Dialogo, ritratto, descrizione, scelta del soggetto, credibilità e trascrizione del tempo: sono questi gli elementi principali che caratterizzano un romanzo, e senza dubbio i romanzi di Alberto Moravia combinano efficacemente questi ingredienti fin dalla sorprendente esplosione degli Indifferenti dove si agglomeravano e collaboravano spontaneamente come del resto nel romanzo breve L’imbroglio (Milano, 1937) che ci offre cinque saggi che danno vita ad un blocco narrativo organico e compatto. Tale coesione tuttavia è frutto di uno squilibrio interno che conferisce al racconto il ritmo accelerato a un tempo e sospeso; squilibrio che è la molla drammaturgica delle sceneggiature di Moravia e che si caratterizza come un rapporto originale tra ciò che i personaggi sono e ciò che fanno.
Per costringere i personaggi a fare qualcosa, Moravia interviene con uno scatto narrativo grazie al quale la posizione della figura si converte in un’azione, il ritratto psicologico in una composizione ad intreccio, o meglio ad imbroglio, rifacendoci al titolo dell’opera. Impostato come un ritratto, L’imbroglio ci rivela con grande evidenza chi siano i personaggi di Moravia, uno su tutti l’avvocato Tullio Monari, posseduto dal demone dell’avarizia. Ad un certo punto si produce un colpo di vita che imbroglia la passività del protagonista che lo rende attivo; ciò avviene con l’entrata in scena di un altro personaggio, un personaggio antagonista impulsivo che compie un atto improvviso. Più che atto, si tratta di una crisi che sfocia nell’abulia, nell’inquietudine puramente velleitaria del protagonista.
Il romanzo breve si appropria più di ogni altra forma al temperamento di Moravia, prioprio perché è un romanzo di una crisi e lo scrittore romano ha sempre visto e sentito i comportamenti dei suoi personaggi sotto l’aspetto esplosivo della crisi: nella sua narrativa fatto ed intreccio sono dati comunque da una serie di crisi che mettono in moto figure passive e vittime di una passione piuttosto che di un vizio. In questo senso Tullio con l’amore ha una partita aperta, nessuno crede alla sua generosità: con Elena, donna vera e non un ripiego dei soliti amori senza spesa, Tullio diventa attivo, non appena l’avventura minaccia di lasciargli alle spalle il peso costoso di una vita; ma interviene la crisi ed Elena si butta tra le braccia di Tullio per rimanervi. A questo punto il ritratto dell’avaro Tullio si trasforma in un dramma/commedia di una figura non più statica. Quel marchio di indifferenza che Moravia aveva impresso ai personaggi del suo primo e celeberrimo romanzo, si perpetua nei loro successori, ne è un esempio anche l’architetto Silvio Merighi che si dispone a lasciar entrare dentro di sé il gusto di vivere in una grande città, anziché tornare nel paese natale, per imbonire la sua clientela borghese. Anche Merighi si avvia sulla strada dell’indifferenze e della passività, da cui lo scuote violentemente la crisi di Amelia de Cherini, la quale, inaspettatamente ne diviene l’amante; ed ecco l’imbroglio: il giovane Gianmaria giunge a Roma per frequentare l’Università e sente impellente il bisogno di buttarsi in un primo amore per superare la propria timidezza. Ma ciò contiene anche i germi di un vizio e il ragazzo si fissa su una ragazza della quale Moravia subito indica gli aspetti sgradevoli, Gianmaria non riesce a vedere la possibilità di un’avventura meno ovvia, ma certamente più umana ed attraente con la direttrice della pensione, anche lui giungerebbe ad una indifferenza, pago delle proprie attese e speranze se non lo cogliesse l’iniziativa della ragazza, esplosa anche lei istericamente come una crisi.
Nel noto racconto La provinciale, i bovarysmi della vedova Foresi e di sua figlia Gemma assumono la forma di represse aspirazioni ad una vasta vita borghese, nella quale tutto appare lecito. Ancora una volta il ritratto psicologico si esaurirebbe in se stesso, se non sopraggiungessero molte crisi che culminano nell’entrata in scena di un’ambigua e cinica avventuriera, entro la quale i bovarysmi di Gemma si stagnano. Qui Moravia non ha voluto rinunciare al dramma, sottraendo i personaggi alla loro curva naturale, a differenza di quello che accade nella Madame Bovary di Flaubert. L’autore romano si rifà ai grandi movimenti irrazionali dei personaggi dostojevskiani riportati sulla scala ridotta della crisi borghese, rivestendo di carne la moralità e il costume dei personaggi, infatti ogni figura in Moravia si presenta sotto un prevalente aspetto fisico: nel Negrini de L’imbroglio che si smaschera per un povero lestofante, baro e sfruttatore di donne, viene subito notato con ribrezzo <<un orecchio tondo e perfetto, rifinito come un ombelico>>. Ciò rappresenta la prima spia che fornisce l’indizio della magagna che si cela sotto l’involucro della rispettabilità. Gemma della Provinciale invece viene presentata con queste parole: “Era alta, snella, ossuta, con lunghe e magre cosce eleganti, larga nel petto sfornito e nelle spalle”. Il nudo delle cosce di Gemma, decifrato sotto i vestiti della donna, sarà il richiamo che attirerà su Gemma i desideri del ricco Paolo, rappresentante della società libera e agiata, cui la donna aspira.
A dispetto di tutti gli altri elementi che compongono una personalità, è la carne il materiale di fabbricazione di cui si serve Alberto Moravia, la cui vitalità si rovescia sulle sue figure plastiche come forza di impulsi sensuali; qualunque cosa essi facciano, esemplano sempre i loro gesti sull’impeto della cupidigia che li getti l’uno nelle braccia dell’altro. Dopo D’Annunzio, è stato Moravia il primo a ricostruire una mappatura romanzata di Roma, parlando però di verità poetica, offrendo un mondo che si configura come ipotesi, un mondo che lo scrittore romano condanna sebbene ne sia complice, stando dalla parte dell’inquietudine.