Saturno Buttò, corpografie e visioni sacre tra estasi e dolore

L’arte sacra al giorno d’oggi può fare scalpore e dare il via a polemiche sterili e sciocche; è il caso dell’artista veneto Saturno Buttò che cerca di entrare nell’animo umano attraverso la pittura in discontinuità con la tradizione pittorica, sottolineando gli aspetti più sgradevoli ed inquietanti che straniscono chi guarda aspettandosi di trovarsi davanti a un Beato Angelico o Annibale Carracci.

L’artista Saturno Buttò, ph Nicola Casamassima

Buttò sembra sfidare l’appassionato d’arte e non a vedere quello che non vogliamo vedere e che eppure siamo in grado di manifestare ogni giorni inconsapevolmente immersi nella frenesia e nella confusione della società contemporanea. L’artista veneto ci sbatte in faccia la caducità del corpo umano, le manie della mente umana, la pesantezza della nostra anima che si riversa sull’aspetto fisico. Il linguaggio artistico utilizzato da Buttò è magnetico: gotico, bizantino, fiammingo, barocco, nella sua migliore tradizione europea che ricorda artisti come Hugo van der Goes, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Jeronymous Bosch per la monumentalità di certe pose e per l’astrazione soprannaturale, fino ad arrivare ad artisti contemporanei come Joel Peter Witkin, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano per il modo di concepire la preparazione della tavola come se fosse una scena di un set fotografico e una certa teatralità dello spazio e dei soggetti che lo occupano.

2017 Red Mass, olio su tavola cm. 120×120.

L’intera produzione di Saturno Buttò è una visione di disperazione, dolore, sangue, erotismo, aspirazione verso l’Alto: la rappresentazione della realtà, sviscerata in una rigorosa e contraddittoria iconografia religiosa occidentale nei confronti del corpo, da un lato esibito come oggetto di culto, dall’altro negato nella sua valenza di pura bellezza erotica che promette il paradiso, è anche intesa in senso simbolico da cui scaturisce una tensione che esalta la figura umana presentata una volta con “toni elevati” altre con quelli dell’abbiezione.

VENETIAN MASKS BAUTTA, MORETTA COLOMBINA 2010, olio su tavola 140×100

Le paradossali figure umane di Saturno Buttò, attori e attrici dark della loro indole, potrebbero vagabondare tranquillamente in un romanzo di Dostojevskji o Bulgakov, divisi tra il Bene e il Male, tra voglia di salire al Cielo e quella discendere nel sottosuolo, portando sulle spalle il fardello della libertà che è il vero abisso che affascina tutti: Buttò ci fa vedere quanto siamo attratti dal male, ma la sua scoperta e intellegibilità significa anche vittoria e bellezza tanto cara all’artista, perché possiamo essere certi che il mondo di può conoscere e persino nell’inferno terreno, possiamo vivere di attimi che hanno del miracoloso. Gli uomini e le donne di Buttò sono entità che de-creano, cercando di smarcarsi da menzogne idealizzate per giungere alla verità soprattutto attraverso la sensibilità più che con la ragione. I visi e i corpi dei suoi protagonisti (soprattutto donne a volte illuminate dalla Grazia il più delle volte invece luciferine, richiamano alla mente alcuni versi terribili di Baudelaire: “Ahimè! Tutto è abisso – l’azione, il desiderio, il sogno, la parola! E tra i miei capelli che si rizzano completamente sento passare di frequente il vento del Terrore”.

2012, Pietà Oil on wood, 80×97

Non solo. Come cantava il celebre poeta francese, le tavole (non tele, a dimostrazione che la sua arte vuole inserirsi nella grande tradizione pittorica del Quattrocento, Cinquecento e Seicento) di Buttò sembrano esprimere al contempo un senso di attrazione e repulsione per il mondo contemporaneo e per l’essere umano stesso che è il medesimo da sempre. D’altronde gli incubi hanno origine divina e l’artista di Portogruaro innalza la decadenza mentale che corrisponde a quella fisica, a stato demoniaco che ha la stesso valore sacrale e solennità delle opere bizantine e classiche, mostrando come lo stesso concetto di “sacro” sia ambiguo”. La rappresentazione degradante della sensualità, propria di Baudelaire, e in particolare delle combinazioni donna-desiderio-morte-decomposizione rispondono ad una tradizione cristiana sempr esistita, specialmente verso la fine del Medioevo, che nella personale interpretazione di Buttò diviene rappresentazione di uno sterile appagamento dei sensi dell’uomo contemporaneo in una visione di artificiosità. A differenza di Baudelaire, Buttò è artista divertente e divertito, ludico che ancora non sa se credere o meno, certamente cerca, osserva, è attratto dalla spiritualità come se questa fosse un magnete, e la cupezza religiosa che ha grande potere evocativo, quell’oscurità che ha sempre accompagnato la fede e di conseguenza anche l’arte.

2013 The unnatural human history, Oil on wood, 35×46

Sorprende come un’opera in particolare, ovvero “Blade Lovers” possa richiamare alla mente le parole del poeta maledetto in merito all’amore: “L’amore è molto simile a una tortura o a una operazione chirurgica. Anche se i due amanti sono molto innamorati e colmi di reciproci desideri, uno dei due sarà sempre più calmo o meno invasato dell’altro. Quello, o quella, è l’operatore, ovvero il carnefice; l’altro, o l’altra, l’assoggettato, la vittima”.

