‘Nel cuore di una bimba, nella luce di una stella’, la favola nera di Arrigo Geroli

Nel cuore di una bimba, nella luce di una stella è un romanzo dello scrittore Arrigo Geroli per la casa editrice Nulla Die, 2020

Si tratta di una favola nera dalle tinte horror, ambientata nel 2017 ma ricca di rimandi alla Milano ancestrale, che ho scritto con l’intento di trattare il tema dell’inganno e dell’aberrazione dell’amore. Attraverso mondi paralleli e miti celtici, oceani di farfalle e patti di sangue, Ageroli tenta di offrire al lettore spunti di riflessione sulla paura e il desiderio di crescere; la perdita del senso della vita in seguito all’indipendenza di chi si ama; l’attaccamento insensato a un’esistenza indecorosa, e l’assenza di luce che traveste la violenza subita in amore.
I protagonisti del romanzo sono Alba, una bambina speciale a cui viene impedito di crescere; la madre Clara, una giovane disposta a tutto pur di non arrendersi all’AIDS; Gio, una strega che uccide i figli dei propri amanti con l’aiuto dei loro padri; Grada, Alina e gli abitanti dei Giardini della Luce, ultimi superstiti della Milano precristiana. Uno scenario affascinante quello che ha scelto Geroli, il quale sembra non risparmiare una certa dose di ironia affinché il lettore esorcizzi le proprie paure, per ambientare la sua favola nera, tra Basiliche Palatine e Ambrosiane, costruite subito dopo l’editto di Milano emanato da Costantino.

Nel cuore di una bimba, nella luce di una stella, un estratto

Una tempesta si abbatte sulla casa nel bosco di Clara e della figlia malata Alba, provocando dei danni che il loro tuttofare Gustino si affretta a riparare. L’uomo, un gigante down dai modi gentili, prima di far ritorno in città dalla sua compagna Morena, avvisa Clara di strani segni simili a dei graffi su una parete dell’edificio. Intanto, a Milano, una coppia di giovani sposi attende insieme alla polizia una possibile chiamata da parte dei rapitori di Sofia, la loro neonata, trafugata in piena notte mentre dormivano. Parzialmente ripresasi, la piccola Alba litiga con la madre e si spinge a passeggio nella sua amata foresta, ma, dopo essersi appisolata, un incubo risveglia le sue paure e la costringe a fare ritorno da Clara, con i piedi nudi martoriati dai sassi.

Dal dialogo del colonnello dei carabinieri Cinti con un suo collaboratore, si evince che alcune telecamere del palazzo hanno inquadrato la misteriosa rapitrice della piccola Sofia, ma nessuno ha chiesto ancora un riscatto.

Tornato da Alba, ancora debolissima, Gustino la carica su una carriola e la porta a riposare sull’erba, in riva al Nirone. Accanto al ruscello, riesce appena a dirle che l’incubo del giorno prima è un’allerta del bosco perché qualcosa di pericoloso è ritornato, poi entrambi vengono investiti da un oceano di milioni di farfalle in fuga. Alba riesce ad abbatterle con la forza della propria mente, ma crolla stremata. Priva di sensi, con la febbre alta e le piante dei piedi miracolosamente guarite dall’acqua del ruscello, Alba viene apparentemente accudita dalla madre, ma la litania recitata dalla donna, che parla di querce, fiumi e della stella Sirio, ha qualcosa di inquietante. In riva al Nirone, una giovane coppia sembra godersi un picnic, ma, all’improvviso, la ragazza di nome Gio adagia un corpicino senza vita nelle acque gelide del ruscello. Accortasi dell’arrivo di Gustino, in preda ai sensi di colpa per aver fatto star male Alba, spinge il suo compagno a percuoterlo con una grossa pietra. Carlo, il padre della neonata rapita, si sveglia di soprassalto: nell’incubo è il compagno innamorato di Gio. Ritiene quel sogno così reale da lasciare moglie e poliziotti in casa e dirigersi nel parco dove scorre il Nirone, alla ricerca della figlia. Ma non è solo un incubo. Gio, insieme a Gustino, sanguinante per le ferite, si reca alla baita nel bosco e intima a madre e figlia di andarsene da quella che ritiene essere casa sua.  Dopo avere curato in qualche modo Gustino, Clara crolla stremata e viene costretta da Alba a rivivere in sogno un fatto terribile avvenuto molti anni prima, quando, pur essendo cosciente della propria sieropositività, ebbe un rapporto non protetto con un giovane, contagiandolo. La rabbia della bimba è motivata dal fatto di sentirsi usata da Clara e sua prigioniera.

