Intervista a Roberta Visone, autrice delle ‘Poesie di periferia’

Roberta Visone è la giovane e talentuosa autrice della raccolta di poesie intitolata Antizibaldone 2.0, ora più nota con il titolo Poesie di periferia, richiamandosi alla celebre raccolta di Giacomo Leopardi, e che non può non interessare ognuno di noi, proprio perché parla di noi, del nostro vivere quotidiano, dei nostri desideri e sentimenti. La Visone colpisce per la sua disarmante sincerità e coraggio, denunciando le bruttezze che pervadono il mondo e facendo esplodere ciò che ha dentro su un foglio bianco mostrandoci quanto siano importanti e potenti i ricordi e quanto sia necessario, se non indispensabile, riuscire a far emergere quello che siamo davvero. Attualmente l’autrice sta lavorando ad un romanzo.

 

1. Quando hai iniziato a scrivere poesie?

Nel 2005, per puro caso. Non ero nemmeno consapevole che stessi scrivendo una poesia: avevo semplicemente riportato un’impressione su una goccia. In seguito ne ho scritte altre, proprio come quando inizi a guardare una serie televisiva: in un primo momento dici «Ok, passabile», poi man mano scopri che non puoi più farne a meno!

2. Che ruolo ha o dovrebbe avere la poesia oggi?

Per me deve assolutamente e principalmente mostrare come stanno realmente le cose, che siano esse positive o negative. Quindi niente voli pindarici, niente astrazioni, solo la realtà. È vero, dicendo questo vado contro alcune mie poesie adolescenziali e ci pensano già i telegiornali e le serie tv/i film a raccontare parte della realtà. D’altro canto credo che, come in passato, la poesia debba essere impegnata e non nell’accezione politica, bensì nel denunciare le bruttezze come il bullismo, il mobbing, l’estrema fiscalità, il femminicidio, lo sfruttamento e altro.
Un’altra funzione che per me deve svolgere la poesia è quella ricordativa: nella vita tutto passa, ma solo i veri ricordi restano. Per restare hanno bisogno di essere impressi da qualche parte; quale mezzo migliore, se non la scrittura? Dopotutto Lord Voldemort stesso ricorse a un diario per mantenere viva la memoria di sé stesso, sfuggendo così alla morte! La funzione di far evadere il lettore in mondi fantastici preferisco lasciarlo alla più amata prosa: vi è più spazio per poter far spaziare il lettore col pensiero.

3. A quali poeti ti ispiri maggiormente?

In verità mi occupo solo di vomitare l’anima su un foglio o su uno schermo, ispirandomi a ciò che accade dentro e fuori di me. Non ho un poeta preciso cui faccio riferimento, ma forse a livello contenutistico mi ispiro in parte alla Dickinson nel parlare di eventi quotidiani, e a Caparezza nel denunciare ipocrisie e bruttezze. La musica odierna ha anche delle perle: lui è una di queste!

4. Quanto può essere importante una singola parola?

Che sia un morfema, un sintagma, un enunciato, una parola può essere fondamentale: può suscitare empatia o repulsione, vicinanza o lontananza, o per dirla con le parole di JK Rowling, “Le parole sono, nella mia non modesta opinione, la nostra massima e inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo”. Inoltre credo sia meglio andare dritti al sodo con una sola parola che nascondersi dietro perifrasi e paroloni vuoti, nonostante io in primis tenda a fare giri di parole quando voglio fare del sarcasmo o quando mi sento particolarmente in vena di parlare o di scrivere.

5. Scrivi poesie perché “hai bisogno di un posto dove essere quello che non sei”, come diceva Alejandra Pizarnik?

Assolutamente sì: scrivendo sono ancora più sincera di come sia già nella realtà. Se ho un problema, se provo nostalgia e altri sentimenti, una penna e un foglio (oppure le dita e lo schermo) mi vengono in soccorso, sono (stati) il mio rifugio più prossimo. Faccio esplodere ciò che dentro bolle e già il concedermi la libertà di essere me stessa mi fa sentire sollevata. Un foglio non ti giudica, ti accoglie così come sei; non si può sempre dire lo stesso delle persone in generale.

6. Come si fa nella nostra società tecnocratica a parlare di poesia soprattutto ai giovani?

Credo che bisogna rileggergliele ad alta voce o tramite le modalità di intrattenimento attuali: versione cinematografica, webisode, video, etc.. La tecnologia ci può aiutare, se sappiamo usarla con criterio. Infine, l’analisi testuale può essere piacevole, soprattutto per chi ama smontare le costruzioni in Lego. Decostruendo il testo si riesce a percepire il contenuto, il ritmo e gli elementi di coerenza e coesione. (Ok, ora smetto di fare propaganda a favore della linguistica testuale!)

7. Spesso si scrivono poesie “all’insaputa di se stessi”?

Sì, come già detto all’inizio. Inoltre sta anche al lettore esprimere civilmente e chiaramente la propria su ciò che è poesia, garantendo a sé stesso e alla poesia che sta leggendo una molteplicità di interpretazioni.

8. Quando scrivi, ritieni di prendere la parola o di restituirla a chi ti legge?

Io prendo la parola, concedendomi uno spazio tutto mio in cui essere nuda e cruda; credo e spero che a chi mi legge resti qualcosa dei miei pensieri.

9. La tua poesia è anche molto “concreta”, fotografa la realtà attuale. Sembra sottointendere “noi poeti esistiamo ancora e abbiamo voce in capitolo”. E’ un bisogno di dire alla società che ha ancora bisogno di voi?

Chi scrive è solo mediatore e può ricadere negli errori decantati nelle poesie, ma è del vero, del giusto e del bello dell’arte ciò di cui la società ha davvero bisogno.

10. Cosa vorresti che un lettore capisse di te leggendo la tua raccolta poetica “Anti-Zibaldone 2.0”, giunta alla seconda edizione col titolo “Poesie di periferia”? 

Vorrei con tutto il cuore che il lettore capisse che dietro quelle parole vi è una persona con un vissuto non semplice, ma che in qualche modo va avanti: se ce la faccio io, perché non chi mi legge? Vorrei che capisse che bisogna trovare il coraggio di essere sé stessi, nonostante possa andare quasi certamente incontro al rifiuto da chi lo vorrebbe a proprio piacimento e non per come si è davvero. Altre cose sta al lettore intuirle: ho spoilerato già abbastanza!

11. Progetti futuri?

Molti. Uno di questi: un romanzo, anzi IL romanzo.

12. Cosa pensi dell’editoria italiana?

Dell’editoria a pagamento ho lo stesso pensiero di Lutero sulla vendita delle indulgenze; il self-publishing per me è un’arma a doppio taglio: tutti credono di saper scrivere così come di saper insegnare, ma sono il carisma e la pazienza nel modellarsi e migliorarsi giorno dopo giorno a fare la differenza.

Exit mobile version