Abbey Road: il canto del cigno dei Beatles

Il 26 settembre del 1969, giorno dell’uscita di Abbey Road, i Beatles già non esistono più. La separazione ufficiale avverrà di fatto pochi mesi dopo, nell’aprile del 1970, ma inconciliabili divergenze artistiche, economiche e personali ne avevano già minato irreversibilmente la coesione interna. Le tensioni accumulate durante le session per il White Album, il naufragio dell’ambiziosissimo progetto Get Back, l’eroina, le donne avevano lentamente portato il più grande gruppo del mondo sull’orlo dello scioglimento. Tuttavia i Fab Four avevano deciso di chiudere il loro percorso artistico comune in grande stile, ossia con un album che rimanesse nella storia.

“Fu un disco estremamente felice probabilmente perché tutti pensavano che sarebbe stato l’ultimo”. (George Martin)

Nonostante le assenze per motivi personali di Lennon e la scarsa convinzione di Harrison il livello di Abbey Road è altissimo e rappresenta un “unicum” nella discografia beatlesiana. Il lato A infatti è composto da canzoni nel senso classico del termine, mentre il lato B è un lungo medley di brani uniti tra loro da grande forza concettuale e maestria musicale. Non tutto il materiale è eccelso ma per qualche oscuro miracolo tutti i pezzi scelti stanno bene nell’album legandosi tra loro con assoluta armonia. Il fulminante incipit di Come Together (col celeberrimo verso “Shoot Me” che col senno di poi ha assunto toni sinistramente profetici) composta da Lennon, le meravigliose Something e Here Comes The Sun (forse i pezzi migliori del disco) che attestano la raggiunta maturità compositiva di Harrison, il pop sofisticato di McCartney che fornisce la giocosa Maxwell’s Silver Hammer e la disperata Oh Darling!, la spiritosa Octopus’s Garden di Starr e l’allucinata I Want You (She’s So Heavy) di Lennon (in cui viene introdotto il sintetizzatore Moog) compongono la prima facciata. Brani di una bellezza disarmante (tranne un paio forse) e molto eterogenei tra loro che dimostrano come i quattro avevano preso ormai strade diverse sia dal punto di vista musicale che personale.

The Beatles-1969

Ma la seconda facciata di Abbey Road è tutta un’altra storia. Le complesse armonie a tre voci di Because (ispirata da Al Chiaro Di Luna di Beethoven), il dolore della separazione in You Never Give Me Your Money, le atmosfere notturne ed il non sense di Sun King, i divertissement di Mean Mr Mustard e Polythene Pam, il rock di She Came In Through The Bathroom Window, per arrivare al gran finale composto dal trio di brani Golden Slumber, Carry That Weight e The End, nella quale i Beatles salutano per sempre i fan con il meraviglioso verso “e alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che fai”, rappresentano un momento di puro genio. Non contenti inseriscono una ghost track Her Majesty che rappresentava una novità assoluta per l’epoca. L’8 agosto del 1969 i quattro sfilano sulle strisce pedonali antistanti lo studio dando vita ad una delle copertine più famose, citate e discusse del rock. I Beatles da quel momento non esistono più (una delle interpretazioni più famose della foto la considera il funerale del gruppo), lasciando ai posteri un album praticamente perfetto, in cui tutto fila liscio come l’olio, in cui le note si incastrano a meraviglia ed il feeling tra i musicisti è notevole nonostante il periodo. Un testamento artistico/spirituale unico e irripetibile. Un’opera in cui i Fab Four trascendono schematizzazioni di ogni genere facendo semplicemente musica; una musica immortale, bellissima, capace di ricordare al mondo che un tempo quattro ragazzi di Liverpool sono riusciti a cambiare il mondo con la sola forza delle idee.

