Intervista a Ilaria Palomba, autrice di ‘Vuoto’, presentato al Premio Strega 2023

Leggere Vuoto, il nuovo libro della scrittrice pugliese Ilaria Palomba, è come addentrarsi in vari punti indefiniti dell’io, percorrere la via incandescente della Letteratura, vivere una profonda esperienza emotiva.

Tuttavia si ha l’impressione che dietro la scrittura cruda di Palomba si celi una solida disciplina intellettuale (dovuta ai suoi studi) che contribuisce alla riuscita dell’opera, lucida e di grande impatto sul lettore. Un’opera che è fragile e abissale, in cui l’autrice fa emergere l’inconscio e il rimosso che reclamano la loro parte di vita. Come Sylvia Plath, Ilaria Palomba si sottrae alla vita, al mondo ostile impastando delicatezza, sangue e sensazioni urticanti; come Amelia Rosselli, la prosa poetica di Palomba è musicale, densa, affascinante, disturbante.

Vuoto, edito da Les Flaneurs ha per protagonista Iris, trentenne che ha da poco festeggiato il suo compleanno con Federico; entrambi hanno un disturbo di personalità e insieme parlano di vari argomenti oltre che delle loro paure. Si amano, si sposano, confliggono. Compare Giulio, presenza costante, quasi fosse un fantasma. I personaggi sono in un appartamento romano, poi in un altro luogo, poi in Salento. Iris è molte vite, passato e presente che si alternano in un flusso che trasporta il lettore in molti posti, in strade fisiche, a Conca Specchiulla, in via Accademia degli Agiati, in luoghi dell’animo che si alternano in un ciclo di stagioni: estate, fine dell’estate, autunno, inverno, fine dell’inverno, primavera, estate, senza tempo. Il vuoto, appunto.

Il Salento è un luogo interpretato da Ilaria Palomba, filtrato dall’inconscio dell’autrice che dà vita ad una scrittura cruda e diamantina, popolata di visioni, sensazioni, percezioni, che è tessuto vivo, corpo rivelatore vivente e morente, vulnerabile e miracoloso.

La vocazione di Ilaria Palomba, la quale, non sentendosi investita di un compito, scrive per se e poi per gli altri, è quella dell’artista atemporale, fisionomia che la renderà sempre attuale, a differenza di molti scrittori italiani perennemente sotto tiro dei grandi poli editoriali, malati di narcisismo e salottismo.

Vuoto dimostra che i libri possono ancora essere materia incandescente e pericolosa, che le idee comportano una scelta, e soprattutto insegna a non avere paura di niente, mostrando come il Cervello sia più ampio del Cielo, parafrasando un verso di Emily Dickinson.

Ilaria Palomba è una scrittrice, saggista e poetessa pugliese. Ha pubblicato: Fatti male (Gaffi, 2012: tradotto in tedesco), Homo homini virus (Meridiano Zero, 2015: premio Carver), Disturbi di luminosità (Gaffi, 2018), Brama (Giulio Perrone Editore, 2020), Città metafisiche (Ensemble, 2020), Microcosmi (Ensemble, 2022). Alcuni dei suoi racconti sono stati tradotti in lingua straniera, come inglese, francese e tedesco.

 

1 Come nasce “Vuoto”?

Nasce nel 2020, contemporaneamente a L’umana fragilità, che uscirà l’anno prossimo per d editore. In teoria, L’umana fragilità sarebbe dovuto essere un romanzo per il pubblico e Vuoto un testo personale di annotazioni sulla vita e sulle letture che stavo facendo. Poi, una serie di vicissitudini, non ultimo il mio incidente e la permanenza di sette mesi in ospedale tra rianimazione e unità spinale – Vuoto nel frattempo era diventato un testo molto più complesso di quanto credessi -, ho deciso di pubblicarlo al primo sì: quello di Annachiara Biancardino e Alessio Rega di Les Flaneurs.

2 Qual è la sua visione del mestiere di scrittore?

Non lo so, ho sempre tentato di fare in modo che diventasse un mestiere, ma ogni volta per me si è trattato di un esordio che non superava un certo numero di vendite per cui il libro successivo sarebbe stato un nuovo esordio. Ho compreso che il mio modo di scrivere è di nicchia, devo puntare sull’autorialità non sulle vendite. Non può essere un mestiere perché non mi permette un rientro economico sufficiente. Dunque, per me la scrittura è una vocazione, l’ascolto e la trasmissione di una voce. Non un compito. Non scrivo ogni giorno, e potrei non scrivere per anni. Senza quella sacra necessità non lo farei.

