Book City Milano 2015, al via la quarta edizione

Anche quest’anno parte il Book City Milano, giunto alla sua quarta edizione. La manifestazione, gratuita, si è aperta oggi 22 Ottobre e si concluderà il 25 Ottobre. L’iniziativa è voluta dal Comune di Milano e dal Comitato Promotore (Fondazione Rizzoli Corriere della Sera, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Fondazione Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri), a cui si è affiancata l’AIE (Associazione Italiana Editori), in collaborazione con l’AIB (Associazione Italiana Biblioteche) e l’ALI (Associazione Librai Italiani).

In questi quattro giorni in cui la città sembra raccogliersi intorno al libro. Le sedi più note, pubbliche, private, quelle sconosciute e tutte da scoprire entrano nel circuito della manifestazione. Biblioteche, sale di lettura, piazze, spazi universitari, fondazioni, gallerie, castelli tutta la città sarà coinvolta. Eventi a tema nelle sedi della cultura e della vita sociale milanesi, eventi “fuori luogo” così come sono stati definiti dall’organizzazione, che portano il libro e la lettura a voce alta in sedi nuove e soprattutto in nuovi scenari sociali. Una carrellata di altri eventi sparsi su tutto il territorio, promossi e gestiti da editori, librerie e, diverse istituzioni culturali e scolastiche. Tanti gli ospiti, tanti gli argomenti di cui parlare: presentazione di libri, dibattiti socio-culturali e scientifici, riflessioni sull’editoria e tanto altro. Intorno al libro, che è l’oggetto indiscusso della manifestazione, ruota un universo costruttivo e positivo ed è questo che Milano book city vuole promuovere: letture a voce alte, spettacoli, mostre, seminari, visite alle raccolte e alle biblioteche storiche sia pubbliche che private, passeggiate culturali. Al centro vi è la città, spazio che propone la lettura come un’esperienza di valore.

Isabel Allende, Jeffrey Deaver, Herta Müller, Alessandro Baricco, Umberto Eco, Erri De Luca, sono solo alcuni tra i nomi che figurano in questa serie di manifestazioni (circa 800); durante la giornata di oggi, alle 10.30, presso L’Università Cattolica del Sacro Cuore, si è svolto l’incontro L’Italia raccontata dai media, cui hanno partecipato Fabio Fazio, Luca Doninelli, Aldo Grasso, Fausto Colombo e Ruggero Eugeni. Durante la mattinata è stato presentato il progetto dell’opera in tre volumi Storia della comunicazione e dello spettacolo in Italia (a cura di Fausto Colombo e Ruggero Eugeni).

Alle 17.30 presso L’Università degli studi di Milano (Palazzo Greppi,) si  è parlato di Lezioni di indisciplina. Migrare e naufragare tra pensiero e azione: protagonisti sono stati Pierangelo Dacrema, Renato Mannheimer, Veronica Gronchi e Andrea G. Pinketts.

Il programma è aperto, poliedrico ed è adatto a tutti prevede eventi a tutte le ore in parti diverse della città. Laboratori di scrittura, mostre di costume e di arte bibliografica, cacce al tesoro orchestrate da librai misteriosi, rassegne stampa, seminari sull’editoria e sul mestiere dello scrittore, giochi educativi e interattivi per i più piccoli, percorsi per gruppi e famiglie, lezioni di filosofia e di economia, progetti per le scuole; insomma c’è davvero di tutto, è un vero e proprio festival.
La città dei libri funzionerà anche quest’anno, come gli anni passati, a riprova che i libri e la cultura interessano se sono ben proposti.

‘Seta’, un Alessandro Baricco leggero e semplice

Seta è il terzo romanzo di Alessandro Baricco, edito dalla casa editrice Rizzoli nel 1996, ultima opera del ciclo narrativo “ottocentesco”, che ha ispirato anche il film omonimo del 2007 diretto da Francois Girard. Seta si ispira più allo stile della sceneggiatura cinematografica e del racconto che a quella del romanzo di ampio respiro, modalità che quasi “preannuncia” la struttura di Novecento, infatti è diviso in 65 brevi sequenze e privilegia gli spazi bianchi, i sintagmi brevi, paratattici, e l’iterazione cantilenante, dividendo sovente il complemento oggetto dal verbo:

Hervè Joncour aveva 32 anni.

