Ivano Facchetti, tra super pop e design per elevare la quotidianità

L’artista bergamasco Ivano Facchetti è tra gli artisti contemporanei italiani che vende di più, le sue opere (super)pop sono espressione di vitalità a metà tra arte e design, frutto di passione e studio. Celebre il suo Batman rappresentato nella sua ambiguità morale e iconicità.

L’arte di Ivano Facchetti, il rinomato Re del Super Pop italiano, continua a incantare e stupire il mondo con la sua straordinaria originalità e vitalità. È con grande emozione che Galimberti Home Collection, in collaborazione con Artekaos Milano, annuncia l’esposizione di alcune delle opere più iconiche di Facchetti in occasione dell’inaugurazione del nuovo spazio espositivo a San Babila, Milano.

In un’epoca in cui l’arte si fonde con il design e la creatività diventa sinonimo di innovazione, le opere di Ivano Facchetti si ergono come pionieristiche e visionarie. Ogni pezzo è un’esplosione di colori, forme e concetti che catturano l’essenza stessa della cultura contemporanea, trasformando ogni osservatore in un partecipe attivo di una narrazione unica e coinvolgente.

L’apertura di questo nuovo spazio espositivo è ancor più significativa poiché coincide con l’apertura del prestigioso Salone del Mobile 2024 presso gli spazi di Rho Milano Fiera dal 16 al 21 aprile 2024. Questo laboratorio di sperimentazione e contaminazione diventa il palcoscenico perfetto per presentare le opere di Facchetti, unendo arte e design in un connubio di straordinaria bellezza e innovazione. Le opere selezionate di Ivano Facchetti, esposte presso Galimberti Home Collection, offrono uno sguardo privilegiato nell’universo creativo di questo genio dell’arte contemporanea.

1 Perché sei definito il re della super pop, cos’è per te la super pop e cosa ti distingue dagli artisti pop soprattutto italiani?

Sono definito il Re della Super Pop perché la mia arte si distingue per l’energia e la vivacità che trasmette, catturando l’essenza stessa della cultura popolare contemporanea. Per me, la Super Pop è un’espressione di gioia, vitalità e dinamismo, che si manifesta attraverso colori vibranti e forme audaci. Ciò che mi distingue dagli altri artisti pop, soprattutto italiani, è la mia capacità di trasformare la vita quotidiana in qualcosa di straordinario, portando un tocco unico e originale al movimento. Le mie creazioni 3D vantano una storia decennale di ricerca e sviluppo, durante la quale ho dedicato anni allo studio approfondito e all’analisi dettagliata per portare alla luce ciò che prima non esisteva.

2 Vendi bene le tue opere. Chi è il compratore tipo?

Le mie opere hanno un vasto appeal e attraggono una varietà di acquirenti, ma il compratore tipo è spesso un appassionato d’arte che apprezza la freschezza e l’originalità della mia visione artistica.

Coloro che acquistano le mie opere sono attratti dalla loro energia positiva e dalla loro capacità di trasmettere emozioni forti e immediate. Collezionisti d’arte appassionati, amanti della cultura pop, e professionisti del settore artistico sono solo alcune delle persone che acquistano le mie opere. Ciò che li unisce è la ricerca di opere che trasmettano emozioni forti e che abbiano un impatto visivo potente.

3 C’è qualche esponente in particolare della pop art che ti ha ispirato, che ti ha reso sicuro che la strada giusta fosse questa che hai intrapreso?

Certamente, mi sono ispirato a molti grandi artisti della pop art come Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Keith Haring. Il loro coraggio nel rompere le convenzioni artistiche e nel celebrare la cultura popolare mi ha ispirato profondamente e mi ha reso sicuro che la strada che avevo intrapreso fosse quella giusta per me. L’audacia nell’affrontare temi della cultura di massa e la sua abilità nel trasformare oggetti comuni in icone hanno avuto un impatto profondo sulla mia arte e sulla mia visione artistica.

4 Batman come tutti i supereroi è popolare, perché hai scelto proprio lui?

Ho scelto Batman come soggetto delle mie opere perché lo considero un simbolo iconico della cultura popolare contemporanea. Il suo status di supereroe e la sua ambiguità morale lo rendono un soggetto affascinante da esplorare artisticamente. Inoltre, la sua iconica maschera e il suo mantello nero si prestano a rappresentazioni visivamente accattivanti e suggestive.