L’amore dunque, anche per Buttò può avere sia l’aspetto romantico, dolce, che quello balordo e ubriaco, che ha il colore del sangue, una sete carnale dunque; così come la Natura, seguendo ancora il pensiero di Baudelaire, non ha nulla di bello, è solo caos e abominio divino, contro il quale l’uomo può combattere possedendo lui l’arma della bellezza, la sua bellezza, che è artificio ed imitazione della natura stessa.

2017-Zoe-70×67, Olio su tavola

L’altra componente quasi sempre presente delle opere di Buttò è il sangue che ha valenza sacra, rituale, sessuale, vitale, alimentare. Il sangue, come dice anche la Bibbia è il sostrato materiale della vita del corpo che è a sua volta l’unità di misura dell’artista veneto che si muovo tra purezza e impurità. La vita, di cui il sangue come sostanza è principio, impregna la “carne”, basti pensare che nei primi cinque libri dell’Antico Testamento la parola “carne” è quasi del tutto priva di una connotazione morale negativa, nella misura in cui denota tutta la materia organica dotata di vita.

DEATH AND THE MAIDEN 2020 olio su tavola 70×70 cm

Dati questi elementi, si può affermare che Buttò, riprendendo le parole dell’antropologa Camille Paglia, ignori l’armonia, l’ordine e la bellezza della Natura dietro un apparente caos che chiamiamo tale solo perché non siamo in grado di riconoscere determinati segni, flussi e cicli. Il caos è tutto nella mente e nella visione spesso distorta dell’uomo, che Buttò vestendo spesso i panni del dandy, rappresenta nelle sue sfumature, compresa quella dell’insofferenza verso tutto ciò che è naturale. Anche dietro l’apparente blasfemia e pornografia (che non è una sorella dell’arte, come sostiene l’artista, semmai una banale deriva che prende chi non sa fare Arte anche un urinatoio) delle opere di Buttò. Si legge dunque un desiderio di veicolare bellezza, ironia e gioia di vivere, dando voce alle pulsioni e ai mutamenti (anche sessuali) dell’uomo, persino del santo, del martire, ai suoi riti primitivi e quotidiani, alle ierogamie, alle messe nere, lasciandoci con almeno un paio di domande: l’estasi religiosa è anche un’esperienza sessuale che è semplicemente una prova che si è vivi? Bisogna davvero annientare il proprio corpo per avvicinarsi a Dio? E una quasi certezza: il mondo sotterraneo, buio e pauroso non è la sede del male e delle tenebre, ma anche in esso vive la nostra anima. Ciò che sta sotto non sempre è sinonimo di degrado, ma può significare semplicemente profondità. Quella profondità che non capiamo da dove provenga ma che ci fa vivere anche “involontariamente” come ci mostrano molti dei personaggi di Buttò che hanno la “tentazione di esistere”, per dirla alla Cioran e come Cioran, l’artista veneto, esorcizza i nostri fantasmi, sublimandole tenebre per approdare all’amore, profumando i protagonisti delle sue opere, che apparentemente sanno di marcio, incastonandoli nella solennità dell’arte metafisica e nella bellezza del soprannaturale.

2019, RH negative, Oil on board – 70 x 70 cm

La carriera espositiva di Buttò comincia nel 1993, anno in cui viene pubblicata anche la sua prima monografia “Ritratti da Saturno: 1989-1992″. Da allora seguono numerose esposizioni personali in Italia, Europa e negli Stati Uniti. Oltre ad altri due volumi monografici “Opere 1993-1999″ e “Martyrologium” (2007), la galleria Mondo Bizzarro di Roma in occasione della recente mostra ha pubblicato l’ultimo catalogo in ordine di tempo: “Blood is my favourite color” (2012).

Chiara nails-2010-Oil on wood cm. 100×70

 

 

 

1 Cosa l’ha spinta verso l’arte sacra?

Il sacro è prima di tutto un interesse legato alla nostra cultura e al senso di appartenenza piuttosto che alla devozione in sé. Inoltre la spiritualità, nel mio lavoro, è una parte della ricerca che vuole indagare sulla natura umana nella sua completezza. Tuttavia credo di aver avuto, da sempre, una certa “attitudine” per il trascendente. Sono affascinato dalla liturgia cristiana, il suo cerimoniale, la musica sacra. Insomma la monumentalità espressa nel rito liturgico. Poi, naturalmente, c’è l’arte figurativa, italiana ed europea quella che va dal ‘400 al ‘600 che, per quanto mi riguarda, ha dato un contributo essenziale in questa direzione.

 

2 C’è più luce o oscurità ad avvolgere il il sacro e la fede religiosa?

Ancora oggi io non riesco capire se sono un credente oppure no. Rimane il fatto che questo “mistero della fede” è un’altra grande questione che alimenta il mio immaginario. Non dimentichiamo che è il mistero e tutto ciò che non conosciamo a renderci curiosi. Senz’altro ci vedo più oscurità che luce nel fenomeno in sé . Questo perché non ho una grande considerazione dell’uomo, in generale. Al di là di una personale e intima spiritualità, spesso non ben definita, nella religione ci vedo tutte le “debolezze” di una politica coercitiva. Probabilmente necessaria, ma assolutamente troppo invasiva. Dove, di fatto, non c’è coerenza, anzi, dove ci sono tante contraddizioni. Tuttavia è anche proprio in questa “oscurità” che la mia immaginazione trova alimento… é in un contesto così poco trasparente che nascono e si rinnovano continuamente le idee, che si rivelano essere esercizi di emancipazione. Io lo devo ammettere, la “cupezza” della nostra religione è stata sempre molto evocativa.