Smarritosi alla ricerca della sua neonata nel Parco delle Groane, Carlo incontra due strambi astrofili che si lasciano sfuggire di pulsazioni anomale della stella Sirio osservabili solo all’interno del bosco.

Gustino convince Clara ad abbandonare la casa. La donna affronta una marcia terribile, con la bimba esausta sulle proprie spalle, e stremata riesce a raggiungere un bar immerso nella foresta che rappresenta l’avamposto tra la dimensione del bosco e quella cittadina. È lì che le due dovranno attendere Morena, la compagna di Gustino, educatrice di Alba nei suoi primi anni di vita. Alba rimprovera la madre di amarla solo per sentirsi viva, e di impedirle di crescere per paura di non riuscire a sopravvivere senza di lei.

Gio torna a occupare la casa liberata dalle due, ma quando si accorge dei disegni di Alba che la ritraggono nella sua orribile incarnazione di strega, non riesce a trattenere la propria ira e uccide Gustino.

Il barista, dopo avere rifocillato le donne, svela a Clara che nelle diverse dimensioni il tempo scorre in maniera tutt’altro che lineare; in particolare, in città passa molto più rapidamente. L’avvisa inoltre che Morena non verrà a salvarle perché le ritiene responsabili della morte di Gustino. Sconvolte per la notizia della morte dell’amico, madre e figlia vengono caricate poco dopo in auto da Carlo, disperato per non aver ritrovato la figlia. L’uomo confessa di avere avuto una relazione con una donna di nome Gio, conosciuta in una discoteca, e di avere letteralmente perso la testa per lei, arrivando a mettere in secondo piano moglie e neonata. L’auto subisce un incidente a causa dell’attraversamento di una femmina di cinghiale. Nel dormiveglia, Alba ricorda quando la Dea Belisama inviò quella stessa scrofa per indicare a una colonia di Celti il luogo dove edificare il villaggio che sarebbe poi diventato Milano. Alba era una di loro. La piccola segue l’animale e si allontana, abbandonando la madre e Carlo nei rottami. Oramai, tutti sono oltre il varco. Dopo un concerto nel bosco, Mary, una giovane chitarrista punk, incontra Alba. La bimba la condiziona mentalmente e si fa condurre a casa di lei per trascorrere la notte al coperto. Lì, i ricordi della piccola si mischiano a quelli della madre. La strega Gio si introduce in quella villa e tenta di ucciderla, ma la bambina prende coscienza di sé e ha la meglio.

Morena, la sua educatrice, subisce violenza da Beleno, l’essere divino per cui ha sempre agito; il dio la accusa di avere aiutato Clara, insieme a Gustino, a impedire a sua figlia Alba di smettere di crescere tramite la litania e le intima di condurla ai Giardini della Luce, per adempiere al proprio destino.

Le due chitarre avevano litigato pesantemente, in un intro lunghissimo e rabbioso in cui si erano inseguite e raggiunte più volte, urlandosi addosso. Poi avevano taciuto, e il basso e la batteria avevano iniziato a martellare scuotendo le ossa dei nove spettatori, fino a quando al grido di “I heard the news!” si era scatenato l’inferno.

Iniziare a suonare alle 21,10 come primo gruppo di supporto dei Punkreas, voleva dire anche questo: mendicare attenzioni e applausi a una manciata di “part-time punk” arrivati in anticipo per trovare parcheggio e tavoli liberi e ricavarne il nulla. Visti gli headliner della serata, l’interesse del pubblico per cinque disadattati devoti alle scabrosità di Roy Brown ed Elvis Presley era pressoché nullo; in più, a quell’ora, tra un assolo di chitarra e un piatto di costine la scelta era obbligata.

Il loro aspetto non è che aiutasse: se il chitarrista, devastato dall’acne e col ciuffone, non era propriamente un figo, il batterista, col collo da anaconda e i capelli di Frankenstein, sembrava pronto a entrare in una bara.

A ogni modo, dopo lo scetticismo iniziale, la loro carica devastante cominciò a far girare qualche testa. E se la bassista calva, con una sottile peluria sulle guance e i seni appena accennati, seguiva la falsariga dei primi due, la prima chitarra, una bella ragazza con una cascata di riccioli rossi e il body di pelle nera aperto a rombo sulla scollatura, risollevava clamorosamente le sorti, sensuale e distaccata sui suoi tacchi quattordici anche quando le esternazioni del cantante – un indemoniato a petto nudo, coi pantaloni di latex e le scarpe da donna – travalicavano i limiti del buongusto.