4 Qual è stata la sua ultima scoperta esistenziale, spirituale, letteraria, mentre scriveva Vuoto?

Mentre scrivevo Vuoto leggevo Musil, imparavo la lentezza, l’osservazione. Praticavo il buddismo di Nichiren, che ora ho abbandonato. Vivevo tutto come una rivelazione, un dono. Scoprivo me stessa; la scrittura del sé porta alla coscienza realtà invisibili e indicibili. È emerso il sommerso.

5 Sembra che questo suo ultimo libro rappresenti una sorta di preludio ad un nuovo lavoro che affronti che conduca il lettore in un luogo “meno sospeso”, è così?

Dopo Vuoto uscirà L’umana fragilità per d editore, che è un romanzo epistolare basato sulla storia di una donna che ho intervistato. Nel frattempo, in unità spinale, ho scritto una silloge che non so se sarà mai pubblicata, ma è stato catartico scriverla
per affrontare la lunga degenza ospedaliera e la paura di perdere l’uso delle gambe. È una silloge che racconta una rinascita, in un certo senso, un miracolo.

6 <<Dentro le cose vive ci sono le cose morte e dentro le cose morte ci sono le cose vive. Non si può prescindere dalla vita nella morte, oltre è il vuoto>>, si legge nel suo libro. E’ questo il tratto principale della realtà secondo lei? Per evitare il vuoto bisogna tuffarsi nel dolore?

No, non bisogna tuffarsi nel dolore, anzi, io penso che il dolore vada quanto più possibile evitato; ma non sempre è possibile. Se vogliamo, è l’opposto: il vuoto si raggiunge dopo una involontaria eccessiva immersione nel dolore, non sempre siamo noi a decidere. Vita e morte non sono mai del tutto separate, la vita è intrisa di morte e viceversa; talvolta i morti sono più presenti dei vivi. Il vuoto non si può evitare, bisogna piuttosto attraversarlo così come si attraversa il deserto o l’abisso: la linea d’ombra oltre la quale si diventa maturi.

7 Si può annichilire il nichilismo?

Per me il nichilismo è sempre stato una via di fuga da un mondo ostile. Io vivo bene solo separata, nel mio eremo. Stare con gli altri mi è possibile solo a piccole dosi. Per superare il nichilismo bisogna potersi fidare, e per potersi fidare è necessario che l’altro si avvicini a noi con delicatezza e umanità.

8 Che rapporto ha con l’inconscio? Perlustrarlo è faticoso ma utile o è impossibile comprendere totalmente la propria psiche e raggiungere maggiore consapevolezza di se?

Sono un’eterna analizzata, quindi ho scandagliato l’inconscio in diverse sfaccettature, e lo faccio quando scrivo, mi viene spontaneo. Sì, ho raggiunto mediante la scrittura una consapevolezza che prima non avevo. Eppure, la consapevolezza non è tutto. È necessario anche il rapporto con il corpo: per me è sempre stato un problema, ora più che mai. La consapevolezza non basta, è necessario poter essere nel mondo e sentire per scrivere, soprattutto sentire.

9 La sua scrittura è visionaria, priva di retorica, cruda, a tratti sanguinante. Si tratta di una scelta deliberata, frutto di raziocino o la naturale “conseguenza stilistica” di una insofferenza nei confronti della realtà da restituire alla parola?

Non sono realistica, non sono narrativa, non sono una divulgatrice di fatti. Penso nietzscheianamente che non esistano fatti, solo interpretazioni. Tutta la mia scrittura è una scrittura di visioni e interpretazioni, un lavoro analitico, un inabissamento nell’inconscio e nell’onirico. Non esistono fatti, quindi non esistono neanche fatti miei; ciò che scrivo attinge alla sfera del profondo ma è sempre universale, uno specchio deformante della realtà, non la realtà, non la mia. La vita è solo un pretesto.

10 Vuoto è stato presentato al Premio Strega 2023. Cosa pensa in generale dei premi letterari in Italia e dell’editoria?

Per arrivare in finale bisogna essere pubblicati da un grande gruppo editoriale, per entrare nei dodici bisogna conoscere un po’ di persone. Io sono un’eremita, essere stata presentata dalla professoressa Donnarumma è per me una sorpresa e un onore. Nel 2015 vinsi il premio Carver con Homo homini virus (Meridiano Zero) senza conoscere nessuno. Quest’anno sono finalista al Nabokov con la silloge Microcosmi (Ensemble). Degli altri premi non so molto.

