“Exile On Main Street”: La grandeur degli Stones

Ruvido, lercio, sudato, grezzo, sfinito, eclettico; queste sono le sensazioni generate dall’ascolto di Exile On Main Street”, dodicesimo album dei Rolling Stones. Un’opera colossale, un magnifico doppio album i cui pezzi trasudano blues, country, rock’n’roll e boogie. Jagger e Richards, al massimo della forma e dell’ispirazione (alimentata anche da montagne di droga e fiumi di alcol), scrivono luride canzoni piene di sesso, giocatori d’azzardo, angeli neri, tossicodipendenza, demoni e spiritualità. Il tutto è accompagnato da chitarre affilate come rasoi, una solida base ritmica ed una voce che sembra uscita più da un profondo buco nero che dalle corde vocali di una celebrata rockstar. D’altronde di rabbia e frustrazione, gli Stones, ne avevano in abbondanza in quel lontano 1972. Costretti ad un “esilio forzato” in Francia (da qui il titolo del disco) per sfuggire all’opprimente regime fiscale britannico (anche i Beatles criticarono le altissime tasse inglesi scrivendo l’arcinota Taxman), alle grinfie di Scotland Yard ed alle crescenti critiche dei media, Jagger e soci decidono di incidere il nuovo album nelle cantine della villa di Nellcote, a Villefranche Sur Mer, dove Keith Richards si era provvisoriamente stabilito. L’ambiente dispersivo e poco professionale, le continue assenze dei vari membri, i quintali di eroina che circolavano in casa, la presenza di personaggi, a dir poco, inquietanti come l’ex Byrds Gram Parsons, lo scrittore William S. Burroughs e lo sceneggiatore Terry Southern, hanno reso le sedute d’incisione particolarmente travagliate. Il risultato di tanto caos è, tuttavia, sorprendente per bellezza e qualità.

Exile On Main Street-Rolling Stones Records-1972

“Fu il primo disco grunge” (Keith Richards-2004)

La scintillante Rocks Off apre il viaggio che, passando attraverso il rockabilly di Rip This Joint, il blues di Tumbling Dice, il country di Sweet Virginia e Torn & Fraid, il sabor latino di Sweet Black Angel, la spiritualità di Shine A Light e cover di gran classe (Shake Your Hips di Silm Harpo e Stop Breaking Down di Robert Johnson) conduce verso la vera anima dei Rolling Stones. Privo di singoli da top ten, al contrario dell’illustre predecessore Sticky Fingers, Exile On Main Street non è stato particolarmente apprezzato al momento della pubblicazione. Nonostante le ottime vendite ed un tour mondiale con Stevie Wonder, il disco è stato praticamente stroncato dalla critica per essere rivalutato ed incensato solo qualche anno dopo. Ma si sa, il mondo del rock è ben strano. Sarà stata la post produzione un po’ approssimativa, nonostante le sessioni di sovraincisione effettuate ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles, saranno stati i metodi di lavoro differenti tra Jagger e Richards, oppure le lunghe ed estenuanti jam session notturne a far risultare quest’album indigesto alla critica che lo ha definito di difficile assimilazione. Perfino Mick Jagger lo non ha mai apprezzato completamente arrivando ad etichettarlo come sopravvalutato e dal mixaggio pessimo.

The Rolling Stones-Nellcote-1972

 Tuttavia sono proprio queste caratteristiche a renderlo assolutamente affascinante, incredibilmente variegato e per nulla ambizioso; unico nell’intera discografia delle Pietre Rotolanti. Un sound sporco e graffiante difficile da ricreare. Una libertà espressiva e compositiva difficile da raggiungere. Una meravigliosa avventura “fuori porta” impossibile da rivivere. Band come Aerosmith, che in numerosi brani hanno ripreso vere e proprie frasi come “partners in crime” o “deuces are wild”, Phish e Pearl Jam hanno amato quest’opera e la hanno annoverata tra le loro fonti d’ispirazione. Exile On Main Street chiude anche idealmente il periodo d’oro degli Stones. Un ciclo formidabile e, nello stesso tempo, terribile apertosi nel 1968 con Beggars Banquet che, passando per trionfi e tragedie come la morte di Brian Jones, il concerto gratuito ad Hyde Park, Let It Bleed, la follia di Altamont, Sticky Fingers, li ha portati a diventare una delle band più importanti del pianeta, tanto da vedere scolpito il loro nome a caratteri cubitali nella storia del rock.

