‘Le braci’, il senso della vita secondo Sándor Márai

Le braci, romanzo dell’ungherese Sándor Márai edito per la prima volta nel 1942, racconta la storia dell’amicizia tra due uomini, Henrik detto “il Generale” e Konrad, e di come essa abbia avuto fine in seguito al tradimento del secondo. Il punto di partenza è l’incontro tra i due, che, a distanza di quarantun anni, ha lo scopo di far finalmente luce sugli avvenimenti che li hanno separati.

La prima parte, che coincide con l’attesa di Konrad da parte di Henrik, è occupata dal racconto degli anni della loro amicizia; la seconda, invece, quella dell’incontro, da un lungo dialogo (a dire il vero, più un monologo del Generale) sulle circostanze in cui si è interrotta.

Le braci è uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre. Un romanzo che è teatro, un dialogo lungo per i canoni del realismo, un alternarsi di due voci tese mentre i sigari dei colonnelli ungheresi scorrono davanti alle immagini di tradimenti impossibili, di tradimenti scampati.

Prosa delicata, linguaggio ricco ed elegante senza mai sembrare nel ridondante. Un lungo monologo del generale Henrik che rivanga le sue memorie e torna indietro di quarant’anni per avere una risposta definitiva a quello che lo tormenta da allora. In mezzo sono infilate lì tante perle sul significato di amicizia, amore, passione, destino che rendono questo libro di sole 180 pagine ricco di riflessioni profonde:

“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che ogni giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, e non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione?”

Marai fa rivivere in ogni attimo gli eventi descritti, creando atmosfere e descrivendo perfettamente i sentimenti di ognuno dei tre protagonisti (Henrik, Konrad e La moglie di Henrik). Ognuno ama e continuerà ad amare gli altri fino al giorno della sua morte, con sfumature e trasporto differenti.

L’autore nomina ripetutamente tutti i personaggi presenti in “Le braci”: Konrad, Kristina, Nini; tutti, a parte il suo protagonista Henrik, che nomina giusto un paio di volte, ma chiamandolo “generale” in tutte le altre occasioni.

Come se Marài volesse mettere in risalto la differenza tra quest’ultimo e gli altri: uomo a cui è stata affibbiata un’etichetta, una posizione sociale fin dalla nascita; status che pare anche gratificarlo abbastanza. Tuttavia, pare che questo lo ponga a un livello inferiore rispetto agli altri, indegno anche di essere chiamato per nome; incarnazione di una figura incolore che quasi non possa essere considerato un essere umano, in cui non arde il fuoco dell’anima come arde nella figura dell’artista, di quel suo amico che, tuttavia, coi suoi modi di fare mostra alcuni dei lati peggiori dell’essere umano.

Chi è più umano, dunque?

A questa e ad altre domande attende la risposta il lettore, così come i protagonisti  attendono la risposta a quella che reputano la domanda essenziale della propria esistenza. Ma una volta che arriva il momento decisivo, nessuna di queste pare essere esaustiva; perché l’esistenza appare davvero come un caso irrisolto.

“Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.”

Le braci si configura come un thriller filosofico che però ad un certo punto vira in un’altra direzione: dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, rievocando i fatti principali, Heinrich si accinge finalmente, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, si congeda dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, senza svelare il segreto.

Il lettore ne resta sconcertato: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, di chi ha visto un’Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale, tutto  svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca.

L’enigmatico finale de “Le braci” è di natura scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la sola risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo.

L’autore

Sándor Károly Henrik Grosschmid, questo è il vero nome di Sàndor Màrai. Nato nell’Aprile del 1900 nella città di Kassa (odierna Kosiche) nell’Ungheria settentrionale, il suo è un tipico caso di scrittore del post decadentismo che vive l’afflizione del distacco dalla sua terra unitamente alla delusione politica dei  totalitarismi del XX secolo.