3 Cosa considera sacro l’uomo contemporaneo e perché?

Non sono un sociologo, ma, per quello che vale, posso esprimere la mia opinione sulla base di quello che percepisco quotidianamente. Ormai l’informazione e in un qualche modo la cultura sono appannaggio dei più. Questo ridimensiona molto il senso del sacro tradizionale. Oggi si tende a celebrare l’idolo più del dio. Non è particolarmente edificante come condizione, ma basta osservare le tendenze giovanili per capire che c’è più attenzione verso una rock star che per Gesù. Insomma io vedo una graduale e continua disgregazione dei valori sacri e la colpa è anche della chiesa che non si apre mai abbastanza in fretta ai cambiamenti sociali.

2020 – Surgical Decoration-60×60 oil on board

 

4 Le sue opere traboccano si sensualità, inquietudine, gusto per il gotico e per il grottesco, ma anche di spiritualità e ricerca di profondità e del definito, in questo modo vuole solo rappresentare la figura umana di oggi o la sua è una riflessione sull’uomo di ogni tempo?

La mia vorrebbe essere una riflessione sull’uomo nella sua completezza, non considero la natura umana così diversa nel tempo. I temi dominanti rimangono sempre gli stessi e primi fra tutti sessualità e spiritualità, appunto. Tuttavia io vivo il mio tempo storico. E dunque mi pongo in relazione al soggetto attraverso tutte le implicazioni possibili oggi. Nel dipingere una figura umana contemplo la sua personalità insieme all’archetipo, questa osservazione genera una condizione di identità e identificazione che ne determina la contemporaneità!

5 I suoi personaggi sono in tensione tra Alto e Basso, tra erotismo e dolore, purezza e degrado. È

questo per lei il sublime artistico?

Direi assolutamente si! Diversamente agirei con altre forme e contenuti. Come accennavo sopra la priorità è determinare una contemporaneità nell’esecuzione di un opera e questo si manifesta (nel mio caso) con una visione a 360 gradi sull’individuo. Contemplandone ogni dettaglio, per quanto disturbante. Una formula obbligata se non si vuole scadere in una sorta di arte decorativa fine a se stessa.

6 Quali artisti l’hanno influenzata maggiormente?

L’arte ellenistica, il nostro rinascimento e in qualche modo il glamour Hollywoodiano sono stati un grande stimolo per la mia ricerca. Devo aggiungere anche alcuni fotografi contemporanei: Joel Peter Witkin, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano sono stati di ispirazione per il mio lavoro. Non ho trovato invece riferimenti nella pittura del ‘900. Fatta eccezione per Francis Bacon non mi sono mai sentito particolarmente interessato verso altri artisti figurativi. In sintesi il modello sul quale baso il mio lavoro è un connubio tra l’arte classica (supporto tecnico) e una ricerca fotografica non documentaristica (parte concettuale).

Icon of virtue ,oil on wood 70×70

7 L’arte contemporanea che ha successo è solo quella riproducibile e concettuale?

Io direi proprio di sì. Ed è giusto che sia così. Lo affermo mio malgrado, dal momento che la mia ricerca va in direzione opposta. Ritengo cioè un punto alto l’unicità e non riproducibilità dell’opera. Purtroppo il problema di questi media (mi riferisco a pittura e scultura) è, quasi sempre, la totale mancanza di originalità, di contemporaneità della rappresentazione. Una sorta di anacronismo che permea il lavoro di pittori e scultori tradizionali, concentrati perlopiù a dimostrare la loro bravura tecnica piuttosto che rischiare l’impopolarità inseguendo percorsi più originali. Ci sono delle eccezioni (almeno lo spero, naturalmente), ma è un po’ come è successo nel secolo scorso con Lucien Freud, Balthus, Bacon stesso. Pochi artisti di grande personalità semplicemente “non allineati” e dunque ingestibili da un sistema che si basa sui numeri del mercato dell’arte.

2020 La sposa ebbra 120×120

8 Ne “La sposa ebbra” sembra consumarsi un rito laico dove il vino rende possibile l’estasi cristiana delle sante che però assume risvolti bizzarri…

In un qualche modo lo si potrebbe leggere anche così. Del resto è mia opinione che molti siano i punti in comune tra Paganesimo e Cristianesimo. In questo caso, dal sacramento del matrimonio, la sposa e le due damigelle si trasformano in sacerdotessa e baccanti di chissà quale rituale, grazie al vino. Il mio intento era quello di manifestare una idiosincrasia verso le regole in generale. Molto sinteticamente: il caos dionisiaco che prende il sopravvento sull’ordine apollineo.

9 L’arte contemporanea esprime poetiche complesse proprio nel superamento interdisciplinare delle dicotomie tra uomo e tecnologia. Lei come si pone di fronte a questo fenomeno?