Comprava e vendeva.

Bachi da seta.

Seta si differenzia dai precedenti romanzi anche per la semplicità e la ‘leggerezza’, come la seta, appunto, metafora e pretesto propulsivo del racconto e della sua ‘trasparenza’; la presenza di chiari indicatori temporali che delimitano l’epoca in cui si svolge la storia, siamo nella Francia del 1861; la mancanza di un vero gruppo di protagonisti, non è un romanzo corale, l’azione ruota interamente attorno a Hervè. La trama narra le vicende di Hervè Joncour, un ex militare che abbandona la carriera scelta per lui dal padre per mettersi in affari con un imprenditore nel settore tessile, Baldabiou, proprietario di una filanda a Lavilledieu. Il compito di Hervè è viaggiare lungo la via della seta dalla Francia al Giappone, dopo un’epidemia che ha coinvolto i bachi da seta in Africa, per acquistare bachi da seta sani. Il viaggio dura molti mesi, dato che ancora non era stato aperto il canale di Suez, che lo tiene spesso lontano dalla moglie Helèn.

Il tema del viaggio richiama molto le lunghe assenze del signor Rail di Castelli di rabbia ed Helèn ha vari punti in comune con Jun, la quale attende paziente il ritorno del marito a casa. Così come nel primo romanzo di Baricco, anche qui si inserisce un tradimento all’interno della coppia, ma in Seta non si concretizzerà mai, è solo immaginato. Hervè si invaghisce di una ragazzina conosciuta in Giappone, in casa di Hara Kei, l’uomo che commercerà con lui i bachi da seta, ma non riuscirà mai ad avvicinarla davvero, crederà infatti per lungo tempo di aver ricevuto da lei una lettera d’amore per poi scoprire tredici anni dopo la morte della moglie che era stata proprio lei, Helèn, a scriverla, desiderando per amore di far cessare quell’insana ossessione e al tempo stesso di sovrapporre la sua immagine a quella dell’amante e ricevere così, indirettamente, le fantasie del marito.

Lo stile narrativo di Seta che tende a isolare segmenti di racconto entro cornici bianche, richiama la Leggenda di San Giuliano Ospitaliere di Flaubert, come contenuti invece il tema del viaggio e il mistero vagheggiato dell’Oriente collegano l’opera alle Città invisibili di Calvino. Seta è diventato un vero e proprio caso editoriale che ha fatto discutere i salotti della critica letteraria:  Spiega il critico Bianciotti:

«Ma che cosa sta succedendo? Ho incomiciato a domandarmi. Un quarantenne italiano scrive un romanzo di 100 rade paginette e ha un successo mondiale; lo stesso è accaduto a Christophe Bataille, con le 90 pagine del suo Signore del tempo già pubblicate in Italia da Einaudi; e presto sentiremo parlare di Eduardo Berti, un argentino, vero e proprio fenomeno in America Latina. I suoi testi brevi cominciano dalla Francia la scalata all’Europa. Risultati impensabili qualche tempo fa, anche perché nessun editore avrebbe mai creduto in romanzi così esili. Stiamo andando verso la brevità. Seta mi ha fatto venire in mente Calvino e Augusto Monterroso portato ad esempio nelle Lezioni americane per il racconto più corto mai scritto. Questa è la tendenza attuale. La gente ha fretta e perciò sente il bisogno di leggere romanzi concisi e possibilmente ben scritti. Vuole delle nane bianche, quelle stelle piccole ma ad altissima densità di materia. Come le opere di Borges, le novelle di Kafka o i racconti di James».

Calvino la chiamava «rapidità». E, ascoltando Bianciotti, è facile intuire quanto bisogno abbia dell’«esattezza». Ma c’è un’altra caratteristica che accomuna i romanzi di Baricco ai suoi omologhi per brevità e successo: «La lontananza dall’attualità. Pare proprio che l’inconscio collettivo sia in cerca di pace e serenità. Altrimenti perché al tempo del rock e del rap, alla radio, qui in Francia, non si sente altro che musica barocca? Antichi strumenti e delicate note, contro la “pesantezza”, che so?, di Mahler. E, mutatis mutandis, contro il peso del presente nella letteratura e fors’anche nella vita» (Bianciotti). Un modo di interpretare la «leggerezza», insomma. Non mancano che la «visibilità» e la «molteplicità». Chissà se Calvino sarebbe soddisfatto.   