 

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Ilaria Palomba: Libri dell’autore in vendita online (ibs.it)

‘Tempo d’opera’, l’ultima raccolta poetica di Alberto Toni, allievo di Penna e Rosselli

Al momento della sua scomparsa, Alberto Toni stava lavorando a un nuovo libro di versi, del quale aveva già potuto abbozzare la struttura e decidere il titolo. Quella che congediamo per i lettori è dunque una raccolta che si presenta con una evidente omogeneità e compattezza, com’è nella prassi di questo poeta, anche se l’autore non è riuscito a porvi fine. Tempo d’opera è un compendio, forse un testamento; vi sono
compresi tutti i principali temi di un incessante interrogarsi attraverso la poesia, dalla natura e dal senso dell’essere alla meditazione sociale e politica, alla visione etica sui problemi del presente, fino ai fragili equilibri del corpo.

Sono temi che nel loro insieme dialogano fittamente in una rete inscindibile, venendo così a comporre quell’«opera» che resta, infine, il rapporto privilegiato tra vita e scrittura, tra esperienza e pensiero, tra ascolto dell’altro e lavoro su sé stessi, come accade negli autori votati a una sicura consapevolezza della propria presenza e della propria necessità. A questi valori, nel pieno delle derive postmoderne, Toni non è mai venuto meno, facendo ascoltare la sua voce, restando fedele al lascito dei maestri, da Sandro Penna ad Amelia Rosselli, e affermandosi come uno dei poeti di riferimento a cavallo del millennio, non solo in ambito romano.

Più non cedeva all’ombra, che è morte sopra ogni cosa viva. Via, dunque, al riparo sotto il fogliame, al margine pericolante e inquieto, ma vivo, appena raggiunto. Era solo una figura celeste alla luce del primo mattino, spariva dove nessuno aspettava che finisse.

Alberto Toni (1954 – 2019) è vissuto a Roma, dove ha insegnato materie letterarie nelle scuole. Ha esordito come poeta nel 1987 con la raccolta La chiara immagine (premio L’isola di Arturo – Elsa Morante), a cui sono seguite Partenza (1988), Dogali (1997, premio Sandro Penna), Liturgia delle ore (1998, premio Eugenio Montale), Teatralità dell’atto (2004, premio Pasolini), Mare di dentro (2009), Alla lontana, alla prima luce del mondo (2009), Democrazia (2011), Vivo così (2015), Il dolore (2016), Non c’è corpo perfetto (2018). Una scelta delle sue poesie, Selected Poems 1980-2010, è apparsa in traduzione inglese negli Stati Uniti (2014). Ha pubblicato inoltre alcuni libri in prosa: Con Bassani verso Ferrara (2001), Quanto è lungo il sempre (2001), L’anima a Friburgo (2007), Livorno (2016). Come critico letterario ha collaborato a numerose riviste e periodici e ha scritto testi per il teatro.

‘Codice terrestre’ di Gabriela Fantato, un viaggio verso l’ignoto all’insegna della polisemia

Per chi è abituato alle canzonette con un’ottica molto superficiale e approssimativa Gabriela Fantato sembrerebbe scegliere il caos all’ordine, l’entropia alla sintropia. In realtà la poetessa sceglie di attingere talvolta dell’inconscio perché è lì  in cui si trova l’amalgama tra impulso vitale  e verità, nella sfera razionale disgiunti e contrapposti.

Ma questo non significa che si abbandoni completamente all’inconscio. C’è una coscienza e con essa un ottimo gusto letterario che sorvegliano, censurano, vigilano sempre. È una poesia densa, complessa, denotata da una grande ricchezza lessicale. La Fantato spicca per la sua bravura nel saper miscelare astratto e figurativo, psichico e somatico, così come nel saper interfacciare l’io e il mondo.

Codice terrestre (La vita felice, 2008) ha tra le sue qualità più di altre la polisemia e l’ambiguità. D’altronde i freddi razionalisti non si imbattono facilmente nelle aporie, nei paradossi e nelle contraddizioni? La via scelta dalla Fantato non è quella della assertività. La poetessa non sceglie neanche la metafisica, la discorsività della coscienza oppure la moltiplicazione/frammentazione dell’io. La poesia in questione non è tutta di testa e neanche tutta di cuore.

Finisce invece per esserlo pienamente di entrambi. Non è intellettualistica né strappalacrime. Allo stesso tempo non c’è neanche traccia di autocompiacimento. Codice terrestre è testimonianza senza essere per forza un patetico grido di dolore. Con questo ottimo lavoro la Fantato dimostra anche di aver saputo ascoltare la parte più profonda di sé stessa.