E’ prerogativa dell’arte anticipare cambiamenti e mutazioni di ordine sociale. Sempre di più siamo testimoni di un percorso nuovo intrapreso dall’umanità che ci porterà a convivere con situazioni dove la dicotomia uomo-tecnologia non sarà più tale. E’ una riflessione che mi accompagna da molto tempo, tuttavia non credo di avere gli strumenti tecnici adatti per esprimere compiutamente tale fenomeno. Decisamente i media extra-pittorici si riveleranno più adatti. Con l’arte figurativa per non scadere in “banali soluzioni illustrative” bisogna porre l’attenzione a piccoli dettagli capaci di far intuire tali poetiche. Un percorso più difficile, ma non improbabile… In fondo è proprio questo il problema delle arti tradizionali rispetto ai nuovi media, lo stesso concetto espresso poco sopra. Se non si è capito, io sono decisamente critico nei confronti dell’arte figurativa. Compresa la mia s’intende.

10 Cos’è per lei il corpo? Il Cristianesimo è l’unica religione secondo la quale a risorgere saranno anche i corpi, tanto che un teologo di cui non ricordo il nome sosteneva che se si vuole sapere se una persona è davvero cristiana bisogna chiederle se questi crede alla resurrezione dei corpi o all’immortalità dell’anima, la Bibbia pullula di erotismo. Insomma il corpo siamo noi? È la nostra  identità che la contemporaneità indica come un retaggio culturale, una sovrastruttura, che si può cambiare?

Il corpo è la mia unità di misura! Nel mio lavoro mi sono sempre rapportato al corpo, prima (in quanto forma) e solo dopo alla mente (deve essere per deformazione professionale). I vari detti popolari tipo: “Mens sana in corpore sano” non sono poi buttati lì a caso. Dunque per me è il punto di partenza, senza il quale mi sentirei incapace di pensare in termini creativi. Naturalmente il corpo è anche bellezza, rivelazione, desiderio e mistero (ancora una volta). Il Cristianesimo è la religione del corpo, ed io nutro una profonda riconoscenza, proprio in virtù del fatto che essa lo ha celebrato e reso oltremodo iconico. Un percorso iniziato dai greci che caratterizza l’occidente nella sua visione del mondo in cui io, semplicemente, mi riconosco. Detto questo però non oso affermare che il “corpo siamo noi”. Non ho e non ci sono certezze e qui ritorniamo al “mistero della fede” sopra espressa. Posso invece aggiungere che il corpo umano si modificherà! Come tutto del resto del creato, anche noi viviamo in una continua trasformazione. Forse qualcosa di importante in questa direzione è già iniziato, prevedo una fusione tra generi maschile e femminile relativamente presto. Sempre che si riesca a salvare il pianeta nel frattempo.

Damson e Lola 2-2003- Oil + gold on wood cm. 160×100

11 I protagonisti delle sue opere sembrano essere spiate più che accompagnare, guardate con amorevolezza da Dio, è in parte così?

Ma certamente! Questo è un retaggio della religione cattolica che ci ha inculcato idea del peccato. Cosa che trovo stimolante sia ben chiaro. Anche perché poi viene contemplato il perdono, seppur dopo un sincero pentimento e qui si potrebbe discutere… Comunque sia, le mie rappresentazioni hanno, molto spesso, a che fare con un rituali considerati peccaminosi o comunque con pratiche decisamente intime legate sia alla religiosità che alla sessualità. Questa è la ragione per cui le scene si svolgono in ambiti dove non c’è luce naturale. Stanze chiuse, luce controllata artificialmente, una messa in scena quasi teatrale dove i protagonisti compiono un determinato rituale, intimo perlopiù, forse rivolto a pochi iniziati… in definitiva è la giusta osservazione da fare: il fruitore diventa un privilegiato voyeur intento “spiare” ciò che nell’opera sta accadendo.

12 L’esposizione che l’ha gratificata di più?

Ci sarebbero più esposizioni personali a cui sono particolarmente legato da bei ricordi, a Roma, Los Angeles e San Francisco. Ma citerò la personale di Spinea VE del 2018, perché la location era speciale. Non una galleria ma una chiesetta del ‘600 dove le mie opere dialogavano con gli affreschi del luogo. Inoltre per l’occasione ho realizzato quella che per me potrebbe rivelarsi come l’unica pala d’altare possibile “Paradise Decadence” (giusto perché si trattava di una chiesa sconsacrata).

13 Le sue tavole paiono volerci dire: accettare il Mistero della fede, della Vita, solo così possiamo in parte placare le nostre ossessioni e relazionarci a Dio, in tal senso, il tormento è un passaggio necessario?

Difficile rapportarsi alla vita escludendo tormenti interiori. Però possiamo ironizzare…

14 Cosa pensa dia più fastidio o irriti delle sue opere e cosa vorrebbe irritasse di più in senso positivo, smuovendo qualcosa in chi li osserva?