Hervè Jancour è il reale protagonista del romanzo, unico punto focale della storia che lascia gli altri personaggi solo sulla soglia della scena, è un nomade, un uomo alla continua ricerca di qualcosa che sia lontana dalla sua vita apparentemente felice e convenzionale a Lavilledieu e la trova nel fascino misterioso ed erotico del Giappone, rappresentato per lui dalla sensualità di una giovane fanciulla conosciuta alla ‘corte’ del commerciante Hara Kei:

D’un tratto,

senza muoversi minimamente,

quella ragazzina,

aprì gli occhi.

Hervè Joncour non smise di parlare ma abbassò istintivamente lo sguardo

 su di lei e quel che vide, senza smettere di parlare, fu che quegli occhi

non avevano un taglio orientale, e che erano puntati, con

un’intensità sconcertante, su di lui: come se fin dall’inizio non avessero fatto

altro, da sotto le palpebre.

La giovane senza nome diviene così la sua vera motivazione per ritornare in Giappone, nascosta sotto la falsa ambizione professionale. Durante l’ultimo dei suoi quattro viaggi in Giappone scopre le condizioni di un Paese in lotta, si trova ad attraversare una guerra civile e a dover abbandonare per sempre il suo proposito di rivedere la ragazza che popola le sue fantasie. L’immagine del Giappone che viene rappresentata è quella di un Paese in transizione verso un nuovo ordine, visto ancora legato al fascino e alla tradizione che ha reso da sempre l’Oriente oggetto di fantasie nell’immaginario collettivo, un Paese agli antipodi del mondo, scrigno di segreti inconfessabili e rituali a noi sconosciuti, regno della sensualità, della legge dell’onore e di uno stile di vita dove la lentezza, la leggerezza, la sacralità assumono un significato distante da noi occidentali.

-Il Giappone è un Paese antico, sapete? La sua legge è antica: dice che ci sono

dodici crimini per cui è lecito condannare a morte un uomo.

E uno è portare un messaggio d’amore della propria padrona.

All’ordine di Hara Kei, venuto a conoscenza dell’ossessione della sua giovane amante per il commerciante francese, Hervè Joncour abbandona per sempre l’Oriente senza opporsi particolarmente e accetta questa condizione offertagli dalla vita con rassegnazione. Hervè è infatti un individuo che subisce la storia e lo sviluppo, senza né volere e né potere incidere sul loro corso:

Era d’altronde uno di quegli uomini che amano assistere

alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi

ambizione a viverla […].

Compì 33 anni il 4 settembre 1862. Pioveva la sua vita, davanti.

ai suoi occhi, spettacolo quieto.

È un inetto, uno spettatore passivo della sua vita, è un vinto dalla vita per non aver mai attraversato la linea di confine tra il reale e l’immaginato, perdendo di conseguenza tutte e due le donne della sua vita, quella reale e quella immaginaria. Vive un’esistenza a metà, fra Lavilledieu e la meta dei suoi viaggi, non essendo mai realmente in nessun luogo, infatti nonostante siano specificati i nomi delle località in cui si trova a vivere o a sostare in realtà sono tutti luoghi simbolici, potrebbero trovarsi lì o in qualsiasi altro posto senza fare alcuna differenza, sono luoghi della mente alla pari della Locanda Almayer di Oceano mare e di Quinnipak di Castelli di rabbia. Hervè vive una menzogna creata per lui dalla moglie per divenire parte delle fantasie del marito, infatti Helèn chiede a Madame Blanche, una prostituta giapponese trasferitasi da tempo in Francia, di tradurre per lei una lunga appassionata lettera d’amore che rappresenta l’amplesso mai consumato fra il marito e l’amante, immaginando di essere lei, per poi spedirla con falso mittente a Hervè. L’uomo crederà per anni di aver ricevuto davvero quella lettera dal Giappone, ignaro del ruolo giocato nella vicenda dalla moglie.