Il connubio tra la violenza della musica e il canto melodico, ma a tratti sguaiato, costituiva l’essenza dell’esibizione: una rielaborazione personalissima e distruttiva di rhythm and blues, rock’n’roll, punk e dark.

Un po’ troppo per chi si sentiva già appagato per essere riuscito a trovare la festa, spersa nel bosco senza la benché minima indicazione.

In ogni caso, dopo l’ultimo dei ventisei minuti conclusisi con la cover incendiaria di “A Cat Named Domino” di Roy Orbison, gli applausi si fecero un po’ più convinti, a prescindere dal fondoschiena superbo di Mary.

Roby e Alex, voce e chitarra, si erano conosciuti un anno prima, lavorando al mercato del pesce di Bergen nei banchi gestiti dagli italiani. Da ubriachi, una sera, a un concerto degli Scott Bradlee’s Postmodern Jukebox, avevano esposto le loro teorie musicali a Adrian e Liv, un ragazzo e, probabilmente, una ragazza del luogo; visti gli interessi affini avevano deciso di formare una band, anche se nessuno di loro aveva mai imparato a suonare.

Mary, la sorella di Alex, li aveva raggiunti un paio di mesi dopo da Milano, ma visto il suo impatto visivo e sonoro, era chiaro che se avessero voluto combinare qualcosa avrebbero dovuto tenersela stretta.

Da lì in poi avevano iniziato a girare l’Europa, togliendosi qualche piccola soddisfazione e autoproducendo un dodici pollici di cui non avrebbero mai ammortizzato le spese. In compenso avevano trovato da dormire e da mangiare praticamente ovunque, e per dei ragazzi che facevano centoundici anni in cinque poteva anche bastare.

Liberato il palco nell’attesa dei Prodotti Locali, la band che avrebbe suonato da lì a poco, i cinque caricarono il furgone e si cambiarono senza dire una parola, disperdendosi tra i chioschi della birra e delle salamelle.

Ogni volta, dopo un concerto, il copione era lo stesso, con lo sforzo di non rivolgersi la parola che raramente superava i venti minuti; poi, qualcuno particolarmente incazzato, di solito Mary, perdeva le staffe e cominciava a insultare e a rimproverare gli altri per la mancanza di disciplina.

Quando nel suo vagare la ragazza trovò Roby e Alex su una panca, con un bicchiere di birra e un piatto di costine davanti alla bocca, non li uccise solo perché era disarmata. Il loro discorso aveva preso una piega strana.

– Alex… tu, lo sai… che hai il vestibolo Darwiniano?

– Io?

– Sì, cazzo. È assurdo.

– Non sei il primo che me lo dice.

– No, dico sul serio. Con le tempie rasate le tue orecchie a punta si vedono da dio, non mi posso sbagliare. È un… una specie di retaggio che ci portiamo dietro dal nostro periodo arcaico, quan…

– Il vostro periodo arcaico non è mai finito, coppia di pirla!

– Ue’, sorellina! Hai fame? Prenditi una salamella.

– Vai a cagare te e la salamella.

I due, fumatissimi, scoppiarono a ridere, con le lacrime agli occhi e la stessa risata asmatica; ogni volta che erano in procinto di smettere si guardavano in faccia e ricominciavano da capo, coi crampi alla pancia, facendola andare sempre più in bestia.

– Mi spiegate perché perdiamo tempo e soldi a provare, se poi dal secondo pezzo fate tutti come vi pare?

Roby si pulì la bocca e si strinse nelle spalle. Senza rossetto e tacchi a spillo, in pantaloni e maglietta, era persino un bel ragazzo.

– Dai, Mary, lo sai che siamo così. Non suoniamo come la musica che passa alla radio… e poi lo hai detto tu che violenza e fascino stanno bene insieme.

– Ma che cazzo dici? Non ho mica detto che dobbiamo spegnerci! Ma io non voglio fare rumore! Senza disciplina non si va da nessuna parte. Ma è un concetto che le vostre teste di cazzo non riusciranno mai ad assimilare.

– Ma quanti “ma” hai detto? – obiettò il fratello.

I due si guardarono negli occhi e scoppiarono di nuovo a ridere, andando letteralmente in visibilio quando la ragazza gettò loro addosso la poca birra rimasta nei bicchieri.

– “Ma” andatevene affanculo!