A soli vent’anni, in piena rivoluzione (erano gli anni delle rivolte organizzate da Béla Kun e della fondazione della Repubblica Sovietica Ungherese), Màrai collaborava come giornalista ed opinionista per una  rivista studentesca ma già qualche anno prima, 1917, aveva dato prova di talento con la raccolta di poesie “Il libro dei ricordi”. Su decisione dei genitori fu mandato ad approfondire i suoi studi di giornalismo in Germania spostandosi tra Lipsia, Monaco e Berlino e diventando una delle firme delle pagine culturali del Frankfurter Zeitung su cui pubblicò tra una recensione teatrale o un articolo di cronaca, approfondimenti critici di opere di Kafka.

 

Le braci – Sandor Marai – Recensioni di QLibri

L’editore-scrittore Roberto Calasso: “In un mondo senza il sacro siamo diventati solo turisti”

Milano. “Dal maggio del ’45 a oggi si è entrati in una zona che non ha nome, per questo è l’innominabile attuale”. Roberto Calasso siede nel suo ufficio all’Adelphi, nel centro di Milano. Sulla scrivania l’ennesimo caffè, davanti gli scaffali con quel che resta della biblioteca di Bobi Bazlen, il codice genetico da cui è fiorita la casa editrice da sempre più inattuale e più attuale d’Italia. Attuale è parola che ricorre spesso. A partire dal titolo del nuovo libro L’innominabile attuale appunto, seguito ideale del profetico La rovina di Kasch del 1983. In questo tempo senza nome vive l’ultima evoluzione dell’Homo sapiens, quello che Calasso definisce Homo saecularis: noi. “Homo saecularis – dice – è un risultato molto sofisticato della storia. Per arrivare a lui bisogna essersi scrollati di dosso una quantità di pesi. E questa mancanza di gravami di vario genere – religioso, politico, tradizionale – non ha prodotto soddisfazione o felicità, ma una specie di panico. La vittoria della secolarità, che ormai pervade tutto il mondo, è paradossale. Homo saecularis si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare. Ha vinto ma gli manca qualcosa di essenziale, domina ma si rivolta contro se stesso. Tutti i nomi che usa sono inadeguati e richiederebbero quella “rettifica” che secondo Confucio era il primo compito del pensiero. Di qui il titolo del libro, che si è imposto dopo 34 anni di latenza”.

Il libro di Roberto Calasso è diviso in due parti. La seconda è una polifonia di voci (Virginia Woolf, Simone Weil, Walter Benjamin, Céline), che descrivono momenti di ciò che avveniva dal ’33 al ’45, dalla presa del potere di Hitler sino alla fine della Seconda guerra mondiale. La prima parte invece è tutta sul presente. “Le due parti – spiega Calasso – sono l’una il contrappeso dell’altra. La prima vagherebbe un po’ nell’aria, parlando di questo mondo senza appigli fermi, se non si presupponesse l’altra, che è un ultimo, tremendo scontro, come fra rocce che cozzano tentando di distruggersi e autodistruggendosi. Chi non conosce quel presupposto non vede il basamento di quanto sta succedendo oggi”.

 

Una categoria che utilizza è quella del turista. Perché?
Il mondo di Homo saecularis non ha una categoria che lo rappresenti. Non si può dire che tali siano l’impiegato, l’operaio, il manager, il politico. Turista, invece, è l’unica categoria che copre tutto. Il turista di cui parlo non è solo quello che viaggia, ma il modello antropologico della realtà virtuale. I tecnici della realtà virtuale parlano di una “realtà aumentata”, che però si fonda su una realtà diminuita, a cui è stato sottratto un carattere imprescindibile: l’irreversibilità. Su questa via si incontrano sia il bigotto dell’iperconnessione sia l’energumeno che vuole mettere a posto il mondo.

L’Homo saecularis si rivolta anche contro la democrazia.
La democrazia formale è l’unico modello che rende vivibile il mondo, anche se, per pure ragioni demografiche, è pressoché impraticabile. Comunque, se non ci fosse, per esempio in India vi sarebbe il massacro continuo. È l’ultimo sbarramento per rendere la vita tollerabile, al di fuori ci sono solo tortura e regimi di polizia. Ma ogni democrazia deve difendersi da enormi forze contrarie.