Credo che le persone, ancora oggi, si aspettano di osservare in un dipinto figurativo temi conformi alla tradizione pittorica. Dunque soggetti come il paesaggio, la natura morta e il ritratto. E nel caso di quest’ultimo, che esso sia sostanzialmente “composto”. Delegando alla fotografia o altri media extra-pittorici diciamo così, “tematiche diverse”. A me invece diverte l’idea di toccare corde più profonde, dipingendo! Escludendo paesaggi e nature morte che non mi appartengono, nel rappresentare la figura umana voglio entrare nel profondo dell’anima. Mettere in rilievo aspetti del tutto personali, intimi. Evidenziarne fragilità e debolezze. Il desiderio, la libido, le parafilie. Sottolineare la transitorietà e caducità dell’aspetto fisico. E, soprattutto, ribadire quanto siano vicine tematiche come la sessualità e la spiritualità. E’ del tutto normale che qualcuno trovi disturbante il mio modo di rappresentare il mondo. Ma a me sta bene così! Sono in pace con me stesso e non mi interessa il giudizio. Sono consapevole di quanto tutto sia estremamente relativo.

15 Qual è il suo archetipo preferito?

Mi viene in mente “La Grande Madre” e l’origine della bellezza. Che poi è anche l’origine dell’arte. Cito Camille Paglia: “Tutto ha inizio dalla natura ctonia, dal culto terrestre della Grande Madre! In natura non c’è nulla di bello. La natura è un potere elementare, rude e caotico. La bellezza è la nostra arma contro la natura: per mezzo di essa facciamo oggetti e diamo loro un limite, simmetria e proporzione. La bellezza arresta e raggela il flusso turbolento della natura.” Mi affascina!

16 Prossimi impegni?

In termini di programmi espositivi poco o nulla a causa della pandemia in corso. Sto pensando ad un nuovo catalogo monografico e presentarlo, magari, in contemporanea ad una personale. In studio procedo con il mio programma lavorativo sempre incentrato sulla produzione di tavole ad olio che, malgrado tutto, prosegue con discreta continuità.

Matteo Lucca. L’opera d’arte come rivelazione

Pane, nutrimento, accoglienza, Terra, Uomo, sono queste le parole chiave della ricerca artistica di Matteo Lucca, nato a Forlì nel 1980 e laureato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. La sua ricerca, che mira a stabilire un dialogo tra Uomo e Terra, si esprime attraverso diversi materiali, ma negli ultimi anni l’artista si è concentrato sull’uso del pane, realizzando sculture e installazioni per diversi contesti tra i quali: 2016 l’installazione “uomini di pane” nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi; 2017 presso Isorropia Home Gallery, Milano e Magazzeno Art Gallery di Ravenna; 2018 un ciclo di mostre presso i musei diocesani.

L’arte di Matteo Lucca è sacrale e rituale, e in tal senso l’opera finita va letta come una parte della Terra che abitiamo e di cui ci nutriamo: noi siamo pane, nutrimento per gli altri ma anche esseri umani piccolissimi di fronte alla maestosità e potenza della Natura, la cui voce si perde tra le nostre frenesie, ossessioni ed egoismi. Lucca si pone con delicatezza nei confronti della Terra e della sua opera da realizzare, perché sa di trovarsi a casa sua e sa che nella Natura c’è tutta la poesia di cui ha bisogno per sentirsi ispirato.

Le sculture di pane, ceramica, creta e terracotta ci ricordano che la Terra può essere anche un luogo da abbandonare e in cui perdersi, un vaso non perfettamente plasmato per noi umani che ci sentiamo padroni del mondo. Per Matteo Lucca invece la Terra è una casa accogliente da preservare senza lasciarsi troppo trascinare dagli slogan ecologisti e ambientalisti. La sua è un’arte primitiva e ancestrale che trasmette calore, da toccare con mano per riscoprire quanto il pane, anche se mangiato tutti i giorni, non stanca mai perché è sempre nuovo e ci riporta indietro nel tempo, all’origine di ogni cosa, ai primi due chicchi di grano che si sono abbracciati per formare il primo pane, il nostro cibo, la nostra rivelazione di fronte alla quale possiamo scoprirci fragili e impreparati; la cifra dell’essere umano.

