Ricordando la poetessa Antonia Pozzi a 110 anni dalla sua nascita

Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 Febbraio 1912. Figlia di Roberto Pozzi, rinomato avvocato, e della contessa  Lina Cavagna Sangiuliani trascorre un’infanzia serena e ricca di stimoli intellettuali. Antonia, infatti, appartiene a una delle più facoltose famiglie lombarde; dapprima, risiede a Milano nei pressi di Corso Magenta. Solo nel 1917 la famiglia decide di acquistare una villa settecentesca  a Pasturo, in Valsassina (Lecco).

L’antica villa sarà un luogo cardine per Antonia: il famigerato nido pascoliano in cui amerà tornare, di volta in volta, sia per immergersi nello studio della sua biblioteca sia per trovare gli spunti adatti alla sua poesia: la natura e le adorate montagne. La parentesi adolescenziale della poetessa lombarda produce i primi tormenti all’interno del suo animo; Antonia Pozzi studia al liceo classico Manzoni, ed è proprio qui che intreccia una passione amorosa con il suo insegnante di latino e greco, Antonio Maria Cervi. La relazione dura fino al 1933 e, fino a quel periodo, i genitori cercano di osteggiarla in ogni modo.

Antonia Pozzi: un animo ipersensibile

La grande italianista Maria Corti descrive Antonia Pozzi come un vortice di ipersensibilità, dalla cui sommessa e dolce inquietudine estrapolava una potente angoscia creativa; la Corti paragonava il suo animo alla selvaggia vegetazione di montagna, quelle piante che crescono lungo i crepacci e che per necessità devono essere libere di espandersi, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso. Una comparazione lineare con lo spirito della poetessa poiché erano proprio gli elementi presenti in natura a consolarla << più dei suoi simili>>.

Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, frequentando il corso di Filologia Moderna: gli anni universitari sono fondamentali per la giovane Antonia poiché non solo acuisce e intensifica i suoi interessi culturali ma conosce nomi importantissimi del futuro panorama letterario: i filosofi  Enzo Paci ,Remo Cantoni e Dino Formaggio. Qui stringerà un’amicizia fraterna con un altro grande nome della poesia italiana, Vittorio Sereni. Di lui, la Pozzi, dirà:

<<Quell’essere di sesso diverso, così vicino che pare abbia nelle vene lo stesso tuo sangue, che puoi guardare negli occhi senza turbamento, che non ti è né di sopra né di fronte, ma a lato, e cammina con te per la stessa pianura>>.

Si laurea con Antonio Banfi nel 1935, discutendo una tesi su Gustave Flaubert.

 

Le leggi razziali e le prime avvertenze di cupa inquietudine

Antonia viaggia, coltiva la passione della fotografia, ama le escursioni in bicicletta immersa nella natura, progetta un romanzo storico sulla Lombardia e studia il tedesco, l’inglese e il francese. Tuttavia, appartengono a questo momento storico le prime sfumature di cupa inquietudine.

Antonia sente che il clima politico si è incupito; quasi profetica, immagina la tragedia, la sente avanzare. Nel 1937, nel tentativo di trovare un equilibro, ricostruire sé stessa ed emanciparsi dai genitori, inizia a insegnare letteratura presso l ‘Istituto Schiaparelli di Milano. Dopo aver trascorso l’estate del 1938 fra Pasturo e Misurina, progettando il grande romanzo storico lombardo che aveva in mente, l’avvento delle Leggi razziali nell’autunno 1938 si  scaraventa ingiustamente contro molti dei suoi amici, alcuni dei quali espatriano o si trasferiscono.

La sua migliore amica, Elvira Gandini, si è sposata e si è trasferita in Valtellina; un’altra sua cara amica, Lucia Bozzi, insegna a Brescia. Quasi accorata e impotente scrive al suo caro amico Vittorio Sereni, costretto a frequentare un corso ufficiali presso Fano:

«Forse l’età delle parole è finita per sempre».