Uno dei capisaldi democratici in discussione è l’idea che la rappresentanza sia superata dalla partecipazione diretta.
La mediazione è decisiva. Non rispettarla è una forma di pensiero ignaro, perché la mediazione è ciò che ci costituisce, anche se viene continuamente svillaneggiata come fosse ciò che falsifica tutto. Ma la nostra percezione è già una mediazione, in senso fisiologico. Per vedere qualcosa operiamo un filtraggio. Se non lo si ha presente, si finisce per pensare che la mediazione sia l’agente che ti imbroglia, il giornalista ingannatore, il politico o, come è accaduto, il maligno ebreo. È triste. Questa avversione indica che è diventato più grezzo il tessuto del pensare. Nel disintermediarsi del mondo, chi non ha il dono della refrattarietà si lascia facilmente ingannare. E prende la sua voce per vox populi. Homo saecularis si è sbarazzato delle religioni, ma è tremendamente credulo.

Una delle cause è la rivoluzione digitale.
È un immenso rivolgimento. Di cui stiamo vedendo solo l’inizio. Nella Silicon Valley, che è il suo epicentro, si assiste a un fenomeno che non ha precedenti. Ci sono alcuni imprenditori, che possono anche essere considerati come intellettuali audaci o imbonitori farneticanti, a seconda delle prospettive, e questi imprenditori avviano investimenti che modificano il mondo giorno per giorno. Sotto il nome di intelligenza artificiale si raccoglie oggi non più, come negli anni Settanta, una sorta di dottrina esoterica, ma una potenza economica dirompente. Laggiù non si parla e non si scrive d’altro che del momento, in parte desiderato in parte temuto, e per molti piuttosto vicino, in cui le macchine saranno più intelligenti di noi. A rimanere esclusa è la parola più importante: coscienza. Su che cosa sia e come funzioni nessun neuroscienziato è riuscito a dire qualcosa che vada oltre un goffo balbettio. Sarebbe d’aiuto per tutti leggere le Upanisha.

Che cosa pensa dell’attuale stato dell’Europa?
Spero che l’Europa continui a esserci come misura di autodifesa minima, ma ne vedo l’impotenza totale. La politica europea è solo reattiva, non attiva. Un tentativo di reagire a fatti soverchianti. Alti funzionari tentano di tenerli sotto controllo, ma quando si comincia a usare l’espressione “tenere sotto controllo” vuol dire che tutto è già fuori controllo.

Le categorie che lei utilizza per nominare i nostri tempi sono decisamente inattuali. Per esempio l’idea di sacrificio. Come può un concetto così arcaico essere utile per descrivere l’attualità?
Il sacrificio è la cosa più difficile da pensare che abbia mai incontrato. Non è certo una mia invenzione, lo si ritrova ovunque nella storia. Per un lunghissimo periodo le civiltà più distanti sono accomunate dal fatto che in forme diverse tutte praticano il sacrificio, dalla Cina all’India alla Grecia alla Palestina. Poi c’è una svolta: con Gesù il sacrificio vuole finire per sempre e diventa, nella messa, memoria del sacrificio. Ma al tempo stesso la morte di Gesù è un ritorno alle origini del sacrificio, dove è il dio a sacrificarsi. Infine c’è l’oggi, in cui la pratica rituale è espunta, non ha diritto di cittadinanza. Ma l’assassinio-suicidio dei terroristi islamici, minaccia che continua a paralizzare il mondo, è una evidente forma sacrificale, dove la vittima è l’attentatore e tutti coloro che da lui vengono uccisi sono il frutto del sacrificio. Il sacrificio non scompare perché la società secolare ha deciso di non usarlo più come atto rituale. Torna in altre forme. Il terrorismo – e soprattutto la guerra, a partire dalla Prima guerra mondiale. Se legge Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, si parla più di sacrifici che di battaglie. Poi nella Seconda guerra mondiale il sacrificio diventa opera di disinfestazione, con i campi di sterminio. Che, per un orripilante equivoco, si continua a chiamare con la stessa parola che designa il sacrificio di ringraziamento celebrato da Noè dopo il diluvio: olocausto.