Matteo Lucca

Lei realizza corpi umani con il pane. Come è nata quest’idea? Pensa che luomo sia così fragile o è solo una trovata artistica?
Il mio lavoro sul pane nasce come un naturale processo di ricerca che sento profondamente legato al mio vissuto personale. La necessità è stata quella rispondere alla domanda: come posso essere nutrimento per l’altro? Questo mi ha portato alla terra, al pane e all’uomo. Per diversi aspetti mi ha condotto verso un’origine simbolica e archetipica legata ai materiali, ai significati, e verso riflessioni sull’essere umano e sul corpo. Dal punto di vista pratico ho realizzato un mio calco in terracotta, ho costruito un forno a legna e lì dentro ho iniziato a cucinare le mie figure di pane. Inizialmente volevo fossero cotte bene perché dovevano essere opere da mangiare (e così è stato) ma non è sempre facile riuscire in questo intento in quanto il mio forno, fatto di bidoni, mattoni e lamiere, insieme al fuoco ingestibile, ha reso le cose difficili. Così, fin dalle prime volte ne sono uscite alcune figure troppo cotte. L’incidente si è fatto rivelatore di qualcosa che ha ampliato le prospettive e le riflessioni fin dall’inizio. Il mio approccio in questo lavoro è quello di essere una guida che interviene il minimo indispensabile: la mia funzione è quella di creare le condizioni affinché si inneschi un processo creativo e pormi piuttosto come accompagnatore di quell’evoluzione che è tendenzialmente autonoma. Il pane dentro allo stampo lievita e si cuoce, dove incontra la forma del corpo la calca, dove trova spazio fuoriesce e cresce liberamente seguendo un suo naturale processo di lievitazione. Il fuoco è l’elemento principale che dà vita a tutto questo. Il mio incontro con l’opera corrisponde alla rivelazione di qualcosa di sempre nuovo e sconosciuto, ma che mi è anche familiare e mi pone domande. A volte quell’incontro è profumato, mi porta in casa ed è denso di vita; altre volte mi porta a dover incontrare e accogliere il qualcosa che mi turba. Penso che questo turbamento abbia a che fare con la fragilità. Sì, penso che l’uomo sia fragile ed è una ricchezza immensa. È quando la fragilità si manifesta che la bellezza si svela o trova la via per esprimersi. È in relazione alla fragilità e al senso di finitezza delle cose che cerchiamo di evolvere. Negare la fragilità significherebbe perdere una parte di noi che ci rende capaci di emozionarci e amare. Significherebbe negare una verità che ci rende autentici e umani.  Quella fragilità vive nelle mie opere perché parlano di vita. Sta nelle crepe, nelle bruciature e nelle parti chiare, sta nelle parti mancanti e prese a morsi o consumate, nelle parti commestibili e non commestibili. Ritengo di avere grande rispetto per l’arte e l’essere umano, e di aver sempre mosso la mia ricerca artistica per soddisfare qualcosa di profondo. La trovata artistica la lascio ad altri con altri bisogni e con un altro senso etico.

Preferisce lavorare il pane o la ceramica?
Attualmente non so fare una scelta tra i due, li sento entrambi necessari, sia per gli aspetti simbolici sia per il diverso rapporto che stabiliscono con il corpo.  Nel pane il corpo è rappresentato ed è veicolo di contenuti. Nel lavoro con il pane, la terracotta è a servizio dell’opera, ma centrale nel processo. Diversamente quando utilizzo l’argilla come media principale, allora la rappresentazione del corpo scompare e diventa centrale l’azione e la relazione diretta del mio corpo sull’argilla. Sento che entrambi i materiali hanno un forte legame tra loro e con me, ma il pane non potrebbe esserci senza la terra.

Bread woman 2017

In un certo senso lei cuoce lessere umano nei forni. Cosa non le piace dellUomo?
È tutt’altro che così. Se si perde di vista il simbolo perdiamo il senso di ciò che realmente accade e si rischia di interpretare male. Nel forno non si cuoce l’essere umano ma vi prende vita. Il forno è simbolicamente inteso come ventre materno dentro il quale si genera la vita. Tutto il processo di panificazione è legato al tema della maternità e del femminile, tanto che anticamente in certe società solo le donne potevano fare il pane perché solo loro hanno confidenza col dare la vita e con l’atto di nutrire. Nonostante le mie opere risultino spesso scomode o inquietanti, tutto il mio lavoro parte dalla vita ed è inevitabile che, ricercando una verità, si presenti nel lavoro che faccio anche la morte perché entrambe parte della stessa cosa.

Qual è il valore sociale della sua arte?
Il valore sta nel tentativo di essere il più onesto e autentico possibile in ciò che faccio, l’arte non è che lo specchio di questo. Cercare di essere veri con sé stessi e di conseguenza con la propria arte è già un valore importante che si consegna alla società.

Cosa significa per lei offrire il proprio corpo come nutrimento per gli altri, quando per molti il corpo è solo un accessorio da portare in giro, da spettacolarizzare, da mercificare?
Per me è una direzione non facile, ma che guida le mie scelte. Essere nutrimento significa esserci per l’altro. Ciò mi mette spesso in contrasto tra il mio tentativo di voler riuscire nell’intento e il non riuscire perché in conflitto con i miei limiti e demoni. La differenza la fa il: “nonostante tutto esserci”.  Una riflessione che a volte ho fatto sul mio lavoro è stata proprio questa: le mie sculture, nonostante le loro parti non commestibili, le loro spaccature e spesso il loro aspetto poco invitante, sono fatte di pane e la loro condizione di esistenza è quella di essere cibo. Esserci, nonostante tutto come nutrimento. Questo aspetto mi fa pensare molto alle relazioni e a come costantemente ci inducono a fare i conti con noi stessi.  Quando il corpo diventa accessorio, spettacolarizzazione e merce perdono il valore di quell’esserci e di vivere quell’incontro. Forse anche questo è una risposta alla fragilità. A volte però è una scelta inevitabile o qualcosa di imposto, allora si apre un altro capitolo di riflessione.