Led Zeppelin II: Il martello degli dei

Il secondo album è sempre il più difficile. Non sempre e non per tutti. In questo caso il dirigibile più famoso del rock si stacca da terra e prende il volo. Dopo un ottimo debutto, nel 1968, con l’album omonimo, i Led Zeppelin, nati quasi per caso dalle ceneri degli Yardbirds, smettono di essere una buona band per vestire i panni di demiurghi dell’hard rock. E come fanno? Semplice, elevando il blues all’ ennesima potenza. Distorcono le chitarre, accelerano i ritmi, sporcano i suoni, ispessiscono il basso e ingigantiscono le percussioni. Il risultato è una miscela esplosiva su cui si innesta una voce stridula e acuta che non esita a dissertare su temi considerati tabù, uno su tutti: il sesso. Led Zeppelin II è carne e sangue, amore e sesso, vita e morte fusi in un tutt’ uno solido come una roccia.

Dall ’indiavolato balbettio di Jimmy Page in Whole Lotta Love, al rombo tonante di John Bonham in Moby Dick, passando per l’incandescente riff di Heartbreaker”, la sorprendente tenerezza di Thank You”, o gli incredibili fraseggi di John Paul Jones in Lemon Song”, il gruppo non fa sconti. Registrato in tour, nei ritagli di tempo tra una data e l’altra, è un album che fa dell’immediatezza il suo punto di forza. Non è il cervello, infatti, ad essere colpito, ma lo stomaco e l’anima di chiunque ne entri in possesso. C’è poco da capire o da decifrare. Bisogna ascoltarlo più col cuore che con la testa. E’ necessario lasciarsi trasportare dal ritmo travolgente e dall’ululato selvaggio di Robert Plant, per entrare definitivamente nel fantastico mondo degli Zep.

I Led Zeppelin nel 1969

Considerato immediatamente “un classico”, Led Zeppelin II mise immediatamente d’accordo pubblico e critica arrivando a scalzare dai primi posti in classifica nientemeno che Abbey Road”, l’ultimo grande capolavoro dei Beatles. Agli inizi del 1970, ne furono vendute tre milioni di copie solo negli Stati Uniti. L’immenso successo di un album così decisamente in controtendenza con le mode musicali del momento (siamo nel 1969, l’anno di Woodstock, della psichedelia e del flower power), dimostra, senza ombra di dubbio, il suo valore intrinseco, capace di trascendere rigide classificazioni stilistiche e gusti musicali. Le sue eco, infatti, sono ovunque.

La Gibson Les Paul di Page o la batteria mastodontica di Bonham sono, ormai, delle vere e proprie icone. Il look e lo stile di Plant hanno contribuito a concettualizzare e definire il termine rockstar. Da questo momento in poi, decine di gruppi hanno cercato, per tutta la vita, di somigliare, anche solo lontanamente ai Led Zeppelin. AC/DC, Van Halen, Bon Jovi, Guns ‘N’ Roses, Aerosmith e Iron Maiden, solo per citarne alcuni, hanno a più riprese ammesso l’enorme importanza che quest’album ha avuto per le loro carriere. Page & Co. in futuro non scriveranno più pezzi così eccitanti e travolgenti. Certo, scriveranno altri capolavori ma non avranno la stessa furia e lo stesso suono delle tracce contenute nel loro secondo disco. E’ considerato il lavoro più duro e “virile” della band, ma nel contempo il più seminale e influente.

Qui, d’altronde, c’è già tutto: le radici blues, i sentori psichedelici, le divagazioni tolkeniane, i richiami folk, le love ballad,  perfettamente amalgamati ed eseguiti con tecnica stupefacente ed incredibile potenza. In altre parole la rabbia, gli istinti animaleschi, i punti deboli e l’energia dei Led Zeppelin catturati da un microfono e distillati in nove magnifici brani. E’ il manifesto programmatico di gran parte del rock che verrà negli anni successivi; “le  tavole della legge” per una intera corrente musicale che da quel momento prenderà il nome di hard rock per evolversi, poi, in heavy metal (e suoi derivati). Negli anni, schiere di ascoltatori e di musicisti si sono confrontati con gli standard zeppeliniani qui contenuti cercando di riprodurne i riff funambolici ed i vocalizzi inarrivabili, a dimostrazione che, a trentaquattro anni dallo scioglimento, gli Zep continuano a solcare cieli talmente alti che solo il loro dirigibile è in grado di raggiungere.

 

 

 

 

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