che danno vita ad una vuota e inefficace retorica. Freud e Reich sono sessuofobi e misogini quanto i Padri della Chiesa. Ernest Bornemann è l’unico che abbia fatto un’indagine approfondita sul patriarcato, non è certo uno psicanalista ma uno storico. Se si considerano i miti della verginità o i miti della monogamia della donna, emerge che l’uomo esprime la propria sessualità sempre in ogni epoca, in modo egoistico, autoritario, accumulando le frustrazioni. Anche l’uso della sessualità è un fatto politico, risultato del Contratto Civile e Culturale della società. Le determinazioni sono ricavabili dalle strutture e dalle sovrastrutture della nostra vita. Pertanto liberarsi dalle abitudini mentali indotte dal Cristianesimo, vuol dire anche liberarsi dalle strutture economiche e produttive che il terrorismo psichico ha puntellato non meno di quello giuridico-poliziesco.

Le nevrosi sono aggravate da:

Insicurezza economica;

Instabilità sociale;

Degradazione dell’ambiente;

Sono vere intossicazioni consumistiche, ragion per cui occorre conoscere non solo gli effetti che ci hanno imposto e che dobbiamo eliminare dalla nostra coscienza ma occorre conoscere soprattutto:

Le Cause ;

Le Responsabilità;

I Condizionamenti;

La visione pessimistica della sessualità, tipica della psicoanalisi, è di chiara derivazione cristiana e fa comodo solo alla classe dominante. Presentati come fenomeni “naturali” e non storici, persuadono uomini e donne alla rassegnazione, all’adattamento e a squilibri che mutilano la propria autonomia generale e deprimono la gioia di vivere, generando sfiducia. L’Autonomia dalle interiorizzazioni, in modo non astratto, è possibile mediante una consapevole appropriazione storica. Non possiamo astenerci dal pensare alla metodologia weberiana. E cosa dire della famiglia, oggi nuovamente di moda e soluzione a tutti i mali? L’aggregato familiare non esiste più come nucleo stabile, è stato disintegrato dall’industrializzazione, dalla mercificazione consumistica, dai mass-media che bombardano con le più infinite contraddizioni e disinformazione permanente. Oscena simulazione nell’ordine delle strategie fatali di baudrillardiana memoria. Il risultato di tale strategia è:

Difficile coesione su progetti razionali;

Guazzabuglio;

Sedimentazione di antiche consuetudini mentali e psicologiche.

Alla classica divisione tra lavoratori manuali e padroni, si aggiunge una divisione tra integrati e non integrati ai livelli più vari. Nella società altamente industrializzata dalla impresa capitalistica, è sempre più vasta la schiera degli emarginati. Dal disoccupato con laurea al disoccupato manovale, passando per milioni di donne che si aggirano tra gli elettrodomestici e bambini nella solitudine di appartamenti unifamiliari. La figura del Padrone e del Patriarca si è dilatata in enormi, anonimi e misteriosi centri di potere che dominano la produzione e la distribuzione dei beni con decisioni occulte. Figura che si cela dietro sigle inafferrabili delle multinazionali, dell’alta finanza, e che dietro il paravento del “segretissimo” militare, organizzano le industrie per la guerra atomica, chimica e batteriologica. Il capitalismo per tenere in piedi i suoi fondamenti ricorre all’autoritarismo violento o paternalistico, al colonialismo, alla guerra e al fascismo. L’industria capitalistica non è pensabile senza il settore bellico, il colonialismo e la distruzione del territorio. Tuttora in atto nella matrice costante ma in una veste che non è certo quella tradizionale e alle quali si è soliti pensare. Occorre non confondere la forma con la sostanza, i fini con le cause, i mezzi con gli effetti. Lo stesso dicasi per il femminismo borghese, che è un aspetto del riformismo, usato dal capitalismo avanzato per integrare la donna nei suoi meccanismi. Mantenendo salda la distinzione e la differenza tra “femminismo” e “la questione femminile” è quanto mai vitale che il dialogo, le piattaforme e i modi debbano avere luogo in un altrove autonomo, sottratto al formalismo e al linguaggio istituzionale, se si desidera investire concretamente in una svolta che non sia apparenza, tautologia o becero sofismo.

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