Una frase d’effetto che, sicuramente, si riferiva all’angoscia provata per la situazione cupa del tempo, ma che probabilmente presagiva anche quel gesto che, di lì a poco, avrebbe compiuto. Poco prima del suo suicidio si dichiara all’amico e filosofo Dino Formaggio; Formaggio le dirà che, nonostante l’affetto, quel loro rapporto non potrà mai essere contraddistinto dal sentimento amoroso. Il 2 dicembre 1938, come consuetudine, si reca a scuola; alcuni ragazzi la sorprendono mentre piange, tacitamente.

Sono le 11.00  quando dichiara di avere un malore e, dopo aver salutato gli allievi intimandoli a essere buoni, si dirige nella periferia milanese, presso Chiaravalle. Si adagia, leggiadra, sul prato; tra la neve di quella gelida mattina di dicembre, ingurgita una pesante dose di barbiturici e aspetta che la colga la morte. Un contadino la intravede: tuttavia, è ormai agonizzante e a nulla servono i soccorsi. Muore la stessa sera, il 3 dicembre nella sua casa.

Antonia aveva premeditato quel gesto, probabilmente divorata da un malessere vivido e fattosi carne, a poco a poco. Lascia tre messaggi: uno all’amico amato, Vittorio Sereni, in cui trascrive una sua poesia, Diana; uno a Dino Formaggio; l’ultimo ai genitori:

‘’Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. […] Direte alla Nena –  l’amata nonna –  che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. La vostra Antonia’’.

Una poetica trasfigurata: inquietudine, tragedia personale e asciutte parole

Dopo il suicidio di Antonia, il padre racconta che la scomparsa della figlia è da imputare a una polmonite. Roberto Pozzi, per rendere lindo il ricordo della figlia, decide di pubblicare la prima raccolta di Antonia; elogiata dalla critica e dallo stesso Montale, presto ci si rende conto di qualcosa di oscuro: i testi di Antonia sono stati manipolati.

Il padre, infatti, prima di pubblicare le poesia ha effettuato una revisione tagliando i versi più scabrosi o che potessero inficiare il ricordo della stessa Antonia e della famiglia. Un’evidenza palese, perché quei tagli riemergono prepotenti, svilendo profondamente il vero pensiero della giovane poetessa lombarda. Sarà, agli inizi degli anni ’80, Onorina Dino a documentarsi sui manoscritti originali della poetessa riportando i suoi versi agli antichi splendori conferiti da Antonia. La poesia della Pozzi è, infatti, essenziale, scabra, asciutta: nelle sua parole coesistono gli echi dell’espressionismo tedesco e la semplicità del crepuscolarismo. E’ l’elemento naturale a non mancare mai. In Prati (1931) dice la Pozzi:

Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.

Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.

Antonia Pozzi si serve delle immagini della natura per far congiungere come ponte dorato, al loro interno, il riflesso dei suoi sentimenti. Il legame con l’elemento natura si nota anche con un’espressione che, quasi ridondate, ritorna in molti dei suoi componimenti; l’universo lirico pozziano si schiude interamente nell’immagine del cielo, simbolo di ascesi, di brama di luce, di infinito e contemplazione.

Il suo è quasi un tendere costantemente alla luce, una ricerca di bagliore quasi in contrasto con una vita punteggiata di malinconie e delusioni. La poetica è luminosa composta da grovigli esistenziali squarciati da baluginii luminosi: le parole e la natura. E’ una poesia tragica, che non si oppone ma si rassegna al tempo in un’attesa angosciante fatta di amori svaniti e animi turbati: Antonia è la poetessa del silenzio, ossimoro con la sua costante ricerca di luce.

La vita, adesso, è percepita come un nulla: Antonia Pozzi non regge i sentimenti contrastanti che la dilaniano ed è alla continua ricerca di una fede, un sentimento religioso che lenisca il suo dolore. Nella lirica  Grido del 1932 si scorge tutta la sua impotenza, la resa di una donna alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi:

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono.