Come ha vissuto e sta vivendo lemergenza Covid-19? Come pensa debba riorganizzarsi anche il sistema arte?
Come per tutti non è stato semplice vivere quel periodo. Non rientro nella categoria degli artisti che hanno avuto bisogno di produrre. Piuttosto è stato per me un momento per fare spazio e raccogliere. Ritengo che da questo punto di vista sia stato utile per me riuscire a fare questo, ci sono stati anche momenti belli e ricchi di intuizioni.  Riguardo il sistema dell’arte non saprei come si dovrebbe riorganizzare. In questo momento si vive il tentativo di rimanere aggrappati “al come è sempre stato” e al timore di muovere passi verso qualcosa di nuovo che rappresenta l’incognita e la paura di fallire. Sicuramente si dovranno riconsiderare i valori di base su cui si poggia la cultura e muoversi in funzione di quelli. Chi avrà il coraggio di fare scelte di senso e contenuti sarà ripagato in futuro, almeno, è ciò che auguro.

Mani, scultura in pane

Quale mostra le ha dato maggiori soddisfazioni?
Premesso che ogni mostra è per me una grande soddisfazione, forse la prima in classifica è quella che ha segnato l’inizio della mia stagione del pane. È stata nel 2016 nel cuore delle Foreste Casentinesi in un altopiano del parco chiamato San Paolo in Alpe. In quell’area avevo collocato 12 opere immerse nella natura. L’unico modo per arrivare era percorrere per mezz’ora un sentiero in mezzo al bosco per poi trovarsi in quello scenario nel quale si trovano ruderi di vecchie abitazioni contadine e di una chiesa. Era molto forte la relazione tra le mie figure, i ruderi ed il paesaggio. Senza parlare dell’odore del pane di quando si stava sotto vento. A quel primo evento ne sono seguiti altri, fra cui la prima mostra fatta con Isorropia Homegallery che ha rappresentato un altro momento decisivo della mia crescita.

Progetti in cantiere?
Per ora due mostre in Cina, per le quali spedirò a breve le opere, e un progetto teatrale nel quale sarà in scena un mio lavoro.

Si sente per certi versi un artista ambientalista?
Mi piacerebbe, ed esserlo di più. Diciamo che rappresenta un obiettivo e che ancora non mi sento di definirmi tale. Ma se osservo alcuni aspetti del mio lavoro nei materiali e nei contenuti allora posso essere tra gli ambientalisti. Non in una maniera diretta come potrebbe fare un attivista, ma in un modo in cui la riflessione che faccio sull’uomo va in una direzione naturale in cerca di un’autenticità della vita.

‘Raffaello e l’eco del mito’ in mostra dal 27 gennaio 2018 al 06 maggio 2018 a Bergamo

Raffaello è il protagonista della stagione espositiva 2018 di Bergamo con la grande mostra Raffaello e l’eco del mito che anticipa le celebrazioni dell’anniversario, nel 2020, dei 500 anni dalla morte del maestro urbinate, attraverso un inedito percorso di oltre 60 opere, provenienti da importanti musei nazionali e internazionali e da collezioni private. Il progetto scientifico della mostra ha preso avvio dal San Sebastiano di Raffaello, il capolavoro giovanile parte delle raccolte della Carrara, non solo protagonista di una sezione dedicata ma centro dell’indagine espositiva che si sviluppa attraverso vari capitoli: le opere dei “maestri” come Giovanni Santi, Perugino, Pinturicchio e Luca Signorelli, raccontano la formazione; un significativo corpus di opere di Raffaello ne celebra l’attività dal 1500 al 1505; infine, il racconto del mito raffaellesco si sviluppa in due sezioni, la prima ottocentesca e la seconda dedicata ad artisti contemporanei.

Gli anni giovanili di Raffaello sono caratterizzati da una continua capacità di innovare i canoni linguistici del suo tempo, come testimoniano i 14 capolavori presenti, dalla Madonna Diotallevi di Berlino alla Croce astile dipinta del Museo Poldi Pezzoli, dal Ritratto di giovane di Lille al Ritratto di Elisabetta Gonzaga degli Uffizi, fino al San Michele del Louvre, parte di un dittico commissionato ai primi del Cinquecento da Guidobaldo da Montefeltro insieme al nipote Francesco Maria della Rovere.
Per la prima volta, inoltre, vengono riunite in Europa tre componenti della Pala Colonna (dal Metropolitan Museum of Art di New York, dalla National Gallery di Londra e dall’Isabella Stewart Gardner di Boston) e tre componenti della Pala del beato Nicola da Tolentino (dal Detroit Institute of Arts e dal Museo Nazionale di Palazzo Reale di Pisa), a testimonianza dell’eccezionale contributo critico che l’esposizione intende presentare.

Anticipa la sezione delle opere autografe, un capitolo dedicato all’ambiente culturale in cui Raffaello crebbe, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, soffermandosi sulla corte dei Montefeltro a Urbino, attraverso l’opera del padre Giovanni Santi, capo di una fiorente bottega, scrittore e attore di cerimoniali, di Perugino, di Signorelli e di Pinturicchio, artisti dei quali è in alcuni casi allievo, in altri semplicemente acuto osservatore, in altri ancora collaboratore.

Raffaello: Attorno al San Sebastiano. Genealogia di un’immagine

Proveniente dal lascito di Guglielmo Lochis, che dona dopo la metà dell’Ottocento la sua raccolta alla città di Bergamo, il San Sebastiano è, all’interno del percorso espositivo, posto in dialogo con opere di autori che hanno affrontato sia lo stesso tema iconografico sia il genere del ritratto sullo sfondo di paesaggio – invenzione per eccellenza della cultura fiamminga – di cui sono presenti alcune testimonianze, dal Ritratto d’uomo di Hans Memling al San Sebastiano di Pietro de Saliba fino alle due opere Ritratto di giovane come San Sebastiano di Giovanni Antonio Boltraffio e Marco d’Oggiono, allievi di Leonardo a Milano.