5 L’arte pop guarda fuori, al mondo, ma davvero secondo te essa è riuscita totalmente nell’intento di desimbolizzare l’oggetto, rendendolo un fatto?

L’arte pop ha certamente contribuito a desimbolizzare gli oggetti, trasformandoli in fatti artistici. Tuttavia, credo che la desimbolizzazione sia un processo in continuo movimento, e che l’arte pop continui a sfidare e ridefinire i nostri concetti di simbolo e significato attraverso la sua esplorazione della cultura di massa e della società contemporanea.

6 Nell’era dell’arte digitale e degli NTF, la pop art continua ad avere successo, perché? E cosa pensi degli incassi record degli NTF?

Nonostante l’era digitale e la crescente popolarità degli NTF, la pop art continua ad avere successo perché parla direttamente alla nostra esperienza quotidiana e alla nostra cultura condivisa. Le opere pop sono accessibili e immediate, e offrono un modo potente per esplorare e commentare la nostra società in continuo cambiamento. Riguardo agli incassi record degli NTF, penso che siano un riflesso della crescente accettazione e adozione della tecnologia blockchain nel mondo dell’arte, offrendo nuove opportunità per gli artisti di raggiungere un pubblico globale e di monetizzare il loro lavoro.

7 Avere una tua opera in casa, ufficio, studio, cosa dovrebbe voler dire per chi ce l’ha?

Avere una mia opera in casa, in ufficio o in uno studio è molto più di possedere un semplice oggetto d’arte. Significa portare con sé un pezzo della mia visione artistica, un frammento di quel mondo vibrante e pieno di vita che cerco di catturare nelle mie opere. Spero che ogni mia opera possa essere vista non solo come un oggetto decorativo, ma come un contributo alla storia dell’arte contemporanea, un riflesso della nostra cultura e della nostra esperienza condivisa.

8 Stai lavorando ad un nuovo progetto? Cosa ti aspetti?

Sì, sto sempre lavorando a nuovi progetti. Attualmente sto esplorando nuove tecniche e materiali per portare la mia arte a nuovi livelli di espressione e originalità. Mi aspetto che i miei progetti futuri continuino a sorprendere e a ispirare il pubblico, portando un tocco di freschezza e innovazione al panorama dell’arte contemporanea. Il mio processo creativo è un viaggio emozionante e spontaneo. Inizio con un’idea o un concetto che mi sta a cuore e poi lascio che la mia immaginazione prenda il sopravvento. Sperimento con diversi materiali e tecniche, lasciandomi guidare dall’energia del momento. Il risultato è un’opera che ha vita propria, che parla direttamente al cuore e all’anima di chi la osserva.

 

Charlie Parker, John Coltrane, Wayne Shorter: Miles Davis & the saxophones

La paranoica fissazione con un genere musicale contemplato ed esplorato nella sua più totale e completa complessità porta inevitabilmente alla ricerca di tutto ciò che gli sta attorno configurando un continuum fenomenale di genere a intermittenza di suoni dai più disparati insiemi musicali. Dal ’69 al ’74, da In a Silent Way a Get Up With It, il protagonista del racconto è più doverosamente John McLaughling, un chitarrista inglese, laddove nei sogni, nei desideri di partenza, nei progetti e nelle idee iniziali, questa figura musicale avrebbe dovuto combaciare con le fattezze artistiche di Jimi HendrixMiles Davis aveva un progetto musicale che contemplava l’introduzione della chitarra di Hendrix, ma quello che ne è venuto fuori fu solo un chiacchierato pastiche sentimentale a tre tra Miles, Jimi, e la signora Mabry Davis, Mademoiselle Mabry, come nell’ultima traccia di Filles De Kilimanjaro, suite orchestrale di oltre un quarto d’ora del 1968, Miles Davis, e al sax c’era già Wayne Shorter che chiudeva lo storico periodo del secondo grande quintetto, e che lo accompagnerà fino agli sviluppi più estremi del progetto di fusione elettrica tra musica jazz e musica rock – e questa è la seconda volta in quattro anni che la chitarra elettrica fa scalpore, fa scandalo, fa impazzire il pubblico; ed era già successo con Bob Dylan nel ‘65 quando il cantautore si presentò al Newport Folk Festival con una Stratocaster a tracolla e si beccò gli insulti e lo sdegno del pubblico (quella chitarra è stata venduta all’asta attorno al 1992 o giù di lì, per duemilioni di dollari).