Mary si allontanò, spingendo le unghie nei palmi e mordendosi la lingua, senza sapere dove andare. Con la gonna lunga a fiori, i sandali e la canottierina beige, se avesse trovato una macchina del tempo si sarebbe catapultata a Woodstock, a bere, fumare e scopare tutta la notte sull’erba, chiudendo un occhio sulla qualità della musica. Invece era lì, in mezzo al nulla, senza neanche aver mai fatto la patente.

Qualcuno stava iniziando ad arrivare e i ragazzi e le ragazze cominciavano a dedicarle delle occhiate, ma in trenta secondi aveva già perso ogni desiderio di farsi toccare.

Era volubile. Lo sapeva.

Adrian e Liv erano seduti al banchetto, senza guardarsi né parlare. Immobili e vestiti completamente di nero, sembravano due corvi. In un anno li aveva sentiti emettere dei suoni sei o sette volte, senza capirci niente.

Girò la testa dall’altra parte e si soffermò su una signora non più giovanissima, coi capelli corti a spazzola e le labbra scure, seduta a un tavolino misero tra lo stand di borse e quello di oggetti africani.

Una candela cambiava colore, illuminandole la faccia di verde e di bianco, ma il pezzo forte era costituito da una scritta a pennarello su un cartone sgualcito, appoggiato a una gamba del tavolo. Diceva: “Leggo il futuro”. E più sotto, in piccolo: “Ma tanto sai già come va a finire”.

Nonostante l’incazzatura, a Mary venne da ridere. Fece qualche passo verso di lei e le chiese il prezzo.

– Per te cinque euro.

– Sei brava! Hai già percepito che sono una poveretta?

La donna sorrise e fece di no con la testa, girandosi verso le due statue norvegesi: – Zero vinili e zero magliette vendute. Non voglio infierire.

Mary tolse la banconota dalla borsetta e si sedette, spostando i capelli su una spalla e accavallando le gambe.

– Che begli orecchini che hai, – notò la fattucchiera.

– La falce e la colomba. Non so che significato abbiano, ma li ho visti a un mercatino di Berna, prima di un concerto, e li ho presi. Ma sono una che cambia gusti abbastanza in fretta.

– Che cosa vuoi sapere? – tirò fuori le carte e iniziò a mescolarle, con un movimento lento e armonioso che catturò l’attenzione di Mary.

– Continua a mischiare ancora un po’. Ti dispiace?

– No, figurati. Per cinque euro, questo e altro.

Il mix di carne alla griglia e incensi africani era quanto di più ributtante si potesse respirare; ancora due minuti e avrebbe avuto le visioni anche un cadavere.

– Non ci credo a queste cose, – disse Mary, – a gente che dice di sapere che cosa succederà agli altri… o a se stessa. Ai preti e alle religioni, per capirci. Ma so che se ti comporti in una certa maniera hai più probabilità che determinati fatti ti accadano.

– Non credi in Dio?

– Dio? Boh, non lo so. Non so neanche come si prepara la carbonara, dovrei sapere se esiste dio?

– Beh… ti confermo che la carbonara esiste.

– Giura!

Sorrisero, poi restarono un po’ in silenzio.

 

Il bivio, di Arrigo Geroli

Il bivio (Lettere Animate Editore, 2015), testo d’esordio di Arrigo Geroli è un agile romanzo breve di 100 pagine che oscilla fra lo psicologico/introspettivo e il thriller/investigativo, e ambientato fra Milano, Lione e Bruxelles. La peculiarità di questo testo, tuttavia, è che si snoda lungo due percorsi paralleli: due personaggi, due serie di eventi, due stili narrativi completamente diversi, e che solo nel finale trovano congiunzione.

 

Il bivio: trama e stile

Il primo percorso è quello di Achille, un ragazzo apparentemente frustrato dal lavoro, pieno di turbe e psicosi, costantemente nel terrore che la ragazza con cui vive, Jenny, lo tradisca con l’odiato e disprezzato collega di lavoro Paolo. Il secondo è quello di Christian Charpentier, il quale è sulle tracce di Angelina, figlia scomparsa di Jean Michel e Marguerite Daudet, amici del padre, con il quale Christian ha un rapporto di amore-odio.