San Sebastiano

La fortuna nel primo Ottocento: un mito che rinasce

La fama di Raffaello, già mito in vita, è destinata a propagarsi come un’eco lungo i secoli, in particolare nell’Ottocento, dove il fascino esercitato dalla sua vicenda artistica, tanto breve quanto intensa, alimenta storie di fantasia di derivazione romantica, tra arte e umane passioni. Ne è l’emblema il dipinto La Fornarina in prestito dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma – Palazzo Barberini, inesauribile fonte di ispirazione di cui sono esempi in mostra le opere di Giuseppe Sogni, Francesco Gandolfi, Felice Schiavoni, Cesare Mussini. L’eco nella contemporaneità
Il fascino dell’opera di Raffaello, che ha proseguito il suo sviluppo nel Novecento e fino ai giorni nostri, è alla base di un ulteriore capitolo d’indagine dell’esposizione, a cura di Giacinto Di Pietrantonio. Opere sotto forma di citazioni, tributi, ritratti ‘in veste di’, rivisitazioni iconografiche di celebri artisti quali, tra gli altri, Giorgio de Chirico, Pablo Picasso – di cui la mostra ospita anche un dipinto in prestito dalla Pinacoteca di Brera -, Luigi Ontani, Salvo, Carlo Maria Mariani – con un lavoro proveniente dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma – ma anche Christo, Francesco Vezzoli e Giulio Paolini, che ha realizzato anche l’inedito Studio per Estasi di San Sebastiano installato nello spazio di norma occupato in Accademia Carrara dal San Sebastiano di Raffaello (Sala 4): un simbolo di dialogo tra i due artisti e di collegamento ideale tra l’Accademia Carrara e la GAMeC.

L’allestimento di Raffaello e l’eco del mito è stato progettato da De8 Architetti e Tobia Scarpa e accompagna il visitatore lungo le sezioni della mostra, valorizzandone il carattere di ricerca anche grazie al progetto grafico di Felix Humm e il copywriting di Gigi Barcella.

Inutile sottolineare come Raffaello sia uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, celebri le sue opere come La scuola di Atene, la già citata Fornarina,  La Crocifissione, Lo Sposalizio della Vergine, dove è evidente il confronto con gli spunti compositivi del Perugino, di cui Raffaello divora le novità, reinserendole all’interno delle proprie categorie artistiche, che restano essenzialmente urbinati, nell’importanza attribuita alle misurazioni spaziali e alla naturalità delle espressioni, sempre controllate attraverso lo strumento del disegno dal vero. Nel percorso lavorativo di Raffaello inoltre deve essere stata di fondamentale importanza la partecipazione, come progettista, al cantiere della libreria Piccolomini a Siena, affidata nel contratto del 1502 al solo Pinturicchio. A questa impresa è collegata probabilmente la commissione del dittico col Sogno del cavaliere e Le tre Grazie, eseguite per Scipione Borghese, in cui Raffaello si confronta con raffinati temi umanistici. Raffaello sente parlare dei primi disegni di Leonardo per La battaglia di Anghiari e desideroso di conoscere le novità del maestro, si fa raccomandare dalla sua protettrice, la duchessa di Senigallia, con una lettere inviata al gonfaloniere della Repubblica fiorentina, Pier Soderini. Viene infatti accolto a Firenze alla fine del 1504. Durante il soggiorno fiorentino l’artista urbinate sperimenta più volte il tema della Madonna con Bambino e realizza i ritratti per i coniugi Doni, dipinge per i Montefeltro il dittico con San Giorgio e il drago e San Michele Arcangelo, mentre per la cappella funeraria della famiglia Baglioni in San Francesco al Prato, a Perugia, realizza il celebre Trasporto di Cristo destinato ad esprimere il dolore della committente, Atalanta Baglioni, per la morte del figlio.

A partire dagli ultimi mesi del 1508, Raffaello si trasferisce a Roma e, grazie, all’intermediazione del suo conterraneo Bramante, ottiene da Giulio II l’incarico di dipingere la stanza della Segnatura e la stanza di Eliodoro. Sotto Leone X la sua attività in Vaticano diviene proteiforme: progetta e dipinge solo in parte la stanza dell’Incendio di Borgo, lavora ai cartoni per gli arazzi della Sistina, diviene architetto della nuova Basilica di San Pietro e di tutti i cantieri Vaticani, sovrintende la conservazione dei marmi antichi. Oltre agli impegni per i Papi, Raffaello riesce a lavorare per altri committenti illustri, fra i quali Agostino Chigi (celebre Il trionfo di Galatea) e a realizzare numerose pale d’altare, ritratti e progetti architettonici e palazzi nobiliari. La morte lo coglie nel 1520 mentre è intento a realizzare la splendida Trasfigurazione di Cristo, che, secondo il racconto del Vasari, viene esposta insieme al suo corpo “facendo scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”.

 

Fonte:www.arte.it/calendario-arte/bergamo/mostra-raffaello-e-l-eco-del-mito-44417

Exit mobile version