Probabilmente è sempre stata in attesa per cogliere l’inaspettato che facesse capolino dalla sua interiorità oppure che gli oggetti si manifestassero come entità per dirla in termini metafisici. Ma c’è di più: è anche alla ricerca della sua Ombra per dirla alla Jung e per trovarla deve essere in presenza della luce, che fuor di metafora è la coscienza. Non c’è altra soluzione. La Fantato parte dalla sua esperienza e procede verso l’ignoto. In questi versi si alternano pensieri ed immagini.

La poetessa procede per intuizioni inconsce, che di volta in volta vengono filtrate dalla mente razionale. Non si tratta di quel che comunemente si definisce insight perché non hanno a che fare con il problem solving. Talvolta si usa l’espressione “salto logico”. In questo caso invece parlerei di salti inconsci e dei loro contenuti emotivi. Sono cortocircuiti linguistici scaturiti dall’incontro tra conscio e subconscio.

Non sono però lapsus come quelli della Amelia Rosselli.  In questa raccolta l’autrice non si aggrappa neanche al significante come invece fanno Zanzotto e i suoi epigoni. Non ci sono neanche battute di spirito. Sono materiali dell’inconscio trattati con il massimo possibile dell’oggettivazione.

Gabriela Fantato getta un ponte quindi tra conscio ed inconscio. Le immagini descritte sono appartenenti spesso all’inconscio e a questo riguardo bisogna ricordare che per Jung noi abbiamo sempre la responsabilità di capire le immagini provenienti dalla parte più enigmatica di noi stessi. Le parole della Fantato talvolta sono le parole dell’inconscio e quindi non bisogna stupirsi se il linguaggio sia simbolico o se altre volte sia analogico.

Ognuno cerchi a sua volta un significato latente. Ciò non significa necessariamente cercare significati sessuali. Non dimentichiamoci che Freud è stato accusato più volte di pansessualismo. Comunque l’inconscio viene sempre controllato e sorvegliato dall’autrice; infatti non è mai debordante, non prende mai il sopravvento. Ciò che viene estratto dal profondo è solo la punta dell’iceberg, ma non potrebbe essere altrimenti: nessuno può accedere ed esplorare totalmente la nostra parte più atavica e remota. La stesura di questi versi probabilmente è stata catartica.

Per la Fantato l’inconscio non è un sottosuolo abominevole ma un luogo di sé  stessi dove privilegiare il potere rivelatore delle immagini e della parola. D’altronde per essere spirituali si può solo prendere due strade: elevarsi verso Dio o scavare dentro sé stessi.

Codice terrestre è una raccolta notevole, di qualità poetica elevata soprattutto perché l’autrice formula in modo magistrale sia alcune leggi dell’animo che alcune leggi generali della vita, anzi per dirla con le sue parole riesce molto bene a descrivere “la forma della vita” con espressioni poetiche felici: “Luce, c’è tanta luce oggi./ Entra in casa, viene a cercarmi/ dove la corteccia cerebrale è/ sale e acqua./ Un ramo in attesa con tutto il corpo.”; “Forse c’è un segreto che non so/ dove la corteccia si piega,/ abbraccia il legno e i nodi.”; “Un battere e levare tiene/ l’oscuro giardino dei vivi”; “la materia parla ostinata, a sottintesi.”; “I coltelli non sono armi,/ sono solo il taglio della carne.”; “Forse è amore questo o solo/ ritmo della specie/ nella sintassi dei corpi.”; “Saremo dentro la terra alla fine/ e il perdono – debito non saldato/ piegato nella pelle.”; “forse tutto sarà chiaro,/ una sera come tante e verrà la fine/ nel giro di poche ore.”).

Ma ci sono altrettante espressioni felici della propria condizione psicologica (Ho scavato una grotta/ per la solitudine e la preghiera/ non scordata mai, non saputa/ se non nel grido.”; “Sotto, più giù dentro i cunicoli,/ nel nero che assedia/ le ginocchia/ si chiude il cerchio, la parola/ consumata all’inizio/ – non ho più occhi.”).

La poetessa parla dell’amore con le sue contraddizioni (“Chiamo le tue mani/ a strapparmi i fianchi,/ a dirti – ci sono./ I fogli si aprono casti alla menzogna/ e l’abbraccio non monda la paura./ Tu mi dai lo specchio/ per questa debolezza. “). Ultimo ma non meno importante la prefazione è del grande poeta Milo De Angelis. Codice terrestre è la riprova che Gabriella Fantato rappresenta una voce originale e autorevole della poesia italiana.