Dov’è oggi il sacrificio?
Non è più una categoria religiosa. Se il religioso implica un contatto con l’invisibile, nel caso del terrorismo islamico questo non sussiste. Il frutto del sacrificio non è più nell’invisibile, ma nella moltiplicazione degli uccisi nel mondo visibile. Ma il sacrificio continua a esserci, la società non riesce a vivere senza.

Ma la ragione ultima del terrorismo islamico è generalmente considerata religiosa.
Definizione che mi sembra impropria. All’origine, c’è piuttosto il bisogno di una vendetta globale, un rigetto del mondo occidentale. Un certo numero di persone, in una fascia di paesi che va dal Marocco all’Indonesia e comprende più di un miliardo e mezzo di abitanti, si sente sopraffatta, esautorata. Nel modo di vita, di essere. Così nel libro parlo anche di pornografia, non meno importante della conquista economica. Il fatto che da un momento all’altro, in paesi dai rapporti molto tortuosi con l’eros, la visione di un numero sterminato di corpi femminili nudi che compiono atti sessuali diventasse accessibile gratuitamente in rete nel giro di pochi secondi è stato uno shock enorme, che irrideva il desiderio nel momento in cui lo suscitava.

Lei ha scritto che quando la cultura viene accostata all’utile, la vera cultura muore.
La parola “utile” è il disastro su cui si fonda tutta l’economia e risale a Bentham, suo progenitore, spesso ignorato. Il calcolo costi- benefici in un certo ordine di cose è totalmente sviante. Nell’ordine del piacere, come di tutte le cose fondamentali della vita, non si può applicare.

Ma nel suo libro lei parla dei refrattari a questo stato di cose, quelli che non si ritrovano nella figura dell’Homo saecularis. Sono sperduti, soli, neanche l’università, lei scrive, è un luogo dove trovare ascolto.
Mi sembra che l’università come istituzione stia perdendo ogni linfa vitale, non solo in Italia, ma ovunque. So che vi operano tuttora persone di grande qualità, ma soffrendo.

Cito da una sua intervista: “Negli anni Cinquanta in Italia vi erano tre aggregazioni: quella marxista, quella laico-liberale e quella cattolica. I marxisti, se erano intelligenti, leggevano i libri Einaudi, o comunque “Il contemporaneo”. I laici-liberali leggevano “Il Mondo” e i cattolici, tendenzialmente, leggevano assai poco. I democristiani erano appagati dalla pura gestione del potere e avevano capito che la cosa più accorta era quella di lasciare la cultura alla sinistra”.
Penso ancora che la descrizione sia esatta. Ma riconosco che in quegli anni erano vive e attive persone ben più significative rispetto a oggi. Tuttavia provavo una certa insofferenza per quel mondo tripartito. A cui Adelphi si è opposta fin dall’inizio, tenendosene fuori.

I libri Adelphi hanno accompagnato in modo trasversale gli italiani, compresa la classe dirigente del paese. Secondo lei quanto hanno inciso culturalmente?
Faccio fatica a riconoscere una classe dirigente nell’Italia di oggi e certamente non la collego con ciò che pubblichiamo. Mi interessa solo l’efficacia sui singoli. Le persone che leggono i nostri libri sono le più varie. Talvolta si incontrano e si riconoscono tra loro. Ma non ho mai contato su un effetto sociale o politico. L’editore come pedagogo è una concezione per me del tutto estranea.

Non si sente solo?
Non tanto, perché considero un prodigio ricorrente che i libri ancora si vendano. Sono tentato di pensare che un certo numero di persone congeniali a quello che pubblichiamo ci sia ancora. E non sono poche – anche se non così percepibili. Ignoti lettori nell’innominabile attuale.

 

Fonte: http://www.repubblica.it/cultura/2017/09/30/news/roberto_calasso_in_un_mondo_senza_il_sacro_siamo_diventati_solo_turisti_-176947727/

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