Il protagonista sarebbe più doverosamente John McLaughing, è vero, ma coi saxophoni di Miles Davis si costruisce comparativamente una storia maggiore.

In realtà, ma sono probabilmente molteplici i prototipi del genere di fusione, la prima botta – e fa male ancora adesso quel disco – arriva da Duke Ellington nel 1962, con una scarpata blues d’altri tempi, un blusaccio primordiale, con uno degli egregi, dei molto onorevoli, per dirla con Joyce, senza il coraggio di dire il preferito da queste parti, della musica mondiale: Money Jungle con un trio pazzesco formato dallo stesso Ellington al piano, Max Roach alla batteria, già visto con Davis nella birth, in studio, ‘49-‘51 ca., of the cool e pre-birth of the cool, Live At The Royal Roost, NYC del settembre del 48 col celebre noneth detto la tuba band, come da note di copertina della premiata stampa della Durium, collana Jazz Live, note di Sandra Novelli – tutto comunque documentato nell’uscita del ‘57 a cura della Capitol dal titolo appunto The Birth Of The Cool – e, risalendo a Money Jungle, Charles Mingus al basso, un acidissimo Charlie Mingus e molto libero, free, al basso, contrabbasso.

Non è stato ancora detto niente di né di Charlie Parker né di John Coltrane, e con Shorter appena appena accennato, si va già verso l’ennesima nuova era del jazz, ulteriore capovolgimento di fronte capitanato da Miles Davis; e tutto sommato in qualche misura vengono tralasciati proprio Jerry Mulligan e Lee Konitz tra gli altri, i primi due sax del dopo Charlie Parker, la nascita del cool come già detto, anche perchè il disco esce postumo nel ’57, e si va verso il Miles Davis Quintet come atto primo del post Charlie Parker, al quale viene apposto Walking, anche questo senza John Coltrane – ma John Coltrane sarà presente in Kind Of Blue, il disco jazz più venduto in assoluto, o in qualche modo, il corrispettivo di The Dark Side Of The Moon in ambito jazz.

John Coltrane è dunque il sassofonista del dopo Charlie Parker, del primo Miles Davis Quintet, degli anni cinquanta, delle registrazioni della Prestige (The Legendary Prestige Quintet Sessions), del Caffè Bohemia; John Coltrane è il sassofonista che ha preso il posto di Sonny Rollins nel gruppo per far uscire Milestones, Round About Midnight, Cookin’, Steamin’, Relaxin’, Workin’ e poi nel 1959 ci sarà Kind Of Blue: Miles Davis, John Coltrane, Cannonball Adderley, Bill Evans, Winton Kelly, Paul Chambers, Jimmy Cobb – nel mezzo ci stà Walkin’ con un’altra formazione: un attestato di leggendaria sicurezza.

La storia ad ogni modo, quasi tutta quanta dall’inizio alla fine, si svolge quasi completamente a NYC, o lì ha più di un suo centro, e questa di John Coltrane in particolare attorno al Bohemia Cafè che ha recentemente riaperto.

E questi sono gli anni successivi a quelli in cui è ambientato On The Road, e i beatnik, allora, sono a un passo, la beat generation era già quasi tutta lì, e curiosità vuole che proprio The New Bohemia sia il titolo di un libro che descrive alla perfezione i contorni del new cinema americano, la sua natura underground, da cui letteralmente i Velvet Underground, e di cui lo stesso Andy Warhol faceva parte o vi era in misure diverse coinvolto, lui come Nam June Paick, Rauschenberg, Jones, Oldemburg, Kelly, Indiana, per dirne alcuni; ma per quel che riguarda il solo Andy Warhol, lui di fatto nasce come grafico anche di copertine di dischi di musica jazz, e forse nelle Metamorfosi c’è qualcosa di vero, Ovidio aveva ragione, magari la reincarnazione esiste, la resurrezione è verità, e se non esiste la reincarnazione, il darwinismo ne ha dimostrato la felice intuizione – Prestige, ad ogni buon conto, e questo è il seguito, e si va verso l’ennesima metamorfosi del jazz e la controcultura americana degli anni sessanta dei tempi a venire (è Jack Kerouac a dircelo che sono adiacenti) e Miles Davis, Wayne Shorter al sax, cavalca alla perfezione la chitarra elettrica: dopo E.S.P., Miles Smiles, Sorcerer, Nefertiti, Miles In The Sky, Filles De Kilinajaro, entrano In A Silent Way, Bitches Brew, e Jack Johnson, poi esce Wayne Shorter e l’elettricità corre sola sul filo fino a On The Corner, Big Fun, Get Up With It, e poi il silenzio fino agli anni ottanta, fino al magico EP Rubberband stampato lo scorso anno per la prima volta.