I due percorsi paralleli, così distanti in termini di plot e stile da sembrare due storyline separate(prima persona, uso del presente e linguaggio colloquiale per il primo; terza persona, uso del passato e linguaggio più complesso per il secondo), arrivano a convergere solo in fase avanzata, per poi incontrarsi “ufficialmente” nell’inquietantissimo finale al cardiopalma. È proprio quiche si scopre, infatti, che Jenny non è altro che il nomignolo di Angelina, e che Achille è in realtà una seconda, debole personalità di Paolo (si potrebbe pensare il contrario, tuttavia i colleghi di lavoro lo chiamano Paolo in presenza di Christian). Durante il breve romanzo assistiamo, infatti, alla discesa di Achille/Paolo nel baratro della follia, fra allucinazioni e distorsioni della realtà. La descrizione della “casa degli orrori” insonorizzata di Achille/Paolo all’arrivo di Christian è, poi, un momento altamente emotivo e climatico, nonché perturbante come pochi: da una parte abbiamo l’ordine e la pulizia di Achille («sulle mensole a muro, tra le decine di libri non ce n’era uno fuori posto»), dall’altra la follia omicida di Paolo («le tende, le pareti e i divani erano ricoperti da una quantità impressionantedi schizzi di sangue, persino troppi per appartenerea una sola persona»).

Il bivio: tra inquietudine e terrore

Il bivio è un romanzo che si legge di getto, ma la brevità e lo stile sono, al contempo, il suo punto di forza e di debolezza: se da un lato il testo scorre, soprattutto nella storyline dedicata ad Achille, dall’altro questa scorrevolezza potrebbe far perdere lungo la via dei dettagli importanti, utili alla comprensione del finale e del testo in generale. Consideratoil plot twist finale in stileSesto senso, è indispensabile che l’autore dissemini lungo il percorso dei dettagli, e che dia loro il giusto peso. Questo elemento, a volte, nella narrazione è assente: giusto alla fine il lettore comincia a essere vagamente consapevole di quanto sta accadendo, ma fino a quel momento è in balia degli eventi e non sa che pesci pigliare. La brevità in questo caso aiuta perché si arriva rapidamente alla conclusione, ma una costruzione più precisa avrebbe certamente aiutato a sostenere una trama più lunga.

Lunghezza che, oltretutto, sembra richiesta per approfondire personaggi, background e riflessioni che, a tratti, sembrano sospesi nell’aria, appena abbozzati. Sarebbe infatti stato interessante saperne di più sulla vita di Christian, sulla sua relazione con la defunta moglie Caterine (visto che l’autore ci tiene a battere il chiodo sul senso di colpa del personaggio); come sarebbe stato interessante approfondire la vita “pre-Jenny” di Achille/Paolo. 100 pagine sembrano in definitiva troppo poche per un testo che, per la sua costruzione e la sua ambizione, pare accennare a un enorme potenziale inespresso. Come se, tornando al Sesto senso, mancasse la scena iniziale in cui il personaggio interpretato da Bruce Willis muore per un colpo di pistola.

Nota dolente riguarda il Capitolo 11, nel quale Marguerite, madre di Angelina, si fa accompagnare dall’autista in quella che sembra essere una casa infestata («il paesaggio, inquietante e irreale, era la materializzazione di un incubo»). Qui trova una bambola appartenente alla figlia ma, prima di poter fare qualcosa, la donna viene inseguita da «due uomini [che], avvinghiatiin una strana morsa, si stavano gettando a capofitto sui gradini, bestemmiando e ostacolandosi a vicenda per la foga». Non avendo seguito nel romanzo, e risultando totalmente scollegato col resto della storia, non si riesce a capire cosa qui l’autore abbia voluto dire.

Per concludere è bene trattare di volata la “questione Lettere Animate”: anche qui, come in altri loro testi, sono presenti dei refusi. Solo due per fortuna, pur ripetuti per tutte le occorrenze: l’uso di “E’” al posto del corretto simbolo “È”; e l’uso alternato del trattino breve (“-”) anziché di quello lungo (“–”) per i dialoghi. Inoltre, ma questo è un elemento stilistico, si può notare un eccessivo uso delle virgolette alte per indicare, oltre a modi di dire, anche oggetti di uso comune («due “penne usb”, modem, i-pod e bloc-notes, squadrati e prontiall’uso, facevano bella mostra di loro sulla scrivania ben spolverata del “pc”»). Come sempre, questo editore dovrebbe mettere più impegno nell’editing e nella pulizia del testo.

Tuttavia Il bivio di Arrigo Geroli risulta un gradevolissimo e interessante romanzo, che dona momenti di trepidazione e piacevolezza. È un testo dai toni cupi, per niente scontato, e che tocca tematiche attualissime quali la violenza domestica, le alienazioni mentali, il dolore esistenziale.

Exit mobile version