Quando viene a sapere la verità l’accetta con la solita rassegnazione e cambia il corso della sua esistenza, trovando finalmente un baricentro. Hervè Joncour racchiude in sé molte delle caratteristiche riscontrate precedentemente nei primi due romanzi di Alessandro Baricco presi in analisi, non a caso Seta concentra l’attenzione del lettore interamente su di lui, poiché è un personaggio contenitore che ha in sé il desiderio di evasione di Dann Rail e al tempo stesso la frustrazione del desiderio insoddisfatto a lungo di Jun Rail, la lungimiranza di Hector Horeau e di Pekish per il progresso e la rassegnazione di Bartleboom e di Plasson dopo aver perduto l’ardore che accendeva i loro sogni. In realtà la perdita dell’utopia non svanisce lasciando solo vuoto dietro di sé, conduce Hervè e dunque tutti i personaggi baricchiani su di una nuova riva, che è la normalità, un ritorno a casa. Al quale sembra aspirare Baricco stesso.

 

‘Oceano mar’e, la pomposità di Alessandro Baricco

“Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorare qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una sola parola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare”.

Oceano Mare è la seconda opera narrativa di Alessandro Baricco, pubblicata nel 1993 dall’editore Rizzoli. Il titolo è un superlativo, infatti il primo elemento ha valore di intensificativo del secondo e serve a celebrare il mito del mare che sarà alla base della storia, con evidenti richiami a Melville. Si tratta di un romanzo corale che appare dipinto, più che scritto, dato che la storia e i personaggi ivi narrati sono come pennellate sparse su di una tela, accennati ed impenetrabili, in un universo indefinito e senza tempo, che richiama elementi ottocenteschi. Alessandro Baricco elabora in questa sua seconda opera, dopo il romanzo d’esordio Castelli di rabbia, una tecnica di scrittura più consapevole e personale, più matura e scorrevole. Una vena antipsicologica, irrazionale, fantastica pervade la sua narrativa, dove le cose non hanno bisogno di motivi: accadono e basta, son lì a stupire, colpi di dadi nel gioco del Caso.

La locanda Almayer, nome che trae spunto dall’opera di J. Conrad, La follia di Almayer, è sita a Quartel e fa da sfondo e da non-luogo di passaggio per il viaggio metafisico dei protagonisti, posta tra la terra e il mare. La vicenda inoltre trae spunto da una tragedia, sepolta nel tempo, che ha visto naufragare una fregata francese, l’Alliance, al largo della costa del Senegal. L’intero equipaggio non poteva essere contenuto nelle poche lance a disposizione, così 147 uomini furono stipati su di una zattera collegata alle lance da una corda. Che la corda sia stata tagliata volutamente o meno, i naufraghi restarono presto sperduti nel mare, soli con i propri istinti e con una quantità esigua di scorte. Il marinaio Thomas sopravvive a questo inferno e  l’unico scopo della sua vita rimane la vendetta, la stessa che lo porterà a seguire un uomo, il Dottor Savigny, fino alla locanda Almayer, calamita di tutte le storie intrecciate nel romanzo. Il mare è luogo di salvezza, di ricerca di un senso, punto di snodo per raggiungere una più completa consapevolezza di sé, come afferma Giovanardi ne I segreti della locanda Almayer (La Repubblica 07-01-03):

“Dall’Odissea fino a Moby Dick, il mare ha sempre rappresentato in vari modi, il tramite per una clamorosa uscita da se stessi, dai propri limiti, dai propri ambienti, dalla propria natura, e ha dunque incarnato un´istanza di estroflessione, di scoperta anche rischiosa e violenta del mondo o comunque dell’altro da sé, qui esso finisce per circoscrivere un luogo immaginario […] in cui alcuni stralunati personaggi tentano disperatamente di incontrare se stessi”.

La narrazione si divide in tre libri:  La locanda Almayer, Il ventre del mare e I canti del ritorno. Tale suddivisione sembra essere spiegata ne Il ventre del mare, quando Thomas ricorda le parole del marinaio Darrell: “quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tormare vivi”.

