‘La peste’di Albert Camus: la tragicità dell’esistenza e un esodo che sa di salvezza

Albert Camus scrive a gruppi di due: saggio filosofico/romanzo, in cui il romanzo non è altro che l’esplicitazione letteraria di ciò che si è enunciato nel saggio in termini filosofici (Il mito di SisifoLo Straniero; L’uomo in Rivolta – La peste). È nella Peste, romanzo del 1947 che la rivolta dell’uomo contro se stesso, trova il suo culmine. Gli eventi si svolgono in una città simile ad Algeri, Orano, sonnolenta cittadina, ornata anch’essa da meravigliose e calde coste, ma improvvisamente sconvolta dall’invasione di ratti che causano l’epidemia che rende Orano una cittadina maledetta, stile Antico Testamento. L’avvento della peste decimerà pian piano la popolazione, che in un primo momento rifiuterà di considerare l’epidemia una vera pestilenza, e che poi comincerà ad impazzire e a perdersi nelle frivolezze della vita quotidiana.

La peste non rappresenterà solo un male biologico, ma una decadenza d’animo e metafora del Male, della seconda guerra mondiale e del Nazismo. C’è chi lucra sulla mancanza di viveri, chi scrive un libro senza riuscire ad andare oltre la prima frase, chi è convinto che la peste sia una punizione divina, chi cade nel pozzo dell’alcol e del cibo, e chi cerca di scappare in Francia. Personaggi che fanno da alter-ego alla massa, agli incoscienti, alla società. Un popolo, quello di Orano, che finge che la peste non esista. In questa situazione orwelliana, predomina il nuovo eroe assurdo: Rieux, dottore che inventerà l’antidoto per salvare i cittadini sopravvissuti alla peste. Rieux è il primo degli abitanti di Orano a intendere che si tratta di peste, epidemica. Invece di scappare immediatamente da Orano, decide di restare con la propria famiglia, decisione che costerà la vita della moglie. Rieux è l’uomo assurdo, che vede nella pestilenza-esistenza un male universale, sociale, da affrontare, da solo per tutti. La peste diviene allora una condizione di fraternità, il pretesto di solidarietà verso il prossimo. La peste è dunque la tragicità dell’esistenza: il popolo di Orano, il popolo inconsapevole del mondo. Rieux è la proiezione del filosofo portatore di un messaggio, di un esodo, che sa di salvezza.

Dalla Peste, ne viene fuori un Camus pessimista ma non totale, Il male è nella vita ma Camus vuole compiere il suo dovere e guarire se possibile il male altrui, oltre a rifiutarlo in se per non trasmetterlo ad altri in uno sforzo estremo della volontà. L’uomo è chiamato ad essere eroe, data l’emergenza del morbo (male) che infetta ogni vita.

“Il microbo è cosa naturale, Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile.”

Camus ci presenta una serie di personaggi molto belli: Rambert, l’innamorato separato dall’amata è l’uomo felice, che crede nella felicità, l’illuso o forse il fortunato. Rambert in un primo momento dice di volersene andare, la peste non lo riguarda e vuole tornare dalla sua donna. Ma poi ci ripensa e affronta la peste con gli altri, con dignità. Alla fine dell’epidemia c’è la sua donna ad aspettarlo e può ancora illudersi di poter essere felice, che il peggio sia passato. Che dire del meraviglioso rapporto d’amicizia tra Rieux, alter ego di Camus, appunto, e Tarrou, regalandoci dei dialoghi molto incisivi:“Il dottore domandò se Tarrou avesse un’idea della strada da prendere per arrivare alla pace. «Sì, la simpatia»”); e qui Camus rivela l’identità del misterioso narratore (“La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il … confessi di essere l’autore”); sorprendendoci (“Un pazzo spara sulla folla”) e, per contagio (“Io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia”), ricordandoci di essere l’autore de Lo straniero (“Ho creduto che la società in cui vivevo fosse fondata sulla condanna a morte e che, combattendola, avrei combattuto l’assassino”, Dal momento in cui ho rinunciato a uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio”).

