Due capolavori di Daniele da Volterra eccezionalmente esposti alla Galleria Corsini di Roma

Fino al prossimo 7 maggio, la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma ospita due capolavori del grande pittore, decoratore e scultore del ‘500, Daniele Ricciarelli, meglio noto come Daniele da Volterra o “Braghettone”, ingiustamente ricordato nell’immaginario collettivo per aver messo le “braghe” alle figure degli ignudi di Michelangelo nel suo grandioso affresco del Giudizio finale della Sistina in Vaticano.

La mostra, curata da Barbara Agosti e Vittoria Romani, presenta la tela con Elia nel deserto (1545 circa) e la tavola con la Madonna con il Bambino e Santi (1548), opere custodite da centinaia di anni in una collezione privata senese, quella dei conti Pannochieschi d’Elci, cui pervennero per via ereditaria da Casa Ricciarelli e che, oggi, grazie alla stretta collaborazione con la settecentesca Galleria del cardinale Neri Corsini, sono accolte nel contesto museale per portare alla luce le due preziose opere che raramente sono state esposte al grande pubblico.

L’evento espositivo dal titolo Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci” mira ad offrire una rara opportunità di apprezzare da vicino i colori e l’originale maniera del grande artista toscano la cui vicenda artistica deve essere resa sempre più diffusa e che in questo spazio si vuole mettere in risalto il livello altissimo della sua pittura raggiunto in queste due opere riconosciute dalla critica capolavori, realizzati dal pittore a Roma negli anni in cui regnò Paolo III Farnese (1534 – 1549).

Daniele da Volterra e la lezione michelangiolesca

Come riferisce Giorgio Vasari nella biografia dedicata a Daniele da Volterra nella sua monumentale opera de Le Vite, non era ancora trentenne quando il giovane Daniele Ricciarelli (1509-1566), nato a Volterra, approdò a Roma, come molti artisti toscani. La scena artistica romana vedeva Michelangelo come il protagonista della committenza papale. Dai difficili esordi senesi presso il Sodoma e Baldassarre Peruzzi (come indica sempre Vasari), a Roma Daniele lavorò con la collaborazione di Perin del Vaga, allievo del grande Raffaello, e nell’orbita di Michelangelo, con il quale egli fu legato da un lungo e profondo legame di amicizia. Suo grande ammiratore, Daniele assorbì e reinterpretò la lezione michelangiolesca estrema, quella ormai elusa da ogni abbellimento di tipo naturalistico e che diventa, invece, frutto di una visione del mondo drammatica e angosciata nel gran numero di figure inventate, disegnate, concepite, ognuna a sé stante e liberamente sospese, nelle varie pose in una composizione straordinaria e innovativa: l’affresco del Giudizio finale (1536-1541). Daniele realizzò il diventato celebre ciclo di affreschi nella chiesa romana di Trinità dei Monti (1542-1549), ove nella Cappella Orsini oggi sopravvive soltanto il capolavoro con la Deposizione, probabilmente eseguito su cartone del Maestro, per il quale egli realizzò anche un busto in bronzo.

La sorte, però, volle che proprio Daniele da Volterra fosse il pittore incaricato da papa Paolo IV di coprire le nudità ritenute vergognose, in seguito al Concilio di Trento che aveva condannato le nudità nell’arte religiosa, legando per sempre il suo nome all’intervento di coprire con panni sottili dipinti a tempra sopra l’affresco originale, contribuendo invece al salvataggio del capolavoro michelangiolesco.

Da qui si arriva alle due opere in mostra che rappresentano il suo personalissimo stile segnato dall’incontro tra la tendenza manieristica di Perin del Vaga, il quale andò oltre il suo maestro, il grande Raffaello, e dal contatto con l’ultimo Michelangelo, suo grande ammiratore, nel momento espressivo del Giudizio finale e degli ultimi affreschi per la Cappella Paolina. Nella più antica, cioè il dipinto che vede il profeta Elia nel deserto, infatti, l’uomo presenta le forme muscolose e gigantesche tipiche del Maestro. Nella seconda, invece, con la Madonna col Bambino, San Giovannino e Santa Barbara, le figure sempre dalle forme entatizzate sembrano marmo più che carne e seguono un innovativo impulso alla perdita di schematico delle pose segnato da un profilo calligrafico con l’utilizzo di colori accesi e sgargianti che richiama la lezione del classicismo di tradizione fiorentina di Rosso Fiorentino, derivata dalla frequentazione di Perin del Vaga; costituendo un esempio eclatante dello stile della seconda fase della cosiddetta ‘maniera’ moderna.

 

Il progetto non ha previsto la necessità di restaurare le opere prima dell’eccezionale esposizione poiché esse si trovano in perfetto stato di coservazione ma una serie di riflettografie analizzate da Angela Cerasuolo, responsabile del Centro Documentazione Restauro della Soprintendenza, Museo di Capodimonte, hanno permesso di indagare all’infrarosso le superfici dipinte, circoscrivendo meglio la genesi creativa delle due opere, i loro caratteri stilistici e la datazione.

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