 

 

 

 

 

Libertà, ricerca e musicalità nella poesia di Amelia Rosselli

Un linguaggio frantumato e oscuro caratterizza l’appartata esperienza poetica di Amelia Rosselli che si distingue però per un’intonazione appassionata, rara nel secondo Novecento. Non può seguire studi regolari, costretta a trasferirsi con la famiglia dalla Francia all’Inghilterra, ma acquisisce una piena padronanza di tre lingue (italiano, francese e inglese); forse anche per questa sua formazione internazionale Amelia Rosselli risulta estranea alla tradizione italiana e continua senza sosta a coltivare l’idea precisa e dichiarata di una lingua poetica universale, come universale è la musica. In tal modo punta al cuore della sua personale ricerca e ne scandaglia l’esperienza sofferta nel corpo e nella psiche.

Traumatica deve essere stata la vita da “rifugiata” che iniziò a condurre sin dall’omicidio del padre Carlo Rosselli, esule antifascista, fondatore di Giustizia e Libertà e teorico del Socialismo Liberale, e del fratello di lui, Nello, assassinati da sicari fascisti. Amelia, nata nel 1930, ha appena sette anni ed è ovvio che questa vicenda la segni in maniera indelebile, come la segna il devastante rapporto con la madre Marion Cave. Viaggia tra l’Europa e gli Stati Uniti: «Non sono “apolide”» – precisava in un’intervista rilasciata a Spagnoletti, nel 1987 – «Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito […] perché era stato condannato per aver fatto scappare Turati. Mia madre lo aiutò a fuggire e quindi lo raggiunse a Parigi. […] Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati» (1987/2004, p. 9). Negli anni Sessanta si iscrive al Partito Comunista Italiano, mentre i suoi testi attirano l’attenzione, tra gli altri, di Pasolini e di Zanzotto. È Pasolini a presentare nel 1963, sulla rivista letteraria “Il Menabò”, diretta da Italo Calvino, una prima scelta di Variazioni belliche della Rosselli, preparazione all’edizione in volume dell’anno successivo, edito dalla Garzanti; è sempre Pasolini a definire la sua scrittura poetica come ‘scrittura di lapsus’: versi fatti di distrazione, caratterizzati da «una grammatica di errori nell’uso delle consonanti e delle vocali».

Soffiati nuvola, come se nello
stelo arricciato in mia bocca
fosse quell’esaltazione d’una
primavera in pioggia, che è il
grigio che ora è era appeso nell’aria…
… E se paesani
zoppicanti sono questi versi è
perché siamo pronti per un’altra
storia di cui sappiamo benissimo
faremo al dunque a meno, perso
l’istinto per l’istantanea rima
perché il ritmo t’aveva al dunque
già occhieggiata da prima.
(da Impromptu, 1981)

Amelia Rosselli e la malattia

Il tema dei lapsus, Pasolini aveva comunque precisato, «è un piccolo tema secondario rispetto ai grandi temi della Nevrosi e del Mistero che percorrono il corpo di queste poesie», quindi ne ridimensiona la rilevanza e individua nello stile di Amelia Rosselli una dimensione tragica e dissacrante, che unisce registro alto e basso, lingua del passato e del presente, trasversalità e scardinamento di regole e misure. Insomma, una scrittura pericolosamente libera. Disse bene, anni dopo, il critico Pier Vincenzo Mengaldo a proposito della lingua della Rosselli, definendola: «un organismo biologico, le cui cellule proliferano incontrollatamente in un’attività riproduttiva che come nella crescita tumorale diviene patogena e mortale». Il disagio esistenziale della Rosselli si riflette nella sua opera e sarà lei stessa a raccontare in forma di prosa poetica i suoi vent’anni di vita: il solitario arrivo a Roma, l’incontro con Rocco Scotellaro, in una relazione sempre rimasta ambiguamente in bilico tra l’amore e la grande amicizia. Poi la morte di lui e l’inizio di un periodo di oscuramento progressivo della memoria e della ragione, peregrinando fino alle campagne fangose di Matera in cerca del fantasma del perduto amico/innamorato morto. Quando Amelia Rosselli morì, l’11 febbraio 1996, gettandosi dalla finestra del suo appartamento romano di via del Corallo, si pensò che quel suicidio avesse posto termine a un lungo silenzio creativo, ulteriore dolorosa ferita in una vita segnata dalla malattia mentale. Una malattia che, come ha sottolineato il cugino, Aldo Rosselli, «fa parte della sua voce, della sua voce vera, della sua voce interna, ma anche esterna, quella delle sofferenze che ha affrontato nella vita».