La prima parte del romanzo rappresenta quindi  “quelli che vivono davanti al mare”; qui vengono dipinti i tratti essenziali di tutti i personaggi: Plasson il pittore, Elisewin, malata di “paura”, e il suo padre spirituale Padre Pluche, il Professor Bartleboom, studioso strampalato, Ann Deveria, l’adultera, Adams, falsa identità sotto cui si cela il marinaio Thomas e la sua voglia di vendetta.

La seconda parte simboleggia “quelli che si spingono dentro il mare” e narra, attraverso una digressione, la tragica e sventurata vicenda dei naufraghi della fregata Alliance. La terza sezione fa riferimento a “quelli che dal mare riescono a tornare vivi” e racconta di come tutti i personaggi sopravvivono alla locanda Almayer e a quello che per loro rappresenta, non tutti raggiungeranno il proprio obiettivo ma in un modo o nell’altro arriveranno alla salvezza agognata e a una maggiore conoscenza di sé. A chiudere le vicende dei protagonisti la scoperta dell’ultimo ospite, rimasto nascosto per tutto il tempo nella stanza numero sette. È uno scrittore inquieto, un alter ego del narratore, anche lui, come gli altri ospiti della locanda, schiavo di un sogno: dire il mare.

Consapevole del proprio tentativo e del suo successivo fallimento, fa le valige, abbandona la propria stanza  e si rimette in cammino. Dopo l’abbandono dell’ultimo ospite, ormai solo un’ombra in lontananza, la locanda Almayer e la spiaggia scompaiono sgretolandosi, mostrandosi ancora una volta non come un luogo di questo mondo ma come un frutto della mente del lettore,  si sgretolano volando via in milioni di frammenti che si librano in aria, leggeri di una leggerezza che pervade tutto il romanzo. Le storie dei personaggi, gli intrecci, i paesaggi, tutto sembra sempre appena accennato, privo di quella pesantezza che gli consentirebbe di posarsi e di attecchire, con l’utilizzo degli stessi artifici tecnici di Castelli di rabbia come l’uso del corsivo e i  sospensivi che indicano i silenzi.

Non a caso i protagonisti sono tutti in viaggio, solo di passaggio a Quartel, che non è né punto di partenza né di arrivo, centro di smistamento delle anime che indica la via per poi proseguire. Il mare è fonte battesimale di una nuova vita, il mare è divinità pagana a cui affidare le proprie pene, il mare che non ha né inizio né fine, il mare che non si può dire. Il mare che invita a non avere limiti e a provare nostalgia e pena verso il passato, carico di rimorsi dettati dalla paura di vivere davvero. Terminato il proprio compito, la locanda Almayer può dissolversi.

Baricco si avvale di  una scrittura ricca di discorsi diretti fulminei, di pause, del “flusso di coscienza”, di illusioni che confinano con le disillusioni, di flashback e di continui cambi di ritmo, di colori e di tante sfumature, a tratti anche di pomposità, ariosità probabilmente inducendo qualche lettore a pensare che si tratti di ostentazione, vista l’attitudine da parte dello scrittore a giocare con le parole, mentre altri troveranno il linguaggio sofisticato dell’autore molto suggestivo. Sublime o puro esercizio di stile?

Castelli di rabbia, di A. Baricco

Castelli di rabbia è la prima opera narrativa di Alessandro Baricco, edita dalla casa editrice Rizzoli nel 1991 e vincitrice del Premio Campiello e del PrixMédicisétranger 1995. Il titolo ha una duplice valenza semantica: l’immagine del castello rappresenta i sogni infranti, la tendenza utopica all’infinito, tipica dell’infanzia, che inesorabilmente termina in un abisso di dolore e nell’inevitabile scontro traumatico con la realtà; la rabbia è una componente caratteriale di tutti i personaggi della storia, elemento che viene sottolineato da un linguaggio molto forte e, sovente, da scene di grande intensità. Ne è un esempio l’episodio della morte del signor Andersson, socio in affari e amico del protagonista, il Signor Rail:

“Addio, signor Rail. Un buio nero, da non vederci a bestemmiare. – Addio, Andersson. Il vecchio Andersson morì con il cuore spaccato, quella notte stessa, mormorando una sola, esatta, parola: Merda”

