Italia, un paese di scrittori: un intervento della scrittrice Anna Maria Ortese

Non c’è forse, dopo l’Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’ attenzione dell’ altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un’ espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire.

Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’ altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi.

Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro… Hai letto l’ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai il tempo di leggere…». Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale appare quel che si desidera – un mediocre – cessato l’allarme, la sua modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di fronte a un’ autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare, e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla, prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia la reazione: si tratta di un’ opera indegna, una vera truffa letteraria, «ma dove andiamo a finire di questo passo… vedrai che a quello gli danno un premio…», e così via.

E il premio qualche volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all’ingegno di V., che, novantenne, ha ristampato l’intera mole delle sue opere, insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole, l’ultimo arrivato, che non è stato al gioco d’infilare le parole l’una dopo l’altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la parola, l’ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi.

Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s’intende, a una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso.

Non scrive per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un’aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato un intruso e gli si tolga magari il saluto (…); si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo.

Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata e insignificante delle nazioni.
Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai fini a se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura, è il carteggio M. Gorki – A. Cechov. (…) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati, in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta divenuti sinceri, onesti, liberi. E per questo, perché essi non avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti, e per la vita guardata allo specchio non c’era posto. Contava la vita nuda.
Contava l’immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze, le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta contro tutto ciò che opprime l’uomo, un compagno, la cui opera, a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva qualche fine, allora, l’intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla pelle. Ed ecco l’interesse profondo di uno per l’altro, il rispetto, l’ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere, adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.

 

Questo e altri vecchi interventi della Ortese si possono trovare oggi raccolti nel volume “Da Moby Dick all’Orsa Bianca”, edito da Adelphi.

 

Fonte: intervento di Anna Maria Ortese-dowtonbaker

Anna Maria Ortese, solitaria sacerdotessa della scrittura

La solitaria e “antipatica” (come si definiva lei stessa) Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998) è stata una scrittrice di rara sincerità, forse è proprio per questo suo modo di essere che, quando era in vita, era poco ascoltata, e oggi quasi per nulla ricordata. Il suo vivere deliberatamente in solitudine e il suo carattere riservato che non si sposava affatto con la mondanità sono da considerare soprattutto in riferimento all’insofferenza della Ortese per i circoli letterari, le apparizioni in pubblico, le promozioni editoriali e i salotti culturali.

Questi aspetti (spesso noiosi) che fanno parte della vita di uno scrittore in realtà contribuiscono in buona parte al successo di un’opera, intendendo però qualsiasi opera, anche non di qualità se pensiamo soprattutto ai successi improvvisi ed effimeri di alcuni “scrittori” che utilizzano selvaggiamente il  web per promuoversi, nonché alla mediocrità di certi eventi letterari. Anna Maria Ortese avrebbe mal sopportato tutto questo ma bisogna anche ammettere che molte volte il carattere di uno scrittore ha determinato anche se poco la buona o cattiva riuscita di un libro da un punto di vista commerciale. Farsi conoscere quanto più è possibile se si ha talento non è certo un male e accusare sempre l’ambiente culturale, gli addetti ai lavori e gli accademici di fare ostruzionismo non del tutto realistico, sebbene nel caso della Ortese ciò abbia un fondo di verità.

La scrittrice romana è stata osteggiata inizialmente da una platea maschile di letterati criticata a sia volta dalla Ortese in Il silenzio della ragione,e  poi costretta a chiedere  di usufruire della Legge Bacchelli per sopravvivere alla miseria, condizione che oltre ad umiliare la persona umilia la letteratura stessa. Ma la Ortese ha saputo lottare con dignità, ma non facendo la rivoluzionaria, bensì rinnovandosi, nella forma e nella sostanza, lasciando parlare al suo posto i propri libri che mettono a nudo l’anima della scrittrice, nonostante ella non abbia mai voluto piacere per l’immagine che la rappresentava.

Ma come si “palesa” l’anima di Anna Maria Ortese?Cosa ci dicono le parole contenute nei suoi libri? Prima di tutto si percepisce uno stretto legame con realtà, quella realtà con la quale la scrittrice era sempre stata in polemica, ma anche un desiderio di giungere al bene, all’amore e alla giustizia. In bilico tra realismo e surrealismo che ricorda il realismo magico di Garcia Marquèz e di Bontempelli (che tenne a battesimo la scrittrice), la Ortese si contraddistingue per un potente autobiografismo lirico mai influenzato da canoni ideologici e poetici, partendo dalle esperienze dolorose.

Prendiamo in esame il libro Poveri e semplici del 1967, un meraviglioso racconto  di atmosfera da bohème, che si muove tra l’esistenzialistica e comunistica, un racconto fatto di tanti nomi e luoghi che trovano riscontro nella realtà e precisamente nella città di Milano, dove si svolge la vicenda. Qui, persino le discussioni politiche appaiono incerte, scivolando in chiacchiere di svago, tale aspetto insieme a ai personaggi che appaiono  scompaiono non sembrando affatto figure determinanti del racconto, rende Poveri e semplici un libro di incanto, di invenzione che però non sfocia nel sogno.

Anna Maria Ortese trasporta la realtà in una dimensione tutta sua come dimostra già uno dei suoi primissimi romanzi Angelici dolori, opera che trasuda patetismo sentimentale e istintivo realismo.

In Il mare non bagna Napoli la scrittrice trova un felice compromesso tra realtà e fantasia fotografando la meravigliosa confusione di una città particolare ed unica come Napoli cogliendone le più disparate e differenti voci affidandosi ad un’ agile scrittura “giornalistica”, in L’iguana l’autrice si lascia andare ad una fantasia carica di simbolismo. Ma l’opera più significativa della Ortese è senza dubbio Il porto di Toledo, romanzo che si aggroviglia giocosamente su molteplici dimensioni spazio-temporali.

Minor fortuna hanno i romanzi Il cappello piumato (1979), Il treno russo (1983) e In sonno e in veglia (1987). Ma gli ultimi anni riservano delle belle sorprese alla scrittrice: Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996), hanno un ottimo riscontro sia di pubblico che di critica. Successivamente pubblica  testi poetici come La luna che trascorre. Tra le ultime pubblicazioni, appare la riedizione del secondo libro della scrittrice, L’infanta sepolta, e la ristampa di due racconti giovanili raccolti in Il monaciello di Napoli (2001). Nel 1997 finalmente la giuria del premio Campiello le assegna il meritato riconoscimento alla carriera.

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