Entrambi gli amici lottano contro la peste, entrambi pensano che la vita sia affetta dalla peste, entrambi sono convinti che la peste vada affrontata da medici ma Tarrou pensa che si debba essere persino santi di fronte al male, anche se la sua idea è di una santità laica.
La vita offre la conoscenza e il ricordo del dolore e dell’affetto, dell’amicizia. Per il resto non dà speranze se non agli illusi. Tarrou, non ha speranza se non quella di consacrare la propria vita al servizio degli uomini, cioè non avendo nessuna speranza è spinto, per così dire alla santità. Altri uomini possono magari illudersi, immaginare che la peste possa arrivare e andarsene lasciando immutato il cuore . Ma non per tutti è così. Nemmeno Rieux si illude.

Camus dice del suo alter ego Rieux: lui sapeva quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti, e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice.

L’uomo si affianca così a Dio cercando di correggere una creazione che, per crudeltà e inintelligibilità, non lo soddisfa.
“Capisco, mormorò Paneloux. È rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire”.
Rieux si alzò di scatto; guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa.
“No, Padre, disse, io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati”.

I travagli che si consumano a ritmo serrato sotto il cielo di Orano condensano le passioni e le miserie umane: speculatori che si arricchiscono nelle disgrazie, dormienti che si rifiutano di aprire gli occhi e uomini che – lungi dall’essere eroi – si battono caparbiamente contro il male per conservare almeno la speranza di una rinascita.
La rinascita dell’umanità non cancellerà però i travagli e le brutture passate; è una tregua momentanea che poggia sulla voglia di vivere di ogni singolo uomo e ha bisogno di essere continuamente ribadita. Perché “il bacillo della peste non muore né scompare mai”.

Fonti:   http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/assurdo-albert-camus-straniero/

https://www.qlibri.it/narrativa-straniera/classici/la-peste/

“La Peste”, romanzo di Albert Camus – recensione di Nino Fazio

Albert Camus e l’assurdo: quando il destino ci appartiene come le tragedie della vita

Per dibattere intorno alle ragioni dell’esistenza nel Novecento, nulla era più utile del colloquio con una delle personalità più rappresentative e attuali di una stagione irripetibile dl’Europa, quella di Albert Camus, in cui il critico piemontese Giacomo Debenedetti individua l’emblema dell’interrogazione radicale dell’uomo occidentale alla ricerca di se stesso in un contesto ostile. Nel saggio dedicato al grande scrittore francese, il discorso si struttura tra le due nozioni contrapposte di “avventura” e “destino”; la prima è essere gettati nel mondo senza punti di riferimento, senza padre, madre, Dio e trovarsi nella solitudine circondati dalla foresta di cui non si conoscono più i sentieri. La seconda consisterebbe invece nel proseguire questa ricerca fino in fondo riconoscendo ed abbracciando la dolorosa opera come propria. L’uomo occidentale ha distrutto ogni certezza, ma è nella fase dell’avventura, è solo e turbato, incapace di vivere nel mondo.