In Confidare del 1934, troviamo i tre elementi caratterizzanti la sua poetica: la ricerca di fede, la luce costante, la natura:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

 

L’indissolubile legame con la natura, una geografia lirica alla costante ricerca di luce

La natura è lo specchio del mondo in cui Antonia trova conforto e si riflette, mescolando pulsioni di vita e di morte in un continuo dialogo dei contrari, testimonianza di un’anima imbevuta di oscurità ma anelante al bagliore, sinonimo di eventuale e auspicato calore umano. La lirica Bellezza del 1934 è il manifesto della sua anima, dove la sua amata natura e la sua continua ricerca si susseguono in immagini arcadiche e bucoliche, le uniche capace di lenire le sofferenze di Antonia:

Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.

Ti do me stessa,
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive
tra superstiti colonne
e ulivi e spighe.

Ti do me stessa,
i meriggi
sul ciglio delle cascate,
i tramonti
ai piedi delle statue, sulle colline,
fra tronchi di cipressi animati
di nidi –

E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch’io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –

 

Nella lirica Periferia del 1938, dedicata alla periferia milanese dove faceva volontariato in Via dei Cinquecento, Antonia esprime tutta la sua paura per la vita dicendo << ho paura dei tuoi passi fangosi, cara vita>>; eppure emerge la sottile e reiterata sensibilità della sua anima: le fabbriche  avanzano senza lasciar spazio alla natura e ai suoi elementi soffocati dal cemento:

E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.

Il silenzioso avanzamento delle fabbriche, come un rombo distruttivo dal passo felpato che sovrasta la natura, provoca in Antonia un turbamento doloroso; l’uccisione della sua fonte di consolazione primaria che scalpita, nella potente immagine che dà delle betulle spaesate di fronte a un’irruzione senza sosta di elementi artificiali e asettici. La poesia di Antonia di destreggia in un quotidiano scolorito, fatto di espressioni rudi, linguaggi ruvidi e realistici: la vera Antonia è quella della lirica di Via dei Cinquecento, dove soffre ed empatizza con le sofferenze altrui.

La sua è una voce lucida, attenta, dedita a cogliere le sfumature; un’anima intrisa di tormento che brama leggerezza, come scriverà poi nella lirica Desiderio di cose leggere del 1934:

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’altra scogliera
di stelle.

Antonia Pozzi, quasi profetizzando la sua fine appena quattro anni dopo, libera la sua anima proprio fra i giunchi di un prato, su una riva gelata con il volto rivolto al sua amato cielo. Una delle poetesse più dimenticate del ‘900, riscoperta postuma, la cui vicenda personale ha sporcato e svilito la sua produzione alta, lirica, visionaria,  come spesso accade alle anime di un certo calibro.

 

 

 

‘Poesia che mi guardi’: un infinito troppo grande da abbracciare per Antonia Pozzi

È il 3 dicembre 1938 quando la bicicletta di Antonia Pozzi si ferma per l’ultima volta nei campi che costeggiano l’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano. La neve ricopre il manto erboso e si mangia tutti i rumori per donarle, finalmente, quella pace tanto agognata, mentre un piccolo rigagnolo le scorre accanto, portandosi via la sua anima inquieta. “Suonano i passi come morte cose / scagliate dentro un’acqua tranquilla / che in tremulo affanno rifletta / da riva a riva / l’eco cupa del tonfo”.
Un tonfo che risuona in lei da 26 anni, il tonfo del non, “della mia casa non nata”, “il lamento dei non uccisi”, dei figli non avuti da un amore non vissuto.
Sedeva sui banchi del liceo Manzoni di Milano, Antonia, quando si innamora perdutamente del suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, che, per primo, le mostra il lato materico delle parole, la vita che scorre tra le righe, sotto la penna, nella carne.

Inizia allora una relazione tra quella giovane e brillante studentessa, un po’ rigida e insofferente, e quel maestro da lei descritto, in una lettera all’adorata nonna Nena, come “una gran fiamma dietro una grata di nervi, un’anima purissima anelante”. Rapporto, il loro, fortemente osteggiato dal padre di Antonia, un avvocato filo-fascista, che non vedeva di buon occhio il legame tra la giovane figlia e quel mentore cui tante poesie – molte delle quali furono poi manomesse dall’autoritario pater familias – erano dedicate .