“All Things Must Pass”: Il volo di G. Harrison

Non deve essere stato facile essere un Beatle e soprattutto il “terzo” Beatle. Schiacciato dalle imponenti personalità dei colleghi John Lennon e Paul McCartney, George Harrison ha faticato non poco prima di trovare una propria dimensione artistica. Relegato per anni al semplice ruolo di chitarrista e costantemente sottovalutato dal punto di vista artistico, dal 1965 in poi, Harrison è stato protagonista di una crescita musicale continua che lo ha portato a diventare, forse, il miglior compositore dei Fab Four durante la loro tormentata fase finale. Il suo talento si manifesta in Revolver, in cui firma la caustica Taxman, matura in Sgt. Pepper, sua l’orientaleggiante Within You Without You, si rafforza nel White Album, cui fornisce le meravigliose While My Guitar Gently Weeps, Piggies, Long Long Long ed esplode in Abbey Road a cui regala i capolavori assoluti Something e  Here Comes The Sun. Una lenta maturazione, dunque, un cammino interiore che gli ha permesso di trovare uno stile ed una poetica, molto in linea col suo carattere meditabondo e misticheggiante. Ma di benzina nel serbatoio, Harrison ne aveva ancora parecchia nel 1970, senza contare le numerosissime canzoni scartate in fase di registrazione dagli ex compagni e quindi non incluse nel canone beatlesiano.

 «A volte era frustrante dover far passare milioni di “Maxwell’s Silver Hammer” prima di usarne una delle mie; a pensarci adesso, ce n’erano un paio, delle mie, che erano migliori di quelle che John e Paul scrivevano con la mano sinistra. Ma le cose andavano così, sapete, e non mi dispiace particolarmente: ho solo dovuto aspettare un po’» (George Harrison)

Una volta finita l’esperienza con i Beatles, George decide di rompere gli indugi e di pubblicare tutti quei brani che erano rimasti nell’ombra per tanto, troppo, tempo. Il risultato è un monumentale triplo album intitolato, guarda caso, All Things Must Pass, pieno di ispirazione, splendore e redenzione. Pubblicato nel novembre del 1970, quest’album, a differenza dei progetti solisti degli ex compagni, riscuote immediatamente un clamoroso successo sia di pubblico che di critica, rappresentando la definitiva affermazione dell’autore come musicista eccellente e compositore raffinato. Il materiale in esso contenuto è di altissima qualità. Si va da I’d Have You Anytime (scritta a quattro mani con Bob Dylan) a l’arcinota My Sweet Lord, dalla tiratissima Wha-Wha alla sognante Isn’t It A Pity, fino a What Is Life, It’s Not For You, Apple Scruffs, Beware Of Darkness, All Thing Must Pass, tutte tessere che vanno a comporre il caleidoscopico mosaico musicale del “chitarrista gentile”. Le liriche trasudano amore universale, suggestioni religiose e serenità interiore a differenza dei tormentati versi lennoniani o delle semplici rime di stampo mccartneyano.

 All things must pass è il disco del definitivo affrancamento di Harrison dall’ombra dei Beatles e del superamento del trauma dovuto alla tormentata separazione. Il tutto non senza polemiche, ovviamente. Nella copertina Goerge è seduto in un prato in mezzo a quattro nani da giardino. Le interpretazioni negli anni sono state molteplici, ma aldilà dei dibattiti dovuti ai presunti messaggi cifrati presenti nella cover (McCartney ha fatto la stessa cosa in Ram e Lennon in Imagine), l’opera in questione è di innegabile bellezza. La spiritualità tipica dell’autore si riflette in suoni pacati ed in cantato soffice e rilassante; c’è anche spazio per del rock sanguigno senza sconfinare mai nel rumore e nella rabbia. L’ispirazione è grande (anche se tende un po’ a scemare nella jam session che occupa tutto il terzo LP) anche nei brani risalenti al 1966 o al 1969, a riprova che Harrison era già un ottimo compositore ai tempi della beatlemania. Ma si sa, nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione la diarchia più prolifica del rock in grado di zittire qualsiasi altra voce si avvicinasse nei paraggi. Il buon George ha dovuto fare tutto da solo armandosi di pazienza, tenacia e quintali di autostima fino a trovare la sua personale strada per l’Olimpo. Non deve essere stato ne semplice ne indolore ma alla fine il risultato ripaga in pieno la fatica fatta. Chissà quali altre meraviglie avrebbero fatto i Beatles con George Harrison a pieno regime!

Revolver dei Beatles: Il sacrario del pop

“Revolver”- Parlophone-1966

Da bambino chiesi a mio padre (beatlesiano ortodosso e presente all’epoca dei fatti): “Papà qual è il disco più bello dei Beatles?”