Albert Camus e l’esistenzialismo

I temi dell’esistenzialismo hanno raggiunto al cuore le desolazioni che gli uomini di oggi sperimentano nel loro buio, ma come ha notato Albert Camus, molti filosofi esistenziali di fronte alla ragione umiliata dal non poter dare una risposta ai perché del mondo, abdicano ad essa: in Dio o nell’essere trascendentale o nelle essenze extra-temporali. Camus no. Con grande ostinazione, egli si aggrappa all’unica certezza dell’assurdo, che non è una verità che si dimostra logicamente, ma una sensazione che si manifesta in modo evidente all’uomo e che scaturisce dall’incontro tra ciò che è umano, la ricerca di senso e di unità, con il mondo irrazionale, con cui si può convivere o da cui bisogna fuggire attraverso il suicidio. Ma fuggire significa sopprimere l’assurdo e la sola opzione possibile è quella di vivere in un mondo dove non ci sono ragioni di vita. Il discorso del Mito di Sisifo ne segnala il coraggio presentando le tre regole della rivolta, della libertà e della passione. Più cordiale risulta la considerazione di Debenedetti riguardo a Lo straniero e del suo protagonista, personaggio profondo fino a toccare “le radici di un essere predestinato alla rivelazione dell’assurdo”. Alle spalle dell’avventura assurda c’è Freud con la sua presa d’assalto della centrale dei divieti. I comportamenti di Meursault esprimono della loro apparente gratuità, un segreto che si nasconde in una zona anteriore alla rivelazione dell’assurdo. Il suo disastro è “una guarigione sbagliata , la sua malattia è la madre”, intesa come sistema di autorità e di divieti cui l’uomo continua a subordinarsi. Chiudendola in un ospizio il protagonista del romanzo, allontana la madre da sé unicamente dal punto di vista fisico e solo alla sua morte, vorrà dimostrarsi che non esistono più divieti. Come Sisifo, Meursault diviene l’autore del suo destino.

Dice infatti Albert Camus: “C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia”. Per lo scrittore francese gli argomenti etico-religiosi e sociali tradizionalmente invocati contro il suicidio non valgono perché la vita non ha valore intrinseco, e la realtà ” è senza ragione ” e la morte è comunque l’esito che aspetta ogni essere vivente. La dimensione costitutiva dell’esistenza umana è dunque l’assurdità: le cose e gli eventi non hanno senso, e gli atti umani sono sempre inadeguati in riferimento alle possibilità e ai desideri che ha l’uomo. Prosegue Camus: “L’assurdo è un peccato senza Dio” . Il suicidio quindi è resa all’assurdo, di cui si deve invece prendere coscienza per impegnarsi a vivere nel modo più pieno possibile. Se ci si arrende all’assurdo, allora tutto diventa possibile e giustificabile.

Infatti, in opposizione al suicidio, l’autore auspica un’etica fondata sul “vivere” più intensamente, nel senso di «trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile»; in questo senso la vita dell’uomo ha valore in relazione ai grandi progetti che è capace di realizzare. Non a caso Camus chiude con la figura di Sisifo felice e la felicità è l’altra faccia della medaglia dell’assurdo. Tutta la gioia di Sisifo risiede nella consapevolezza che il destino gli appartiene come le tragedie della vita.

Tale ragionamento si approfondisce nel saggio Personaggi e destino in cui si individuano nell’epica moderna due momenti: l’epica della realtà e l’epica dell’esistenza. La crisi dell’epica della realtà è segnata per Debenedetti dalla rivolta, dallo “sciopero dei personaggi”, dalla loro richiesta di nuovi diritti nei confronti dell’autore.

 

Bibliografia: Angela Borghesi, La lotta con l’angelo.

L’intellettuale dissidente

Omicidio Varani, quando si sceglie il male

Roma è scossa per l’omicidio Varani. Brutali e vacui, gli usurpatori, assassini di un ragazzo fragile, di nome Luca Varani. La parola assassini non basta, ed è difficile trovarne un’altra che renda l’idea di quanto sangue, quanto dolore trasuda e si cosparge sugli osservatori immobili di un becero teatro degli orrori. Quello architettato anche con cura da giovani che, in una notte da sbadigli troppo grossi per ricchi, hanno deciso che si può uccidere tanto perché la coca ce l’ha detto, o chissà quale voce ci dice che si può fare. Luca Varani, 23 anni, già non c’è più. Restano solo poche fotografie, qualche video, e il messaggio perlato di lacrime della fidanzata distrutta dal dolore. Il ragazzo è stato ucciso dai coetanei Marco Prato, l’amico infame, e il conoscente trascinatore: Manuel Foffo. L’omicidio, di impronunciabile crudeltà, è innanzitutto senza movente. E resta un esempio di abominio di cui, inarrestabile, è capace la natura dell’individuo, sollecitato a stare in bilico tra umano e inumano. Se si volge lo sguardo al passato, si potrà constatare che casi come questi, di omicidi sanguinosi, vili in cui si impone la regola del dominio del killer sul più debole, di grado inferiore per età, genere, condizioni economiche o gusti sessuali, sono frequenti, anche se in numero ridotto. Diverso paese, situazione analoga.