Il trasferimento di Cervi a Roma segna la fine della nascente relazione, che da quel momento si trasforma in uno scambio epistolare, protratto fino al 1934, ma che non abbandonerà mai davvero Antonia. “Navighiamo a incontrarci”, scrive in una poesia del ’33 che ha come titolo un “Ricongiungimento” che non avverrà più.
I primi anni Trenta segnano anche l’ingresso della Pozzi nell’ambiente universitario – è iscritta alla facoltà di Lettere della Statale – dove frequenta assiduamente le lezioni di filosofia di Antonio Banfi, entrando nella cerchia dei cosiddetti “banfiani”, tra cui spiccano Vittorio Sereni, Giulio Preti, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Enzo Paci e Luciano Anceschi. Un ambiente sicuramente stimolante, ma anche poco incline a comprendere la sensibilità di Antonia, che si sente consigliare da Banfi di passare al romanzo storico e da Paci di “scrivere il meno possibile”.

Ma come fare a storicizzare, a razionalizzare, o addirittura a non scrivere “qualcosa che metteva di mezzo la pelle”, come dice Dino Formaggio, più volte definito dalla Pozzi “fratello della mia anima”? Come restarsene chiusi nelle università quando l’olezzo dell’imminente guerra inizia a diffondersi nelle strade, coperto dal trionfalismo propagandistico del regime?

Con Dino Antonia vagabonda nelle periferie milanesi, annotando quella “miseria [che] durerà per sempre” e che le apre un mondo in netto contrasto con il benessere borghese in cui è nata e per il quale si sente in colpa.
Lei, che della “Milano bene” apprezzava solo le serate alla Scala, in cui si lasciava trasportare dalla musica, dal suono di parole che la penetravano. Lontana dagli ambienti altolocati frequentati dal padre e dalla madre – una donna di famiglia aristocratica, colta e intelligente, ma succube del marito.
Lei, che ai salotti borghesi aveva sempre preferito i campi della pianura lombarda e la natura incontaminata di Pasturo, un paesino della Valsassina frequentato fin dall’infanzia, tra “le mie mamme montagne”.

È lì che Antonia si ritira, lì che scrive gran parte delle sue poesie, “per un’ebbra ed inconscia frenesia di contatti selvaggi con la terra”.
La natura è per lei il principale rifugio, il ritorno alla gioia dell’infanzia – quando ancora “il cuore ha il colore delle genzianelle” – prima che l’angoscia sopraggiunga, prima che “una malinconia lacerata e inavvertita” – come scrive di lei Eugenio Borgna – le faccia esplodere in petto quel taedium vitae che non l’abbandonerà più.

Le montagne, soprattutto, dalle bianche Grigne a quel Cervino che sta “di contro alla notte come un asceta assorto in preghiera”. Tra rocce e nevai, torrenti e burroni, alberi e rovi. Nella natura selvaggia Antonia tenta di pacificare il suo tormento, aprendo un dialogo tra se stessa e il mondo, respirando le sue ferite nell’aria rarefatta delle cime innevate.

Sulla parete strapiombante, ho scorto
una chiazza rossastra ed ho creduto
che fosse sangue: erano licheni
piatti ed innocui. Ma io ne ho tremato.
Eppure, folle lampo di tripudio
e saettante verità sarebbero
un volo e un urto ed un vermiglio spruzzo
di vero sangue. Sì, bello morire,
quando la nostra giovinezza arranca
su per la roccia, a conquistare l’alto.
Bello cadere, quando nervi e carne,
pazzi di forza, voglion farsi anima;
quando, dal fondo d’una fenditura,
il cielo terso pare un’imparziale
mano che benedica e i picchi, intorno,
quasi obbedienti a una consegna arcana,
vegliano irrigiditi. Sulle vette,
quando la brezza che ci sfiora è l’alito
di vite arcane riarse di purezza
ed il sole è un amore che consuma
e, a mezza rupe, migrano le nubi
sopra le valli, rivelando a squarci,
con riflessi di sogno, la pensosa
nudità della terra, allora bello
sopra un masso schiantarsi e luminosa,
certa vita la morte, se non mente
chi dice che qui Dio non è lontano.

Una natura che la conforta, ma che al tempo stesso le fa sentire tutta la sua finitezza, in rapporto a un Dio in cui non riesce a credere, a un infinito troppo grande da abbracciare.

“Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi: e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile”.

Vorrebbe uscire dalla sua pelle ed essere puro spirito, e invece resta “lì, muta, come se avessi ai miei piedi il mio corpo lacerato e potessi guardarlo”. Si sente come il Tonio Kröger di Thomas Mann, in un contrasto irrisolvibile tra Geist e Leben, tra arte e vita. Scrive, in una lettera del ’35: “io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse – chissà, l’età delle parole è finita per sempre”.

Un altro tonfo, un altro non, quello delle parole che non salvano, che non colmano il vuoto, che non saturano la malinconia. Una spaccatura troppo netta tra il mondo là fuori – quello della borghesia, della guerra imminente, del razionalismo universitario – e quello che si agita dentro di lei.
Come Tonio Kröger, “ha voluto mostrare a costo di che sangue ci si fa chiamare poeti: e l’errore di chi crede che si possa – cogliere una fogliolina sola dell’alloro dell’arte – sans la payer de sa vie”.
Con la vita Antonia ha pagato il prezzo della sua voce, delle sue parole, materiche e viscerali, quel suo “bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina” – come diceva di lei Eugenio Montale, uno dei pochi intellettuali dell’epoca ad aver colto il suo valore.

Gli ultimi mesi di vita di Antonia sono un groviglio di emozioni contrastanti e immagini allucinatorie. Quella di un angelo, soprattutto, che la prende per mano, lassù, tra le montagne, mentre lei si sente “come un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora”. È lì, a Pasturo, che, nella lettera di addio scritta ai genitori, chiede di essere sepolta, “sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro”. “Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato”, aggiunge, “e non piangete, perché ora io sono in pace”.

Qualcosa di Antonia è rimasto tra quelle cime, in quella casa – dove ora si trova l’Archivio Pozzi, in cui sono custodite le memorie della poetessa e molte delle fotografie da lei scattate.
Mi piace pensarla ancora lì, “In riva alla vita” come è sempre stata e come scrive in una splendida poesia del ’31 – che si può trovare nella raccolta Poesia che mi guardi (a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Luca Sossella Editore).

Ritorno per la strada consueta,
alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.

 

Francesca Ruina

Antonia Pozzi, voce “leggera” del Novecento che ha colto l’essenza della vita e del mondo

Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e…Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia Pozzi cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo.

Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato di Cesare Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia Pozzi chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini.

Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia Pozzi: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.

Nel 1930 Antonia Pozzi entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann.

Antonia Pozzi tra poesia e fotografia

Intanto Antonia Pozzi è divenuta “maestra” in fotografia, che con la poesia rappresenta per Antonia un’altra voce della verità: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.

Come ha giustamente affermato lo studioso Marco della Torre«la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo».Così scriveva qualche anno fa Dino Formaggio, che frequentò intensamente Antonia Pozzi negli anni universitari. Un commento audace, ma ormai sempre più condiviso. Del resto, già molti anni prima, Eugenio Montale annotava nell’edizione mondadoriana di Parole: «Tecnicamente la sua lirica deriva dal verslibrisme del principio del secolo e da certe esperienze di Ungaretti: voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina […]. Un’aerea uniformità era il suo limite più evidente: la purezza del suono e la nettezza dell’immagine il suo dono nativo».

Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.

18 settembre 1937

 

Fonte:

.Biografia

‘Le Sacerdotesse del quotidiano’, l’omaggio di Donatella Basili a tre grandi poetesse

Le Sacerdotesse del quotidiano è un libello che non deve ingannare per le sue dimensioni. Provoca un piacere inedito leggere pagine dense di poesia, profondità e di eleganza stilistica che omaggiano dignitosamente tre grandi poetesse: Emily Dickinson, Antonia Pozzi e Sylvia Plath.