Lui, senza pensarci un momento, rispose: “Revolver”

Io, li per li, non dissi niente.

Ma come Revolver? E Sgt. Pepper allora? Il White Album? Abbey Road?

A più di vent’anni da quella domanda e dopo innumerevoli ascolti dell’intera produzione beatlesiana, posso dire che aveva ragione. Il disco più bello dei Beatles è Revolver. Meno unitario del precedente Rubber Soul ma più caleidoscopico e sperimentale, quest’album rappresenta il momento esatto in cui i Fab Four prendono la volgare canzonetta e la innalzano ad opera d’arte.

Nel 1965 al gruppo accadono due cose fondamentali: cessano di esibirsi dal vivo ed esplorano tutte potenzialità che offre lo studio di registrazione. Ormai lontani dall’isteria dei fans e dallo stress delle tournèe, i Beatles si chiudono negli studi EMI di Londra e danno sfogo a tutta la loro creatività: il classicismo di Paul McCartney, il misticismo di George Harrison, la psichedelia di John Lennon, l’ironia di Ringo Starr si amalgamano in un coacervo incredibile di stili, tendenze e musicalità diverse. Il risultato è sorprendente.

«Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile.» (Geoff Emerick-tecnico del suono)

 

The Bealtles-1965

L’arguta critica sociale di Taxman, la dolente bellezza di Eleanor Rigby, gli umori acidi di She Said She Said, l’allegria di Yellow Submarine, la sperimentazione pura di Tomorrow Never Knows, elevano Revolver al rango di capolavoro assoluto e manifesto di un’intera generazione. Perfino la copertina (straordinario collage creato dall’amico di vecchia data Klaus Voorman) cessa di essere una mera fotografia per diventare parte integrante del disco. Arte visiva e musicale, oriente ed occidente, pop e musica colta, amore e filosofia, i Beatles alzano il tiro, spingendo “oltre” la loro ambizione e la loro consapevolezza. Ormai fanno terribilmente sul serio. Si sbarazzano dello spettro di Bob Dylan (che aveva caratterizzato gli album precedenti) e dell’etichetta di “phenomenal pop combo” per raggiungere lo status di guru della musica moderna.

Aiutati anche da un crescente consumo di LSD e da possibilità economiche pressoché illimitate, i Favolosi Quattro recepiscono ogni sentore di mutamento, ogni minima vibrazione socio/musicale, ogni tensione rivoluzionaria e li trasformano in splendide melodie realizzando idee assolutamente inconcepibili fino a quel momento. Riescono nell’impresa di diventare il gruppo più innovativo del mondo e, nello stesso tempo, il più commerciale. Revolver, infatti, raggiunge, nel suo anno di pubblicazione, la vetta delle classifiche sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti ed è, successivamente, inserito ai primi posti in quasi tutte le liste dei migliori album mai pubblicati.

Anche dal punto di vista lirico e poetico quest’album rappresenta un punto di svolta. Sono lontane le semplici parole d’amore di Michelle, She Loves You, Love Me Do e You Won’t See Me. Qui trovano spazio la solitudine e la tristezza, la satira politica e la filastrocca, le droghe ed il “Libro Tibetano Dei Morti”. L’impatto sul mondo musicale è enorme. Un terremoto vero e proprio. Le tecniche di registrazione, i testi criptici ed ermetici, i nastri suonati al contrario, il sitar e la tambla, gli archi e gli ottoni, i rumori di fondo, tutto, ma proprio tutto, viene studiato e ripreso da gruppi contemporanei e successivi (inclusi gli stessi Beatles). Pink Floyd, Who, Byrds ma anche U2 e Chemical Brothers hanno fatto un punto d’onore riprendere e cercare di superare Revolver. Si tratta di un disco rivoluzionario sotto ogni punto di vista. Lontano eppure attualissimo tanto da continuare a lasciare tracce visibilissime a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Dopo Revolver, nulla sarà più come prima. La via era stata indicata ed il solco tracciato. Il mondo era ormai pronto per Sgt. Pepper.