Omicidio Varani: uccidere per vedere cosa si prova

Nel 2009 Alyssa Bustamante, 15 anni, strangola Elisabeth Olten una ragazzina più giovane (9 anni) per poi dichiarare, a distanza di due anni dal tragico fatto, che all’epoca la piena consapevolezza nel commettere un gesto irreparabile nato con intenzionalità. L’unica motivazione che l’aveva spinta a strangolare la piccola vittima era il desiderio incontrollabile di mettere alla prova le proprie emozioni. In parola povere, per “vedere cosa si prova ad uccidere”, come fosse un giro sulle montagne russe. Perché non provare? Lo stesso afferma oggi Marco, uno dei due colpevoli dell’omicidio di Luca. Il giovane ignaro delle intenzioni dei compagni, sale dai due che lo aspettano, avidi, bramosi, con gli occhi grandi e vitrei, automi, tossicodipendenti. Venerano il nulla, l’infimo, l’accecata spinta di braccia deficienti. Cosa è rimasto nel petto di questi colpevoli? C’è ancora qualche residuo di sentimento? Non per gli altri, quello l’ha preso la droga, o la vanità del posso tutto a vent’anni. Dov’è andato a finire l’amor proprio? La pietà per un coetaneo non è uguale alla tenerezza per la propria stessa, preziosa esistenza? Si è persa anche quella, tra un festino e una caccia alla preda, non interessa se tra uomini, etero o gay, non ha importanza. Luca varani 23 anni, preso di mira, forse era debole e pieno di sbagli, il più fragile tra i suoi coetanei, una vita che pulsava. E’ stato attirato con inganno nella casa di Foffo, poi torturato, seviziato con martellate e colpito al cuore con un coltello da cucina. Stando alle ultime indiscrezioni e dichiarazioni, Luca non assumeva stupefacenti. Non importa, che fosse etero o meno, che si prostituisse per racimolare due soldi in più, che avesse scelto una strada sbagliata, ma la dignità, chi potrà restituirgliela? Quanto male c’era nelle mani assuefatte dei due assassini? Si può essere incapaci di intendere e volere, intendere che un male atroce come questo non conosce neppure un pizzico di innocenza, né sgravi o giustificazioni? Bisogna sempre passare il limite, per riconoscerlo? Se non si rinviene una ragione, una logica all’omicidio alla trasgressione della vita contro la vita, si può parlare di Male puro, scelto deliberatamente, dato che i due assassini cercavano da giorni un bersaglio umano da seviziare sotto l’effetto disinibitorio della cocaina e dell’alcol, che non possono e non devono costituire delle attenuanti. Purtroppo anche l’opinione pubblica tende ad usare la pschiatria come un tappabuchi, dimenticandosi che esiste la malvagità e che il mondo non si divide in buoni, timorati di Dio e in folli, incapaci di intendere e di volere. Ma dove nasce questo male?

Omicidio Varani, esiste davvero il gene del male?