Il romanzo è permeato da un forte positivismo che, in maniera quasi ossimorica, non si basa sulla Ragione ma sembra legato all’ambito metafisico. In questo romanzo, più che nelle altre opere di Alessandro Baricco, si respira l’aria del progresso propria dell’Ottocento, l’attrazione verso la scienza e i prodotti dell’industria, che non sono usati, come si potrebbe immaginare, per semplificare la vita e avvicinarsi alla modernità, (sono infatti opere prive della benché minima utilità pratica), bensì per concretizzare l’irrealistica tendenza all’infinito. Il progetto della locomotiva Elisabeth prevede che viaggi su 200 km di rotaie perfettamente diritte senza condurre in alcun luogo preciso, senza dunque fermarsi in nessuna stazione, il Crystal Palace di Hector Horeau è un palazzo di vetro che non mira a rivoluzionare le tecniche architettoniche con l’utilizzo di ferro e vetro, senza più limitarsi a calce e mattoni, ma serve ad intrappolare la luce in modo che chi vi entri possa sentirsi al chiuso e all’aperto al tempo stesso, a contatto con il mondo eppure distante oltre un vetro. L’opera, divisa in sette capitoli, è ambientata nell’immaginaria Quinnipak, un non-luogo al pari della Locanda Almayer, paese all’interno del quale si snodano le vicende dei personaggi, presentate a frammenti, intrecciate l’una all’altra eppure distanti, cariche di significato simbolico eppure incomprensibili fino al capitolo finale, con un metodo per cui ogni personaggio sta nella narrazione come un bottone sta nell’asola.

Nelle ultime pagine, per le quali lo scrittore adopera una tecnica di scrittura mutuata dal cinema, si inquadra la narratrice, fino a quel momento rimasta in disparte come una voce fuori campo, e la si vede spiegare che la storia, i personaggi, la stessa Quinnipak, altro non sono che invenzioni della stessa per sfuggire alle proprie sventure, un modo per rifugiarsi nella fantasia e non pensare al presente. Eppure, se per i personaggi da lei inventati non c’è lieto fine, né soddisfazione, per lei la storia viene lasciata in sospeso, dando come unica speranza la parola America, e forse proprio lì la protagonista troverà una vita vera alla fine di un lungo viaggio, sia fisico che metaforico.

Evidente è lo stretto legame che intercorre fra Castelli di rabbia e il monologo teatrale Novecento, pubblicato nel 1994: anche qui troviamo il sogno americano e la componente musicale attorno alla quale si snoda la trama, in Novecento è opera del pianista Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, in Castelli di rabbia è legata alla figura di Pekish, grande musicista di note inesistenti e inventore di un nuovo strumento: l’umanofono. Le storie dei personaggi, il signore e la signora Rail, Pekish, Penht, Hector Horeau, Mormy, la vedova Abegg, sono costruite come le strade di un labirinto, che si snoda a partire da un centro. Il centro per Castelli di rabbia è la scena del giorno di San Lorenzo, momento in cui le due bande, partendo da poli opposti, si incontrano al centro del paese; è un processo a matrioska che secondo un espediente narrativo composto da flashback (analessi ) e flashforward (prolessi), da finzione e realtà, che è anch’essa finzione, si pone a più livelli di analisi e su più linee temporali e spaziali, in un gioco di incastri tipico dello stile di Alessandro Baricco. Il percorso psicologico per raggiungere l’agognata chimera porterà ai personaggi nient’altro che sventura: Hector Horeau e Pekish prede della follia, Il signor Rail della miseria e della solitudine. Eppure dalla loro disgrazia rinasce una nuova vita, come una fenice dalle proprie ceneri, o meglio si crea una possibilità di vita. Aspettarsi che il finale di un’opera di Baricco sia chiuso e definito senza essere preda delle più svariate e personali interpretazioni? Questa è un’altra chimera.

Senza sangue, di Alessandro Baricco

“…Capiva solo che nulla è più forte di quell’istinto a tornare dove ci hanno spezzato, e a replicare quell’istante per anni.”