Ma alla fine chi era Charlie Parker, allora? Charlie Parker era un sassofonista americano. Nell’autobiografia di Miles Davis occupa tutta la prima parte, e di John Coltrane praticamente e di Wayne Shorter non c’è traccia nella seconda parte. Nella sua autobiografia, Miles Davis passa la metà del tempo a insultare Charlie Parker in tutti i modi, a glorificarlo, ad amarlo e a odiarlo. Charlie Parker muore nel 1955, un anno dopo la nascita del rock&roll, un anno dopo la consacrazione della chitarra elettrica, e per scoprire cosa sono tutti quegli assoli del rock&roll, è sufficiente ascoltare un disco di Charlie Parker e sostituire il sax con la chitarra elettrica, quello che di fatto è successo con il Miles Davis dell’ ”ultima” metamorfosi del jazz, con tempi più soft e cool, parlando di Miles, rispetto alla frenesia di Charlie Parker.

Nella sua autobiografia Miles Davis descrive Charlie Parker come un frenetico strafatto di eroina che si ingozzava di pollo fritto e suonava da dio: buttandola lì per chiudere, saltando lo swing, il boogie, e il rithm&blues, giocando a una vanitosa rivendicazione jazz, il rock&roll è il be bop suonato con la chitarra elettrica – Charlie Parker è per estensione il prototipo del chitarrista solista.

Di John Coltrane e Wayne Shorter si segnalano rispettivamente Giant Steps e Blue Train dall’una parte e Schizophrenia e i Weather Report dall’altra (Black Market).

Chi era Charlie Parker lo ha già documentato ampliamente Jack Kerouac, e la sua vita sarà uno standard per le avanguardie future verosimilmente spericolate come James Dean che muore nel suo stesso anno.

Un ultima curiosità ci spinge a notare che le prove generali di Bitches Brew, a tutti gli effetti il primo album elettrico di Miles Davis, si sono per così dire tenute al Fillmore East, sempre da quelle parti, NYC, l’equivalente del Blue Note per il jazz, nel marzo del 1970 la stessa sera in cui Neil Young & The Crazy Horse registrano uno dei più formidabili live albums di sempre con una rendition elettromagnetica di Cawgirl In The Sand. Poi ci sarà l’isola di Wight per Miles Davis e per la sua band, e seicentomila persone di gloria finalmente tutta intera per il jazz e la sua storia.

 

Fonte: tidal.com e le sue liner notes for liquid music.
Photo: http://birkajazz.se/archive/blueNote1500.htm

“The Velvet Underground & Nico”: i demoni di Lou Reed

Nell’anno di grazia 1967, mentre sulla West Coast si sprigionano i profumi, i colori ed i suoni della Summer Of Love, dall’altro lato dell’America le cose vanno molto diversamente. Nel cuore di New York un genio di nome Andy Warhol fonda una factory in cui trovano rifugio numerosi artisti d’avanguardia che si cimentano col cinema, la pittura, la fotografia, la scultura e la musica all’insegna della più pura sperimentazione. Un vero e proprio crogiuolo d’idee ed influenze che inevitabilmente gravitano intorno al genio indiscusso di Warhol. Durante quei frenetici giorni è ospite della factory uno strano ragazzo, che ama vestire di nero, indossare occhiali scuri ed esplorare tutte le sensazioni che apre l’uso delle droghe, il suo nome è Lou Reed. E’ un musicista, ma le sue idee, il suo aspetto e la sua poetica sono quanto di più lontano si possa immaginare dalla controcultura hippie all’epoca dominante. Il suo mondo è pieno di ambiguità, di disagio esistenziale, di deviazioni sessuali e di tossicodipendenza; a lui non interessa l’amore universale quanto piuttosto il lato oscuro presente in ogni uomo.