La scienza, anche se non all’unanimità, dice che sì, il male è presente nei geni. O meglio, si parlerebbe dell’esistenza di un cromosoma del male che provoca reazioni o azioni esasperate, violente, ingestibili? Questo dato allarmante è figlio di un’indagine condotta sui soggetti responsabili d numerose e reiterate azioni criminali a danno di cose o persone. Molti autori di delitti di straordinaria violenta detengono il cromosoma soprannumerario (tra i più celebri ci sarebbe Adolf Hitler) ovvero il risultato cromosomico di XYY. Questi soggetti sono di solito di un’intelligenza limitata, al di sotto della media, fisicamente longilinei ma robusti e con una marcata tendenza a compiere atti aggressivi quando non mortali. Spesso però questo dato non è stato confortante, nel senso che ha spinto ad avvalorare la non imputabilità dei soggetti in questione, non condannati a pene severe perché affetti da psicosi e disturbi mentali. Per fare un esempio, essi avendo una bassa soglia di resistenza a stress o situazioni di dolore o malattia, manifesteranno l’insofferenza scagliandosi su oggetti e cose intorno a loro, ma non sulle persone. Per questo motivo non si può parlare con certezza del legame ereditario con le azioni di un criminale seriale o recidivo, ma non si può escludere questa equivalenza tra genetica e comportamento. Nel 1931 si analizzava già il cervello del Vampiro di Dusseldorf, i risultati poi non resi noti. Invece nel New Messico Kent Kiehl, neuroscienziato, ha effettuato analisi dei cervelli di quei detenuti ritenuti psicopatici in ben otto prigioni. La ricerca condotta da Kiehl avrebbe dimostrato che i killer più violenti hanno un grado piuttosto basso di densità nel paralimbico, ovvero la “zona” che regola e sviluppa le nostre emozioni. In tali soggetti quindi non ci sarebbe un vuoto, una mancanza di sensi di colpa o emozionalità negative legate ad una correlata precedente azione criminale. Sarebbero in parole povere, privi di senso di colpa o remore, e agirebbero guidati solo dal loro istinto. Gli studi del neuroscienziato sono stati criticati da chi sostiene invece che non esiste una comune causa cerebrale che motiverebbe comportamenti di assassini o aggressori. Ma anche se fosse, si può giustificare uno psicopatico e “perdonare” una becera esecuzione, lenta e dolorosa, come quella toccata a Luca Varani? No, non è mai possibile arrivare a tanto, chiamandola follia. Può darsi che ci sia una deficienza di morale, mentale e spirituale che sfugge alla comprensione dei più. La mancanza dei due ragazzi, è probabile che stia in una condotta assunta come valida e unica, materialistica e asociale che schiavizza. Questa fustiga  l’uomo e lo riduce a servo della sostanza, dell’oggetto dei desideri – si può morire per la coca, ma non si muore per un amico, al contrario – che diventa così, il padrone di ogni arbitrio, responsabile di ogni mancanza di ideale, obiettivo, scopo che non sia quello dello sballo.

Si può arrivare a tanto? Spingersi fino al punto di dimenticare che la vita non è una privilegio, ma la possibilità di partecipare ad un capolavoro esclusivo, con un potere dell’uomo di essere altrettanto determinante per l’umanità? Il poter di costruire si è mestamente capovolto nel suo male estremo: se ho un potere di fare del bene, perché non si può agire in modo che il male sia opera mia, e godere di questo?  Le parole non servono, e sono troppo poche per esprimere lo choc dei media e dei lettori dinnanzi ad una nuova forma di violata innocenza, di mancanza assoluta e indiscriminata di raziocinio, oltre che di moralità. Cosa  può spingere un ventenne, sì sotto effetto di stupefacenti, a togliere brutalmente la vita ad un coetaneo? Per cercare una risposta ci richiamiamo a tre occhi: filosofia, teologia e letteratura. Albert Camus parla dell’omicidio nei suoi scritti saggistici: in particolare dell’omicidio nichilista. Il nichilismo assoluto infatti, come di deduce dall’etimologia del primo termine, legittima che un uomo tolga la vita ad un altro uomo perché in esso si va a confondere l’azione creatrice con quella delle creature viventi. Per farla breve, il pensiero nichilista non profonde nessuna speranza nel prossimo, e perciò se non esiste speranza viene a mancare ogni limite da essa. L’umano è accecato, o non vede o scorge troppo, straborda la propria percepibile indignazione, non riesce a cogliere al contrario la ragione. Ne consegue, perciò, che uccidere un altro simile, il quale dalla nascita è di per sé creatura mortale, destinata a morire,  sia un fatto inconsistente, indifferente. La mancanza totale di coinvolgimento all’atto di togliere, tagliare in due, spezzare la vita di un altro essere umano e attribuire al proprio io quell’iniziativa di dare la morte, chiarisce come l’uomo contemporaneo sia cambiato. Gli antichi, difatti, riconoscevano almeno che “il sangue dell’omicidio provocava almeno un orrore sacro: santificava così il prezzo della vita”, (Rivolta e Omicidio, Opere, Albert Camus). Se un uomo, valoroso o meno, si arrischiava a uccidere un altro, quell’azione assumeva un valore riferito alla causa, al motivo scatenante, che fosse un amore, un torto subito o una vendetta, non importa. Ma l’omicidio aveva un germe, e per questo sacrilego. Sempre in Camus, si riflette sull’idea dell’omicidio in Sade: secondo questi poiché Dio è una divinità criminale che sopprime l’uomo , questo è riscontrabile proprio nelle religioni, foriere di spargimenti di sangue e persecuzioni. Allora, in un scontato sillogismo, se Dio uccide l’uomo e può farlo, perché non può l’uomo uccidere se stesso e i suoi simili? Questi spunti sono fondamentali per avviare una riflessione, ardua ma doverosa, sul caso di Luca. L’assassino contemporaneo, che sgozza, strangola, infierisce sulla vittima e stupra, flagella, dispensa prodigali colpi sul corpo inerme e non si fa schifo di se stessa, la mano di questo assassino rinvia al Satana di Vigny (bello a guardarsi), a quelle parole caustiche, precise, come lame: lì scompare la distinzione tra bene e male, non la si riconosce proprio: “non può sentire male né beneficio. E’ persino senza gioia davanti alle sventure che ha create”. Chiamarla sventura sarebbe un generoso eufemismo, ma è chiaro che nell’azione dei due colpevoli c’è il male, che non è oscuro, si faccia attenzione ma ha una luce che acceca, luciferina forse, si capisce. Dietro al fatto che l’avvocato sottolinea che i due “erano incapaci di intendere e di volere” sta la nuova mercanzia della cattiveria.