Donatella Basili, l’autrice di questo sorprendente saggio del 2005, delinea in punta di penna i momenti più significativi della vita e dell’esperienza esistenziale di queste tre donne dotate di un animo delicato e, al tempo stesso, coraggioso. Le Sacerdotesse del quotidiano lascia, senza scadere nella referenzialità saggistica, che sia il suono dei versi di queste tre sacerdotesse a toccare le corde emotive del lettore senza risultare una lezione cattedratica. Donatella Basili non si sostituisce alle poetesse, non fornisce una pedissequa parafrasi dei loro lavori e non si limita ad una fredda biografia. Al contrario ne coglie luci e ombre con la sensibilità necessaria a tracciare delle linee che possano incuriosire e coinvolgere il lettore, sia esso già un affezionato estimatore o un neofita.

La disamina sensibile di tre figure femminili molto diverse ma accomunate da uno sguardo che più che verso il mondo è proiettato sul proprio io interiore, fa ben comprendere perché le voci di Emily Dickinson, Sylvia Plath e Antonia Pozzi ancora oggi abbiano ancora molto da raccontare. L’autrice riesce in modo ineccepibile a dare sostanza a queste voci meravigliose, attraverso un lavoro che si inserisce in una prospettiva prettamente emotiva e che ha come punto di fuga una sorta di tragico sussurro.

Una dimensione sospesa, che non ha tempo e luogo, si delinea come un viaggio estremamente interiore. Donatella Basili indaga nel loro io, scava nelle loro emozioni e attraverso la scrittura asciutta e poetica al contempo, traccia i contorni dell’Io più nascosto. Attraverso le coordinate cartesiane riporta su di un grafico immaginario, che coincide con la coscienza di sé, le percezioni della Dickinson, della Plath e della Pozzi, nel tentativo di dare una forma razionale ad esperienze che fuggono, scivolano tra le dita e che sanciscono la caducità dell’esistere umano.

I punti di contatto con la realtà svaniscono pagina dopo pagina e predomina una poetica surrealtà. La voce narrante calibra le parole in modo che restino aggrappate sulla pagina e rintocchino nel cervello del lettore. Nulla è immediato, c’è un’urgenza che è quella del comprendere ancor prima che del sentire. Lo sguardo è disincantato, l’analisi a volte amara non è per nulla scontata.

In Le Sacerdotesse del quotidiano, uno dei protagonisti è il tempo. Quello della Basili che segue un raffinato file rouge, quello delle tre voci delle poetesse che accompagnano chi legge e quello del lettore stesso, che deve riflettere, assaporare le parole, fermarsi su di esse per comprendere un testo che non può essere divorato, come la narrativa degli ultimi tempi. Appropriarsi dei tempi della lettura per goderne appieno il piacere. Solo allora anche le emozioni comparteciperanno alla comprensione.

Lo sguardo sulla realtà è affidato alle composizioni poetiche, funzionali al testo per determinare un climax che lascia il segno.I versi raccolti con dovizia dall’autrice sono passi in punta di piedi. I movimenti cadenzati accompagnano parole sbriciolate su pagine opache ed evidenziano quanto le tre poetesse, più di altri, abbiano dedicato una ricerca personale che verte anche sulla parola. Quest’ultima è ancella e unica testimone di emozioni,  corrono il rischio di sbiadire nel tempo e la Parola salva dal vuoto di sogni.

Le sacerdotesse del quotidiano si fa necessità e vera urgenza che si manifestano nel tentativo di recuperare la virtù dell’ascolto, del non lasciarsi sopraffare dal vuoto dell’ovvietà. Lo sguardo delle tre poetesse si risolve in brevi tocchi, nel momento in cui nell’impossibilità del dialogo, anche le parole rischiano di precipitare nel nulla. Così i sensi divengono l’unico ausilio sincero, inequivocabile, per afferrare ciò che è destinato a mutare.

Emerge in queste pagine un’estetica del silenzio, il vero rumore di tre anime disabitate. Si avverte a fior di pelle l’amore, il fascino per la parola, per i suoni, sino alle sillabe. Un ulteriore difesa adottata dalle tre sacerdotesse sono i ricordi, i più quotidiani senza particolari iperbole, che appartengono ad una musa silente, la quale si aggira sonnambula tra le pagine di questo piccolo manufatto screpolato.