In realtà in quel periodo Amelia Rosselli aveva appena ricominciato a scrivere, in inglese e in italiano, con il bilinguismo tipico della sua opera matura. Molti critici infatti, valutando la quantità di elementi di disagio, malinconia, depressione, nevrosi di cui le poesie sono colme, concordano nel sostenere che quello di Amelia Rosselli sia stato un suicidio, lentamente, gradatamente preannunciato nei suoi versi, con una particolarità ulteriore e singolare: Amelia Rosselli scelse di togliersi la vita l’11 febbraio, esattamente come la poetessa Sylvia Plath, autrice da lei tanto studiata e tradotta con passione. Sul suicidio di Silvia Plath, posto in relazione al rapporto con la madre, Amelia dice: “noi possiamo anche accusare la madre, non è certo la madre che deve essere ritenuta responsabile, ma la società, una società terapeuticamente ignorante, meccanicistica e, quello che è peggio, una società incosciente nel suo matriarcato di stampo capitalistico”.

ARIEL
di Sylvia Plath

Stasis in darkness.
Then the substanceless blue
Pour of tor and distances.
God’s lioness,
How one we grow,
Pivot of heels and knees! – The furrow
Splits and passes, sister to
The brown arc
Of the neck I cannot catch,
Nigger-eye
Berries cast dark
Hook –
Black sweet blood mouthfuls,
Shadows.
Something else
Hauls me through –
Thighs, hair;
Flakes from my heels.
White
Godiva, I unpeel –
Dead hands, dead stringencies.
And now I
Foam to wheat, a glitter of seas.
The child’s cry
Melts in the wall.
And I
Am the arrow,
The dew that flies
Suicidal, at one with the drive
Into the red
Eye, the cauldron of morning.

(traduzione di Amelia Rosselli)
Stasi nell’oscurità.
Poi gli azzurri insostanziali
Versano cime e distanze.
La leonessa di Dio,
Come uniti cresciamo,
Perno di tacchi e ginocchia! – Il solco
Si spacca e passa, sorella al
Bruno arco
Del collo che non posso fermare,
More dal negro occhio
Spargono cupi
Ganci –
Boccate nere di dolce sangue,
Ombre.
Qualcos’altro
Mi tira in aria –
Cosce, capelli;
Scaglie dai miei tacchi.
Bianca
Godiva, io mi sbuccio –
Mani morte, urgenze morte.
E ora io
Schiumo come grano, uno scintillio di mari.
Lo strillo del bambino
Si fonde nel muro.
E io
Sono la freccia,
La rugiada che giace
Suicidale, una con la spinta
Nel rosso
Occhio, la fucina del mattino.

Una lingua intellettuale, espressione del privato e dell’autenticità

L’inglese è per Amelia Rosselli territorio femminile/materno come apertura a spazi del ‘sentimento’, ma è anche una lingua intellettuale, una lingua che è acquisita e che le è più familiare nelle modulazioni di padri o madri elettivi, come Donne, Shakespeare, Joyce, Thomas, Cummings, Woolf, Dickinson, Plath e tanti altri. Questa condizione plurilinguistica di base, connaturata con le difficili esperienze vissute, costituisce la radice antropologica delle poesie della Rosselli, che, in un saggio nel 1962, Spazi metrici, ha così dichiarato: «la lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica e associativa è certamente quella di molti popoli, e riflettibile in molte lingue». Per Amelia Rosselli la poesia è il terreno su cui si scontrano due opposti aspetti del linguaggio: da un lato, il linguaggio è espressione del privato, dell’autenticità, dell’interiorità; ma dall’altro lato, non appena esso entra nel circolo della comunicazione sociale, diventa falso. Il suo punto di forza è la competenza musicale che ha favorito nella Rosselli la ricerca di una nuova metrica, dove il valore fonico delle sillabe, delle vocali e delle consonanti, il ritmo della frase finiscono per prevalere sul significato e sulle forme consuete della lingua: questo comporta l’invenzione di parole, la polivalenza del significato, la presenza di metafore oscure che dicono le cose mentre le celano, e, non ultima l’esigenza che la poesia sia detta ad alta voce, ascoltata più che letta. Musica, ritmo, suono, contaminazione delle lingue, ricerca di sempre nuovi sensi da comunicare: forma e significato sono elementi altrettanto imprescindibili e altrettanto curati nel fare poetico di Amelia Rosselli.