Una vita, per centoventi euro. Ma qui il prezzo dello scambio è molto più alto: una morte (quella di Luca, fisica) per una morte ( quella dei colpevoli, interiore). Chi agisce per vacuità, perché l’orrendo, l’infimo, il male non ha strade dritte ma provoca piacere, fa sentire vivi uccidere , recidere quel filo, avvampa il petto si gonfia ma la droga non può essere l’unica scusante. Anche nel Medioevo, nell’iconografia, all’immagine di Lucifero bestia cornuta si sovrappone in definitiva quella di Vigny, il diavolo con il viso giovane ma triste e colmo di avvenenza, cita Camus sempre nell’Uomo in rivolta.  Si potrebbe ipotizzare che il dandy si stia riproducendo nella nuova generazione: autoreferenziale quando non atona, meschina ed egotista, accerchiata dal materialismo, non vede più l’essenza, così tra bene e male non sa perché dovrebbe scegliere il primo. Manca perciò la coscienza di cosa fare e cosa non fare, tutto è relativo, nulla inviolabile. Anche la vita è la libertà di una vita al respiro è discutibile, attaccabile e la si può incrinare.  Gli assassini di Luca sono come dei dandy, ma senza fascino. Il dandy si specchia nell’altro, e nell’altro trasferisce la sua euforia disforia. Così, uccidere e seviziare un coetaneo, potrebbe voler dire che non si ha a cuore nemmeno il proprio io, l’integrità, la volontà di opporsi all’oscuro. A vent’anni si può essere belli, forti e tutta la vita davanti. Per questo ha un senso atroce ma potentissimo: sciuparla, stritolarla e affondare con quella dell’altro, la propria; come scriveva Baudelaire: “ Vivere e morire davanti ad uno specchio”. Ma come mai un giovane vuol uccidere e vuol morire, assieme all’altro? Istigarsi alla morte, vivendo per ultimi lo stesso dramma. Ed è quello che poi è successo ad uno dei due colpevoli, che ha tentato il suicidio con i barbiturici, tratto in salvo per il rotto della cuffia. Perché oggi quel esasperato senso di possesso non fa che dare a chi è nel pieno della sua forza psicofisica una gamma di opzioni quasi infinita. La gabbia è sparita, il pettirosso non si sente imprigionato e né vola.