 

 

Led Zeppelin II: Il martello degli dei

Il secondo album è sempre il più difficile. Non sempre e non per tutti. In questo caso il dirigibile più famoso del rock si stacca da terra e prende il volo. Dopo un ottimo debutto, nel 1968, con l’album omonimo, i Led Zeppelin, nati quasi per caso dalle ceneri degli Yardbirds, smettono di essere una buona band per vestire i panni di demiurghi dell’hard rock. E come fanno? Semplice, elevando il blues all’ ennesima potenza. Distorcono le chitarre, accelerano i ritmi, sporcano i suoni, ispessiscono il basso e ingigantiscono le percussioni. Il risultato è una miscela esplosiva su cui si innesta una voce stridula e acuta che non esita a dissertare su temi considerati tabù, uno su tutti: il sesso. Led Zeppelin II è carne e sangue, amore e sesso, vita e morte fusi in un tutt’ uno solido come una roccia.

Dall ’indiavolato balbettio di Jimmy Page in Whole Lotta Love, al rombo tonante di John Bonham in Moby Dick, passando per l’incandescente riff di Heartbreaker”, la sorprendente tenerezza di Thank You”, o gli incredibili fraseggi di John Paul Jones in Lemon Song”, il gruppo non fa sconti. Registrato in tour, nei ritagli di tempo tra una data e l’altra, è un album che fa dell’immediatezza il suo punto di forza. Non è il cervello, infatti, ad essere colpito, ma lo stomaco e l’anima di chiunque ne entri in possesso. C’è poco da capire o da decifrare. Bisogna ascoltarlo più col cuore che con la testa. E’ necessario lasciarsi trasportare dal ritmo travolgente e dall’ululato selvaggio di Robert Plant, per entrare definitivamente nel fantastico mondo degli Zep.

I Led Zeppelin nel 1969

Considerato immediatamente “un classico”, Led Zeppelin II mise immediatamente d’accordo pubblico e critica arrivando a scalzare dai primi posti in classifica nientemeno che Abbey Road”, l’ultimo grande capolavoro dei Beatles. Agli inizi del 1970, ne furono vendute tre milioni di copie solo negli Stati Uniti. L’immenso successo di un album così decisamente in controtendenza con le mode musicali del momento (siamo nel 1969, l’anno di Woodstock, della psichedelia e del flower power), dimostra, senza ombra di dubbio, il suo valore intrinseco, capace di trascendere rigide classificazioni stilistiche e gusti musicali. Le sue eco, infatti, sono ovunque.

La Gibson Les Paul di Page o la batteria mastodontica di Bonham sono, ormai, delle vere e proprie icone. Il look e lo stile di Plant hanno contribuito a concettualizzare e definire il termine rockstar. Da questo momento in poi, decine di gruppi hanno cercato, per tutta la vita, di somigliare, anche solo lontanamente ai Led Zeppelin. AC/DC, Van Halen, Bon Jovi, Guns ‘N’ Roses, Aerosmith e Iron Maiden, solo per citarne alcuni, hanno a più riprese ammesso l’enorme importanza che quest’album ha avuto per le loro carriere. Page & Co. in futuro non scriveranno più pezzi così eccitanti e travolgenti. Certo, scriveranno altri capolavori ma non avranno la stessa furia e lo stesso suono delle tracce contenute nel loro secondo disco. E’ considerato il lavoro più duro e “virile” della band, ma nel contempo il più seminale e influente.

Qui, d’altronde, c’è già tutto: le radici blues, i sentori psichedelici, le divagazioni tolkeniane, i richiami folk, le love ballad,  perfettamente amalgamati ed eseguiti con tecnica stupefacente ed incredibile potenza. In altre parole la rabbia, gli istinti animaleschi, i punti deboli e l’energia dei Led Zeppelin catturati da un microfono e distillati in nove magnifici brani. E’ il manifesto programmatico di gran parte del rock che verrà negli anni successivi; “le  tavole della legge” per una intera corrente musicale che da quel momento prenderà il nome di hard rock per evolversi, poi, in heavy metal (e suoi derivati). Negli anni, schiere di ascoltatori e di musicisti si sono confrontati con gli standard zeppeliniani qui contenuti cercando di riprodurne i riff funambolici ed i vocalizzi inarrivabili, a dimostrazione che, a trentaquattro anni dallo scioglimento, gli Zep continuano a solcare cieli talmente alti che solo il loro dirigibile è in grado di raggiungere.

 

 

 

 

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