Gli intrecci di pensieri e i sospiri segnano i contorni di una miniatura impressionista. E in questo sbottonarsi di pensieri, di digiuni infiniti, Le Sacerdotesse del quotidiano recupera una sorta di densità che solo le attese sono in grado di provocare.

Indubbiamente quest’opera è un delicato flusso di pensieri che merita di essere goduto con un adeguato sottofondo musicale e una luce quasi crepuscolare, per valorizzare l’intensità di versi sussurrati.

‘Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni’, di Francesca Pellegrino

 

“Tanto che andrò di ruspa / e sangue / sul disordine dei fiori / pestati”. Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni è una piccola raccolta di poesie reca la firma di Francesca Pellegrino. Nonostante sia stata pubblicata nel  2009  resta ancora oggi un esempio positivo su quanto la poesia contemporanea possa ancora considerarsi un luogo vivo e in grado di significare. Si scrive sempre meno intorno alla poesia e si potrebbe pensare che interessi pochi estimatori. Tuttavia le parole, se adoperate non come slogan pubblicitari, conservano un intenso grado di suggestione tale da riuscire a raccontare in un solo colpo un intero mondo o squarciarne di nuovi.

La cornice che circonda l’io poetico, in Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni, appartiene alla quotidianità. Quest’ultima è fortemente interiorizzata da Francesca Pellegrino e le consente di conferire concretezza ad uno scenario emotivo fatto di macerie. Eppure da un animo tormentato, apparentemente arido, scorgano versi vibranti (“Ci sono cose trasparenti e / fragili / tra me e il mondo”). Più le emozioni sono dolorose più la pagina e la scrittura divengono il mezzo per esprimere in un grido autentico quel che più volte la poetessa fa sentire come strozzato in gola.

I componimenti non sono forgiati da una bocca muta ma capace di comunicare al lettore lo strazio destabilizzante di una sofferenza lacerante. Il risultato è ammirevole, merito anche di un labor limae accurato intorno alla parola, alla punteggiatura e alla combinazione surreale tra le parole stesse. Francesca Pellegrino si configura come una nuova artigiana della parola, mossa dal desiderio di ricostruire, come in mosaico, i tasselli della propria anima spezzata.

Questa raccolta dimostra quale affabulazione ancora oggi la poesia possa esercitare sul lettore. La poesia, forma d’espressione che nasce dalle frontiere del proprio io,  è in grado di elevarsi al di sopra della mediocrità da cui è affetta molta della nostra letteratura, vittima della banalità più disarmante e nauseante. Un cuore in decomposizione che infetta la pagina e vibra ad ogni rilettura.

Il testamento d’amore, di un amore travagliato, corrotto, si infrange contro i limiti della realtà e la portata devastante caratterizza ogni singola pagina. Dopotutto quello che sopravvive sono il dolore e i ricordi di una identità che si è fusa con un’altra nell’ebbrezza di un sentimento caduco e a quel punto restano solo cumuli di macerie a cielo aperto. Ed è da questa contingenza inopinabile che la poetessa mette insieme i cocci, consapevole di dovere riaprire vecchie cicatrici. Si ritrovano la carne, le lacrime, i rancori, il bisogno di perdersi nell’altro, di afferrare quell’ebbrezza pur di dimenticare la realtà. E cos’è quest’ultima se non un odioso compromesso dai volti anonimi? Ritrovare un attimo autentico appare vitale, anche se fugace e tra lenzuola di oblii restano amare solitudini. L’amore, il più ipocrita dei sentimenti, può diventare dunque una trappola, una forma di tradimento verso se stessi che si esaurisce lentamente e non senza cognizione del dolore che esso contempli.

Il risultato è un acrilico sentimentale. Francesca Pellegrino è una voce sincera che sa raccontare ma che è anche in grado di mormorare sulla pagina parole che restano incise sotto la pelle del lettore. Notevoli sono i punti di contatto con la poetica di Sylvia Plath che conferiscono a questa raccolta in versi un raffinato valore.

Un lavoro originale che conferma che un buon ‘romanzo’ non può misurarsi dal numero di pagine ma dalla densità con cui è forgiata ogni singola riga. Un’opera d’arte che sorprende e toglie meravigliosamente il fiato.

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