Il male, come il bene, è insito nella natura umana, qualcuno probabilmente darà la colpa ad Adamo ed Eva, al peccato originale; ma troppa libertà ci ha resi meno liberi, poco autodeterminati e di certo maliziosi. Se se puoi pretendere dall’esterno qualsiasi cosa tu voglia. Voglio bere-bevo, voglio farmi-mi faccio, voglio infrangere le regole della decenza, del buon senso, lo farò solo per il gusto di averlo fatto. Aboliti i tabù, inabissate la rara compiutezza della classica trasgressione da fuga d’amore, nulla eccita una mente isolata e asservita ai beni (che bene non procurano) senza i quali la sua individualità non trova posto, o senso nelle sue azioni. che non sa riconoscersi più, non sa cos’è la virtù. Nulla eccita più del fuoco fatuo della malizia. E’un falò che distrugge, senza fertilità la terra dove abiteranno le nuove generazioni è arida. Solitudine e vuoto, questa è la più profonda condanna di due colpevoli privi di rimorso. L’anima non l’avranno indietro, e forse è meglio così La letteratura, anche quando insignita del suggello filosofico, non può darci una certezza. E Raymond Carver direbbe: “dannato”, senza altri appellativi. E adesso, davanti agli inquirenti, i colpevoli si rimpiccioliscono pure davanti al mea culpa, gettandosi fango a vicenda, appallottolandoselo addosso, bevilo tutto sto fango. Chi dice che è stato l’altro a colpire mortalmente Luca e in questa corsa al io sono innocente, non resta che l’oscuro presagio di morte. La coppia prima ha premeditato il fattaccio, poi lo ha organizzato e infine si sta pulendo le mani nella latrina. Puzza di oscuro, e fa male dirsi umani se si può arrivare a produrre tanta melma immonda. Ma loro a cosa pensano: a coprire l’inganno, con l’inganno. E non c’è peggio del male coperto.

‘Lo straniero’ di Camus: l’assurdità di vivere

Quando un uomo che pensa che il suo dovere in quanto persona, e soprattutto in quanto scrittore, sia “parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo” vince l’ardito Premio Nobel per la Letteratura, in quel preciso momento, il nostro mondo diventa un posto migliore. 1957, ad Albert Camus viene assegnato il premio Nobel “per la sua importante produzione letteraria, che con serietà chiarificante illumina i problemi della coscienza umana nel nostro tempo“. Questa semplice definizione della produzione scritta dell’autore, fornisce anche una chiara e completa chiave di lettura per l’interpretazione di uno scrittore, divenuto memorabile per il suo spiccato senso della giustizia, per la continua lotta, letteraria e non, per il raggiungimento della correttezza, della moralità, del trionfo dei deboli su una società opprimente.

Tale lotta viene riflessa nelle opere di Camus in un passaggio dall’esterno verso l’interno: le ingiustizie, la sofferenza del genere umano, e soprattutto l’irrazionalità e l’assurdità degli avvenimenti nelle vite dell’uomo entrano nella mente dei personaggi per diventare metafora di lotte più grandi, non alla portata del singolo.

Eppure, anche nella sfera del personale, all’interno della bolla di sapone nella quale si vive l’illusione di avere un potere determinante sul Fato e sul corso della propria vita, il susseguirsi degli eventi che descrivono la storia dei protagonisti mostrano chiaramente il contrario, ridicolizzano la chimera di una vita perfetta, evidenziando come il loro avvicendarsi non sia influenzabile dal volere dell’uomo, che diventa mero spettatore apatico della propria vita, riflesso di se stesso, fino all’ultima pagina di un libro da scrivere, ma secondo una trama definita ed intransigente verso le sbavature al di fuori delle righe.