Senza sangue, il romanzo, scritto da un Baricco che mostra attenzione per ogni parola, viene pubblicato nel 2002. Edito da Rizzoli, tocca, in modo immediato, i punti più alti delle classifiche letterarie. L’opera si divide in due parti, “Uno” e “Due” ed è  incentrato sulla figura di Nina, figlia del proprietario della fattoria di Mato Rujo.

Esistono, nella vita di ogni essere umano, momenti che ti spezzano, che ti lasciano lì, rannicchiato in un angolo, senza un perché, senza un motivo, senza la forza di andare avanti, di andare oltre. Nina, in quell’età dove l’unica cosa da fare dovrebbe essere sognare, assiste inerme alla fine di una vita e poi di un’altra ancora. Ed è così che si spezza la sua. Un istante, un attimo, pochi secondi, il rumore di uno sparo, un’esplosione diritta al cuore e tutto finisce.

La prima parte si svolge proprio in quella vecchia fattoria, dove Nina, ancora bambina, è protagonista passiva di ciò che le accade attorno. Costretta ad assistere, nascosta ed impotente, all’assassinio del padre e del fratello da parte di un commando in cerca di vendetta, scampa all’eccidio grazie ad una botola dove il padre le aveva detto di nascondersi, dentro la quale rimane rannicchiata.

All’interno della seconda parte, Nina, ormai cresciuta, ritrova Tito, uno di componenti di quell’efferato delitto a cui anni prima aveva assistito. Lo stesso Tito sarà invitato in un caffè dalla nostra protagonista a ricordare il passato. Lo scopo ultimo di Nina sarà tornare indietro, fino a giungere a quell’episodio che segnerà profondamente la vita di entrambi.

Qualcosa, al termine della narrazione, colpirà il lettore come un pugno allo stomaco. Un’immagine, una serie di parole e scene che si costruiscono nella mente e che difficilmente la lasceranno. Nina inviterà uno stupito Tito in un albergo per fare l’amore, ritrovandosi ad assumere la stessa posizione rannicchiata che tanti anni prima l’aveva preservata dalla morte. Un ritorno al passato, ancora una volta, un ritorno a quella notte, quella notte in cui tutti ha avuto una fine. Una notte in cui, di inizi, non ce ne sarebbero più stati.

Alessandro Baricco, scrittore controverso e spesso stroncato dalla critica, in una serie quasi infinita di “scatti fotografici”, in una descrizione di eventi che porta il lettore a “divorare” immagine dopo immagine un racconto che lascia senza parole, ci porta in quel luogo dove ognuno di noi ha visto spezzare il proprio legame con i sogni. E cosa ci resta dopo se non la ricerca di una vendetta che dia almeno un senso, ancora uno, a quella vita spezzata? Ma Nina non cerca vendetta, cerca un ricordo, cerca “quell’assurda fedeltà all’orrore”, forse un perché di quel legame incomprensibile con colui che, la vita, gliel’ha rubata troppo in fretta.

Così siamo lì, accanto a Nina. Quella bambina che vede la propria vita spezzarsi; è inerme, silenziosa, rannicchiata in un angolo oscuro dal quale non saprà più far ritorno. E ancora lei, Nina, adulta, matura, che forse cerca vendetta, forse, solo quella conclusione per poterla vivere ancora, per poterla vivere ora, per la prima volta, quella vita spezzata tanti anni prima.

C’è tutto nell’opera di Baricco: tecnica narrativa, parole e immagini costruite a dovere che trascinano il lettore in ogni singolo fotogramma che nasce. Uno stile sobrio, diretto, per un romanzo molto breve, che crea una storia in cui il pubblico può entrare e crescere, capire, stupirsi, porsi domande a cui forse non si troveranno risposte.

E una conclusione degna del più grande Baricco, un grande scrittore; un’opera degna di nota.

Pagina dopo pagina, istante dopo istante, ricordo dopo ricordo, ci immergiamo, poi, in quel momento finale, in quella pace assoluta. Il ricordo di chi ti ha strappato alla vita, il pensiero e, forse, la certezza, che quel qualcuno sia l’unico essere in grado di ridarci ancora una respiro che non sia amaro.

Di Gabriella Monaco.

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