L’opera Documento vede la luce con grande fatica nel 1976; ed è la testimonianza della crisi della poesia che non si configura più come ricerca dell’assoluto e di una forma in grado di decifrare il senso del mondo, ma come testimonianza della vita, che è il rovescio della poesia, quello che resta in assenza di poesia. Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, Documento è del resto concepito e programmato come libro conclusivo.
Il testo che segue, profondamente attuale, appartiene alla serie Variazioni (1960-1961):

Contiamo infiniti cadaveri

Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l’incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d’ogni male, d’ogni bene, d’ogni battaglia, d’ogni dovere
d’ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell’incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.
Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.

La dedizione dell’autrice alle passioni forti

Qui Rosselli piange il limite umano di fronte al male. Versi liberi, che hanno però una certa costanza ritmica, per quanto estranea alla metrica italiana tradizionale. Sullo sfondo di un mondo di stragi, lotte e “fandonie”, l’autrice afferma la sua dedizione alle passioni forti e autentiche, la volontà di non piegarsi ai mali e alle mistificazioni sociali, la fedeltà a una “bontà” che la relega inevitabilmente tra i “poveri”. Questa affermazione non è affidata solo al senso delle parole, ma più alla struttura formale della poesia che si presenta come un flusso traboccante di emozioni e di idee, apparentemente incontrollato. Più che dichiarata, la passione è in atto, in un tono esclamativo, e insieme ritmato come una litania, attraverso le insistenti ripetizioni. Tutto questo sembra scaturire da un livello psichico profondo, primitivo, che non può parlare una lingua ordinaria: la Rosselli svolge continuamente le regole della comunicazione normale con le volute goffaggini della lingua (“su della”, “la crudeltà a parte il gioco”, “ero fregata da esso”), con gli scarti fra lingua letteraria (“la sua stella è la mia dimora”) e volgare (“non mi fregava”) come chi si sforzasse di balbettare una lingua mal conosciuta. Il fatto che la Rosselli fosse stata educata in francese e in inglese ha una sua rilevanza, ma nel senso che questo le dava una particolare sensibilità linguistica, non nel senso che non fosse in grado di scrivere in italiano normale.

Amelia Rosselli possiamo leggerla in tanti modi, ma sarebbe riduttivo leggerla esclusivamente come una scrittura privata, anche se non si può scindere dalla propria interiorità e dalla modalità espressiva che per lei erano fondamentali. Tema ricorrente nella lirica della Rosselli è lo scontro tra la sua sofferenza esistenziale e l’indifferenza e la superficialità altrui; è uno scontro che si riflette nella sua opera di poetessa come ricerca di continua sperimentazione formale. La scrittura si propone al tempo stesso come denuncia della propria pena, la cui violenza è trasmessa dalla forzatura della lingua, e come tentativo di trasferirla in schemi geometrici e musicali. Va perciò detto che il disagio individuale di Amelia Rosselli riflette un disagio storico di portata epocale e che la poetica, fortemente innovativa nelle forme e dai toni profondamente dolorosi della Rosselli è unica, nel panorama letterario italiano, per il senso che trasmette di un coinvolgimento emotivo totale nella parola, e perché dà vita ad alcuni dei momenti più alti della sperimentazione letteraria contemporanea.

 

Fonte:

Sulla poesia di Amelia Rosselli (di M. Allo)

“I fiori vengono in dono e poi si dilatano”, viaggio nel mondo di Amelia Rosselli

Amelia Rosselli (1930-1996) è una poetessa unica nel suo genere. Aploide, disimpegnata e acattolica,  in pieno contrasto con l’Italia del suo tempo. La Rosselli nasce a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli, esule italiano e fervente idealista anti-fascista che viene assassinato, assieme al fratello, quando Amelia ha appena 7 anni.

Dopo la morte del padre e dello zio, per Amelia comincia una vita “nomade”, che la vede prima in Svizzera, in America e infine anche in Inghilterra, dove studia musica, letteratura e filosofia. Scopre l’Italia a sedici anni e vi si trasferisce permanentemente. Questo “ritardo” e questa vita da esule, lontana dal suo paese, danno alla donna una forte componente aploide, che resterà presente nelle sue opere successive.

In Italia collabora con varie riviste e lavora a varie traduzioni di autori stranieri, conoscendo intellettuali come Rocco Scotellaro, Carlo Levi e Pasolini. Comincia anche a pubblicare alcuni suoi lavori, come Variazioni belliche (1964), Serie ospedaliera (1969), Documento (1966-73). Nonostante questa fecondità letteraria ella in questi anni è turbata dalla morte della madre (1949) e da alcune vicissitudini biografiche che la porteranno a numerosi e continui esaurimenti nervosi. Fino alla fine della sua vita, nel 1996. Tra le sue opere ricordiamo: Sleep. Poesie in inglese (1992), La libellula (1985).