“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. Così comincia il capolavoro Lo Straniero (1942), classico della letteratura contemporanea, e queste poche parole sono sufficienti per trasmettere una sorta di sconcerto che accompagnerà ogni pagina del libro. Meursault, il modesto impiegato di origine francese protagonista del libro, affronta infatti con la stessa laconicità e insensibilità comunicata da questa prima frase una serie di episodi che lo porteranno ad un epilogo che risulterebbe tragico, se però non fosse vissuto nella stessa maniera spregiudicatamente attonita. Ci troviamo ad Algeri, dove il sole battente, il caldo soffocante e il sudore pervadono le pagine del romanzo e attanagliano i sensi del protagonista; alla notizia della morte della madre nell’ospizio presso cui l’aveva ricoverata, segue il funerale, al quale Meursault assiste apatico, continuando a pensare di avere caldo, e sonno, e fame. Poi l’uomo torna a casa, vede la sua donna (sembra che lo sia per caso), Marie, la quale, anch’essa con indifferenza, gli chiede di sposarla. Meursault risponde che per lui è lo stesso, e che se proprio lei ci tiene possono farlo, ma il discorso cade, così come era cominciato. Successivamente irrompe nella sua solitudine di Meursault il vicino di casa, il quale gli chiede notizie del proprio cane che ha smarrito, disperato come se quotidianamente non lo maltrattasse come invece fa. L’impiegato prende atto dell’intervento del vicino, ma non ha molto da dire. Solo verso la fine del libro vediamo il protagonista avere una reazione (dalla quale traspare “un’angoscia esistenziale”), una sorta di ribellione quando, insofferente alla presenza di un prete di cui più volte ha rifiutato la visita, si scaglia contro la vita. Ma la ribellione dura poco Mersault torna ad attendere l’esecuzione della sua condanna con indifferenza.

Meursault, uomo senza bussola, testimone, e non protagonista della sua vita, diviene l’emblema ignaro della più completa indifferenza, apatia e incapacità di afferrare saldamente e manovrare il timone della propria esistenza, che non appare che come una sequela di sfortunate coincidenze, giochi negativi del destino, l’essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, fino all’apice: una condanna di morte. E, a differenza dei diversi romanzi che trattano in maniera più o meno approfondita la pena di morte, in questo caso l’autore non ci chiede un giudizio, non ci chiede di esprimerci a favore o contro questo avvenimento, bensì lo presenta come un dato di fatto, mettendo così i suoi lettori sullo stesso livello del personaggio: si può solo osservare l’avvicinarsi dell’evento, rassegnandosi ad esso, perché opporsi non è possibile.

L’assurdo, tematica centrale dell’opera, sembra quindi diventare un passo alla volta parte costituente della vita dell’uomo, non tanto per sua scelta, o per sua natura, ma come risultato di forze che introducono questa matrice irrazionale nella vita. La stessa tematica, particolarmente cara all’autore, si riscontra anche in opere come Il mito di Sisifo e Caligola, tanto da permettere ai critici di definire le tre opere come una sorta di trilogia dell’assurdo.

E’ interessante notare come, una tematica border-line quale è l’assurdo, che rischia continuamente di sfociare su temi più fantastici o irreali, viene qui maneggiata da Camus con grande destrezza, avvalendosi in un linguaggio semplice, fatto di frasi brevi e secche, dove domina il pronome personale io, rimanendo sempre nella sfera del plausibile, del concreto, del reale.

Una brillante interpretazione non solo dell’opera, ma anche dello stesso scrittore, è data da Roberto Saviano, nella sua prefazione a Lo straniero (edizione Bompiani) attraverso la quale egli riesce a leggere le diverse facce dello straniero, sia esso Camus, Meursault, o un individuo qualunque:

“Insomma, quando leggi Lo straniero, quando leggi del suo protagonista che per puro caso ammazza un arabo, quando leggi come tutto avvenga per fatalità, ti accorgi che Camus è riuscito in un’impresa impossibile: quella di descrivere l’esistenza come qualcosa che accade”. (Roberto Saviano, 2015).

Lo Straniero è un libro atroce consigliato a tutti gli uomini e le donne, credenti e non, che in questo mondo, in questa società si sentono “stranieri” e “alieni”.

 

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