Il re della pop art ne rimane inevitabilmente affascinato tanto da costruirgli un gruppo su misura e finanziarne il debutto discografico. Il 12 marzo del 1967 trova posto sugli scaffali dei negozi di dischi uno strano oggetto, un quadrato bianco con una banana gialla disegnata sopra ed accanto il nome del gruppo: The Velvet Underground & Nico. Ovviamente già la copertina ha un valore assoluto in quanto concepita e disegnata da uno dei più grandi artisti del 900, ma è soprattutto il nome scelto dalla band a colpire. Il “velluto sotterraneo” (nella fattispecie John Cale, Sterling Morrison, Moe Tucker e lo stesso Reed) rimanda immediatamente a qualcosa di sommerso, nascosto, latente, oscuro mentre Nico è una notissima modella famosa per la sua abbagliante bellezza e lo stile di vita bohemien. Un’accoppiata decisamente bizzarra e spiazzante ma che alla lunga risulta vincente. La voce monocorde di Nico, infatti, si adatta alla perfezione ai testi perversi ed alle melodie drogate dei Velvet. La sua algida bellezza, inoltre, riusciva in qualche modo ad integrarsi con il look decisamente “dark” del resto della band. All’epoca tanta stranezza, però, non è accettata ed il disco, sia per gli enormi costi di stampa sia per i suoi argomenti scabrosi, viene immediatamente censurato dai mass-media e quasi subito ritirato dai negozi. La critica lo boicotta totalmente rifiutandosi di recensirlo decretandone, di fatto, il fallimento commerciale.

“Soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ciascuno di quei cento oggi o è un critico musicale o è un musicista rock” (Brian Eno)

Inutile dire che col tempo viene ampiamente rivalutato se non addirittura osannato fino ad essere definito il miglio album di debutto di tutti i tempi. Si può senz’altro affermare che è un album caduto sulla terra dal futuro. Già nel 1967 era avanti di trent’anni e le sue eco sono praticamente ovunque; dal punk al grunge, dalla new wawe al post-rock, tutti hanno un grosso debito di riconoscenza nei confronti di questo disco.

Lou Reed e Nico

Le crisi di astinenza domenicali in Sunday Morning, la paranoia dovuta ad una lunga attesa del pusher di fiducia in I’m Waiting For The Man, la descrizione di una mangiatrice di uomini in Femme Fatale, un rapporto sado maso in Venus In Furs, la vita degli spacciatori di Union Square in Run Run Run, gli inutili frequentatori della factory in All Tomorrow Parties, l’allucinata Heroin, la gelosia violenta in There She Goes Again, l’amore tenero in I’ll Be Your Mirror, le sperimentali The Black Angel’s Death Song ed European Song sono tutti tasselli di un mosaico lirico/musicale che per la prima volta è riesce a svelare senza alcun tipo di restrizione le deviazioni, i buchi neri dell’animo umano un vortice di note scuro ed inquietante. Per la cultura dell’epoca è chiaramente uno shock ed anche i per i giovani imbevuti di peace & love quest’opera rappresenta esattamente quello che non vogliono sentirsi dire. Negli anni del libero amore, della fantasia al potere, dell’esaltazione floreale, i Velvet Underground rappresentano la cattiva coscienza della società, gli outsider che con le loro luride storie metropolitane fatte di squallore e depravazione mostrano il marciume nascosto dietro la facciata variopinta dell’Estate dell’Amore, annunciando inesorabilmente la fine imminente dell’epopea hippie e l’inizio del disincanto.

“Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy”: l’irripetibile epopea di Elton John

Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy- MCA Records-1975

Non era inusuale, alla metà degli anni ’70, imbattersi in un curioso personaggio in grado di riempire qualsiasi stadio, auditorium o sala da ballo del pianeta. Cavalcava un piano magico, vestiva abiti sgargianti fatti di raso e paillettes, indossava occhiali fantasmagorici e cappelli dalla foggia improbabile ma soprattutto, aveva un talento ineguagliabile nel raccontare storie. Dopo aver detto “addio al sentiero di mattoni gialli” questo curioso personaggio decide di dotarsi di un alter ego in grado di competere col veneratissimo Ziggy Stardust (impersonato da David Bowie) e di diventare la più pura espressione del glam rock. Captain Fantastic si fa chiamare ma, dietro al nome mirabolante ed all’aspetto decisamente kitsch, si nasconde un timido ed occhialuto pianista inglese: Reginald Dwight meglio noto come Elton John. Dopo una serie di album all’insegna del più classico cantautorato di matrice pop, nel 1973, l’artista britannico rompe ogni indugio e da alle stampe il suo lavoro più ambizioso Goodbye Yellow Brick Road, monumentale doppio album dal successo clamoroso, infarcito di rock, ballads e poesia. Dietro tanta grandeur ci sono tematiche di altissimo spessore umano quale la perdita dell’innocenza ed il passaggio ad una fase più matura e consapevole della vita nascoste dietro melodie di grande complessità tecnica e versi di innegabile valore poetico. Due anni dopo (e dopo il meno riuscito Caribou) Elton John riesce a fare addirittura di meglio. Insieme al fido paroliere Bernie Taupin, progetta un concept album strettamente autobiografico incentrato sul biennio 1967-1969 durante il quale i due cercavano il modo di affermarsi nel mondo della musica. Il risultato è Captain Fantastic And The Borwn Dirt Cowboy, il cui titolo rivela il carattere introspettivo e metaforico del disco. Il Capitano Fantastico è, infatti, l’anima eccentrica e chiassosa del duo (Elton John) mentre Lo Sporco Cowboy Impolverato ne rappresenta il lato più intimista e riflessivo (Bernie Taupin). Questo chilometrico nome può anche essere visto come l’inquietudine che si nasconde dietro la magnificenza o, più propriamente, come la drammaticità dei temi affrontati inseriti in brani di straordinaria bellezza. Il tormento e l’estasi in buona sostanza, le due facce di una stessa medaglia.

Molte delle canzoni in questo disco sono ispirate alla frustrazione e all’insicurezza, e più in generale alla sgradevolezza del music business. Elton e Bernie sembrano quindi molto forti e sicuri di sé sulla copertina, ma in realtà sono circondati da figure cupe, avide, inquietanti. Una metafora dei contenuti del disco” (David Larkam-1975)

La sopracitata copertina merita una menzione a parte. Affidata al disegnatore Alan Aldridge è semplicemente sensazionale; sembra un quadro di Hieronymus Bosch popolata com’è di creature fantastiche e mostruose, colori accesi ed atmosfere surrealistiche. Un vero e proprio quadro, un’opera pittorica, degna di essere inserita tra le migliori cinque cover del rock al pari di quelle ideate da artisti quali Andy Warhol, Robert Crumb, Rick Griffin e Peter Blake. La musica racchiusa dentro tanto splendore grafico è tra la migliore mai composta dal team John/Taupin.

Elton John (sx) e Bernie Taupin (dx)

Si parte con la title track, potente ballata dagli umori country dichiaratamente autocelebrativa e, passando dalla criptica Tower Of Babel ricca di riferimenti alla Bibbia, si arriva, attraverso le strepitose Someone Saved My Life Tonight, Bitter Off Dead e We All Fall In Love Sometimes, alla maestosa Curtains ideale quadratura del cerchio in quanto mirabile sintesi di tutto il lirismo taupiniano. Inciso con la cosiddetta “formazione classica” ossia Dee Murray al basso, Nigel Olsson alla batteria, Davey Johnstone alle chitarre e Ray Cooper alle percussioni, Captain Fantastic rappresenta lo zenith creativo per i due autori e, nel contempo, la loro definitiva consacrazione a stelle di prima grandezza del firmamento musicale internazionale. Il successo di vendite è enorme ed il plauso della critica unanime oltre ogni qualsiasi previsione dal momento che gli intenti di partenza erano ben diversi. Non si voleva fare un album commerciale bensì un opera ben più profonda, piena di riferimenti personali ed argomenti importanti senza essere vincolati in alcun modo ai risultati di vendita. Il fatto che ne sia stato estratto “un solo” singolo, Someone Saved My Life Tonight, è la prova che la libertà da ogni vincolo discografico era pressoché totale. Probabilmente è proprio questa sua autenticità, unitamente all’elevatissima qualità tecnica, musicale e poetica a farne un best seller ed uno dei migliori prodotti della musica contemporanea. Mai Sir. Elton John era apparso così fragile ed umano dietro la sua maschera di lenti colorate.

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