L’unicità della poetessa è da ricondursi oltre che alla sua storia e alla sua vita all’insegna della letteratura e della poesia, alla fondamentale caratteristica della sua opera. Il suo plurilinguismo e la sua voglia di infondere in ogni opera la musicalità e comporre una poesia come se si stesse componendo un opera musicale. Infatti si può cogliere il peso degli studi giovanili che ritorneranno sempre sotto vari aspetti nella sua variegata opera.

I fiori vengono in dono e poi si dilatano, è una poesia della raccolta Documento, e si presenta come un’osservazione e un’interpretazione della bellezza della vita e del mondo, con un pessimismo ed un amarezza sottile e cosmica:

I fiori vengono in dono e poi si dilatano
una sorveglianza acuta li silenzia
non stancarsi mai dei doni.

I fiori rappresentano un dono da fare, un dono semplice e immediato, che però riveste una profonda importanza. Il fiore viene dalla terra e della terra ha il sapore e la consistenza, così come l’uomo. Poi si dilatano perché sbocciano o perché appassiscono forse. E noi con la nostra sorveglianza, con il nostro contemplarli, facciamo silenzio nella loro vita e nella loro essenza, rendendoli semplici doni e scordandoci che essi sono anche esseri, così come può accadere con gli uomini.

Il mondo è un dente strappato
non chiedetemi perché
io oggi abbia tanti anni
la pioggia è sterile.

L’iniziale riflessione sull’allegria di ricevere un dono così semplice, ma prezioso, va sbiadendo nella triste constatazione del dolore del mondo, il mondo è un dente strappato, e il tempo passa senza neanche sentirlo sulla pelle, cambia i nostri volti senza nemmeno toccarci. E la pioggia diventa sterile, perché uccide i fiori e con essi la felicità.

Puntando ai semi distrutti
eri l’unione appassita che cercavo
rubare il cuore d’un altro per poi servirsene.

Qui il parallelo viene fatto per l’amore, il tempo tipico dei fiori, della felicità e della tristezza. Nella nostra fragilità, nei nostri semi distrutti che tentiamo di unire con altri semi distrutti per rinascere, si traduce il verso “rubare il cuore di un altro per servirsene”, infatti  allo scopo di ricreare quell’iniziale felicità tipica dello sbocciare, del tempo in cui si è finalmente completi, si cercano altri fiori con cui combinarsi.

La speranza è un danno forse definitivo
le monete risuonano crude nel marmo
della mano.

La speranza è un danno che segna indelebilmente l’anima, infatti nel desiderio di avere e nell’impossibilità di avere si prova un’infelicità che smorza ogni possibile risvolto positivo di cui si parla nella terza strofa e le monete, che rappresentano la materialità, suonano come vuote e crude nella freddezza della nostra mano ormai inumana, che non sa cosa farsene delle monete, di questa superficialità che non ci appartiene.

Convincevo il mostro ad appartarsi
nelle stanze pulite d’un albergo immaginario
v’erano nei boschi piccole vipere imbalsamate.

Il mostro, la paura, viene immaginato come appartato in una stanza d’albergo, e nei boschi sembrano esserci pericoli inesistenti. Quasi a delineare un contrasto tra l’apparente sicurezza di una camera d’albergo, comoda e tranquilla e i boschi, che sembrerebbero essere oscuri e pieni di mostri. Il nido del terrore, del “mostro” però è nella camera d’albergo, perché il mostro siamo noi stessi e la nostra irrefrenabile irrequietudine, la negazione della nostra ancestrale componente animale.

Mi truccai a prete della poesia
ma ero morta alla vita
le viscere che si perdono
in un tafferuglio
ne muori spazzato via dalla scienza.

L’amarezza ora diventa personale. La bugia coltivata nelle varie strofe precedenti esce fuori e si proclama. La poesia era diventata solo un trucco per la poetessa, che si riscopre morta, falsa e le viscere vengono spazzate via da ciò che è diventato reale e non fittizio cioè la scienza.

Il mondo è sottile e piano:
pochi elefanti vi girano, ottusi.

Il giudizio finale è profondo e aspro. Il mondo è poca cosa, è banale e sono poche le grandi cose che ha e pochi i grandi ideali che vi sono, sono pochi ed anche ottusi, che non sentono ragioni, il mondo in pratica non cambierà mai.

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